Il contributo Yoruba a una esperienza decoloniale e postumana del Sé
Bayo Akomolafe
Wifredo Lam — Sombre Malembo, Dieu du carrefour -1943
In molte cosmologie africane, una dinamica di chiamata-e-risposta dialogica fa parte del modo in cui guardiamo il mondo. Nella musica yoruba, per esempio, è molto probabile che il cantante intoni i suoi versi all’interno di un’ecologia di molte altre voci che sostengono il suo canto, rispondono alle sue domande o enfatizzano una traccia o un testo che il cantante sta tentando di sviluppare. È qualcosa di molto diverso dal rapporto di dipendenza che una band ha con il suo cantante. L’agire musicale poggia su questa continua mediazione, particolarmente evidente nella musica juju e nell’highlife. A volte l’accompagnamento musicale sottostante passa in primo piano, in un rovesciamento della prospettiva che esprime un fluido rifiuto dei ruoli statici. Questo è il ritmo che impregna il nostro mondo.
Non è presente solo nella musica, ma anche nel modo in cui balliamo e nel modo in cui comunichiamo. (…) Mi sono spesso accorto di essere più portato e più capace di eloquenza poetica quando parlo davanti a un pubblico che può mugolare la sua approvazione, o vocalizzare la sua presenza in un qualche modo.
Quando gli Yoruba rispondono con asé [ashé]… aderiscono a questa modalità di chiamata-e-risposta ma includendo le cose stesse. Asé. solitamente parafrasato come il cristiano “Amen” o il “Così sia” dell’etimologia ebraica, è qualcosa di più di un assertivo voto di assenso. Nella tradizione Ifá è una filosofia che informa ogni cosa, che propizia il cambiamento, che motiva la terra a respirare e i cieli a vomitare pioggia.
Alcuni studiosi definiscono l’asé come “un dar forma; una legge; un comando; un’autorità; un’ingiunzione; un’imposizione; un potere; un precetto; una disciplina; un’istruzione; un canone; un vincolo; un documento; una virtù; un effetto; una conseguenza; un’imprecazione”. Imhotep scrive che asé è una parola straordinariamente complessa, una parola polisemica che “non significa nulla di particolare, eppure investe tutte le cose, esiste ovunque come garanzia di ogni attività creativa”, e suggerisce che il suo tema di fondo sia il “potere”.
In altre parole, asé è il suono dell’euforica “dimensione partecipativa” di tutte le cose. La tonalità dell’incontro. La premessa del cambiamento e la firma della speranza. È la cosmologia della via di mezzo, quella che suggerisce che il potere non sta né in questo né in quello, non si nasconde nelle forme della lingua e nemmeno in un lontano altrove. Il divino è disseminato in ogni cosa. Asé potrebbe benissimo allinearsi con la forza performativa della polvere.
Vale la pena di ricordare che asé è considerato la forza vitale custodita da Èsù, la divinità-trickster del pantheon Yoruba, che nell’abracadabra delle forzate e superficiali interpretazioni coloniali venne rapidamente equiparato a Satana, forma diabolica funzionale alla sete cristiana di dualità. Ma Èsù è qualcosa di più del diavolo e non deve essere sostituito da quel fantasma che infesta le nozioni cristiane di male incarnato, come dice bene Funso Aiyejina:
La definizione di Èsù rimasta nell’immaginario popolare euro-cristiana lo accusa di essere il diavolo/Satana. Questa definizione è stata elaborata dal vescovo Samuel Ajaiyi Crowther (1806-1891) che, nella sua pionieristica traduzione della Bibbia in yoruba, aveva scelto Èsù come equivalente yoruba del Satana cristiano. In A Dictionary of the Yoruba Language, pubblicato nel 1913 dalla Church Missionary Society Bookshop di Lagos, in Nigeria, Èsù è stato tradotto con la parola diavolo, una definizione che verrà ripetuta, anche se accanto ad altre definizioni yoruba più tradizionali, nel Dictionary of Modern Yoruba della London University del 1958.
Aiyejina prosegue elencando l’incredibile lista di successi di Èsù, il suo curriculum cosmico.
Nella filosofia yoruba, Èsù emerge come trickster divino, artista del travestimento,mistificatore, un ribelle che sfida l’ortodossia, un mutaforma e una divinità esecutrice.Èsù, il custode dell’asé divina con cui Olodumare ha creato l’universo; una forzaneutrale che gestisce l’equilibrio tra poteri soprannaturali benevoli e malevoli; ilcustode dei responsi oracolari di Orunmila. Se Èsù non aprisse i portali del passato edel futuro, Orunmila, la divinità responsabile della divinazione, resterebbe cieca. Inquanto forza neutrale, si colloca a cavallo di tutti i regni e agisce come fattoreessenziale in ogni tentativo di risolvere i conflitti tra forze contrastanti e tuttaviacontigue. Anche se a volte viene rappresentato come capriccioso, Èsù non si fatrascinare da alcuna emozione. Sostiene solo chi compie i sacrifici prescritti e dunqueagisce in conformità con le leggi morali dell’universo stabilite da Olodumare. In quantodivinità dell’orita – una parola che viene spesso tradotta con crocevia, ma che in realtà èun termine più complesso che si riferisce anche al cortile di una casa, o al portale deivari orifizi corporei – Èsù ha il compito di consegnare i sacrifici alle divinità a cui sondestinati. Gli Yoruba ritengono che, senza il suo intervento, nessun sacrificio, perquanto sontuoso, potrà essere efficace. Filosoficamente parlando, Èsù è la divinità dellascelta e del libero arbitrio. Così, se Ogun è la divinità della guerra e della creatività. E Orunmila quella della saggezza. Èsù è la divinità della chiaroveggenza, dell’immaginazione e della critica – letteraria e non. Èsù, nel ruolo di trickster che scombina i fili del ripiglino da cui tutto emerge, è la personificazionedi asé. Èsù il Messaggero Divino tra Dio e l’uomo. Èsù siede al Crocevia. Èsù l’Orisha che offre scelte e possibilità, Èsù. il guardiano, il guardiano della soglia. Èsù salvaguarda il principio del libero arbitrio. Èsù il custode di asé.
Sono particolarmente felice di sapere che Èsù siede al crocevia, e dove altro potrebbe sedersi, in realtà? Se asé si articola come risposta, nell’enigmatico mezzo della realtà, nel frattempo che connette, allora il suo custode non potrà che essere un fenomeno del crocevia. E il fatto che Èsù si trovi proprio lì, al crocevia, mi sembra evocare un giocoso compagno concettuale: la nozione di diffrazione – quel fenomeno ottico che “perturba la nozione stessa di dicho-tomia – di ciò che resterebbe scisso– grazie a quel presunto atto singolare di differenziazione assoluta, che vorrebbe fratturare questo da quello, ora da allora”, come suggerisce Karen Barad. Questo concetto di diffrazione corrisponde a una nozione decoloniale di sé e di identità che Barad riprende citando Trinh Minh-ha:
l’identità così come viene intesa da una certa ideologia del dominio è stata a lungo una nozione fondata sull’idea di un nucleo essenziale e autentico nascosto alla coscienza, che richiede l’eliminazione di tutto ciò che viene considerato estraneo o non fedele al sé cioè non-io, altro. In tale concezione l’altro, quasi inevitabilmente opposto all’io, sottomesso al dominio dell’io, è sempre condannato a restare la sua ombra, proprio mentre tenta di diventare suo pari. L’identità, così intesa, suppone che si possa tracciare una linea di demarcazione netta tra io e non-io, tra lui e lei; tra profondità e superficie, o tra identità verticali e orizzontali; tra noi qui e quegli altri laggiù.
Questo brano è tratto da Queste terre selvagge di là dallo steccato di Bayo Akomolafe, a maggio in libreria per i tipi di Exòrma
OVVERO “IL MITO DEL RICERCATORE NELLA GABBIA DORATA”
Bayo Akomolafe
Una storia
Da dove vengo io, da qualche parte nella regione centro-occidentale della Nigeria, in Africa occidentale, dove il popolo Yoruba ha fatto casa per generazioni, c’è una storia istruttiva su Ìjàpá, la tartaruga, che è anche nota come trickster nei racconti folcloristici Yoruba – una storia che getta un po’ di luce su quella che potrebbe essere una diversa ontologia della ricerca. In questa storia, Ìjàpá acquista una zucca calabash essiccata, famosa per il suo collo di bottiglia e buona per conservare il vino di palma. Lega una corda al collo della zucca e se lo appende al collo per partire alla ricerca di tutto ciò che c’è da sapere su tutto.
Va dall’aquila per imparare il potere del volo, dal falò per scoprire i segreti del calore, dalle nuvole malinconiche per capire come si formano le gocce di pioggia e nel villaggio degli uomini per capire perché i bipedi sono così irrequieti e impazienti. Ogni volta che acquisisce nuove conoscenze, le raccoglie come si farebbe con un boccone di patate dolci pestate, e poi le spreme nella sua zucca che tiene appesa al collo.
Ben presto la zucca è piena e Ìjàpá è assolutamene certo di essere il più saggio di tutti gli esseri. Forse più saggio persino degli dei. Accumula la sua scorta di conoscenze per giorni e giorni. A un certo punto decide che sarebbe meglio nascondere da qualche parte quel prezioso carico. Così entra nella foresta per cercare l’albero più alto e nessun albero è più alto del possente albero di iroko. Nel cuore della notte, lontano da occhi indiscreti, fa un primo tentativo di scalare l’albero. Ma, come forse sapete, la tartaruga non è molto abile ad arrampicarsi sugli alberi. I suoi arti non sono abbastanza agili e lunghi per abbracciare il corpo voluttuoso dell’albero. Inoltre, con il peso della zucca piena che porta al collo, scalare l’albero fino in cima è un’ardua impresa.
Proprio mentre sta per arrendersi, la tartaruga sente qualcosa che fruscia nell’erba lì accanto. Salta fuori la cavalletta che dice a Ìjàpá, di aver osservato tutta notte le sue peripezie. “Mi hai fatto schiattare”, ridacchia la cavalletta indispettendo Ìjàpá. “Ma dai”, continua l’insetto, “potresti portare sulla schiena, invece che sulla pancia, quello che tieni in quella zucca. Vedi un po’ se non ti funziona meglio”. E senza tanti giri di parole, l’insetto salta via.
La tartaruga riconsidera la sua strategia, riesce a scalare l’albero e si ferma in cima per ragionare su quello che è appena successo. Si rende conto della sua follia. “No non sono poi la più saggia”, confessa a sé stessa. “Forse non è raccogliendo conoscenze che si diventa saggi”. Solleva la zucca e ne rovescia il contenuto restituendolo al mondo.
La follia della tartaruga: che fare di un mondo che trabocca
La storia della tartaruga, mi veniva raccontata in Nigeria da bambino. L’ho letta nei libri e l’ho sentita alla tele. Da allora ho dimenticato quali insegnamenti avrei dovuto trarre dall’ascolto e dalla lettura. Insegnamenti che probabilmente avevano a che fare con l’umiltà, l’obbedienza ai genitori e la memoria del privilegio di avere una comunità.
Alla fine mi sono lasciato alle spalle tutte quelle storie come cose infantili che non avevano nulla a che fare con il mondo degli adulti in cui avrei dovuto vivere: il mondo degli ismi e delle lauree e dei panel e degli intellettuali africani che ci passavano le riflessioni degli uomini bianchi del XVIII secolo che la sapevano più lunga di noi.
Per la maggior parte della mia vita accademica, mi è stato detto che la conoscenza era una cosa fissa, già incartata in pacchetti deterministici di relazioni causa-effetto. Il mondo era fondamentalmente dotato di senso, sempre aperto all’analisi razionale, eventualmente scopribile nella sua interezza (una teoria del tutto, no?), e decisamente muto e morto se messo a confronto con l’intelligenza e l’agenzia dell’ “umano”.
Un mondo del genere, privo di mistero e incanto, descritto in modo così esaustivo da maschi bianchi benestanti, cominciò a sembrarmi problematico e sospettosamente unilaterale. Ho iniziato a indagare gli effetti della colonizzazione sui modi con cui inquadriamo la conoscenza, la guarigione, il benessere, l’economia, la politica e la speranza. Alcune figure come Wole Soyinka, Chinua Achebe, Walter Rodney e Jorge Ferrer mi hanno spinto a intraprendere un percorso decoloniale – non di riallineamento con un passato “originale” come quello che qualcuno sperava di ritrovare, ma in una dimensione fuggitiva in cui poter percepire responsabilmente il molteplice sotto il baldacchino dell’universale.
Ho iniziato a parlare e a scrivere di altri mondi, di altri luoghi e della figura razzializzata dell’ “umano”. L’Antropocene stava già diventando un tormentone in un’etica planetaria che cercava di riconciliare gli esseri umani. Per cercare di decostruire la duplicità di questi contributi eurocentrici, mi sono rivolto alle teorie femministe, alla pensiero critico ecosistemico del neo-materialismo, che già si erano impegnati a denaturalizzare gli sforzi della scienza illuminista nel produrre conoscenze del genere “cosa fatta capo a”. Per me, la lotta consisteva nel disturbare la tesi coloniale dell’unicità del mondo e le sue pretese di esclusività. Questi concetti, che non vanno intesi come una verità rivelatrice o deve essere preso come divino o “nuovo”, mi hanno aiutato a capire che la scienza non è solo un’idea.
E poi, ancora una volta, mi sono imbattuto nella tartaruga. Non mi aspettavo che le storie della mia infanzia avrebbero avuto un grande significato per la mia vocazione decoloniale, ma rileggendo i testi sulla tartaruga e le sue avventure, e su Eshu, il dio trickster che si era imbarcato con gli schiavi yoruba miei antenati, sono rimasto colpito dalla loro implicita potenza: parlavano di un mondo fluido in cui la conoscenza era “impossibile” – almeno quel tipo di conoscenza che segnalerebbe qualcosa di risolutivo, definitivo, chiuso. Molto prima che Donna Haraway scrivesse di “conoscenze situate” e incarnate, queste storie esprimevano ciò che gli Yoruba avevano intuito: che conoscere il mondo significa segnarlo ed esserne contemporaneamente segnati. Che non esiste una conoscenza esterna che non coinvolga il conoscente nell’atto materiale di conoscere. Che la ricerca e il ricercatore sono co-prodotti dall’atto di conoscere – una nozione che ridefinisce la centralità del conoscente.
La storia di Ìjàpá mette in evidenza la materialità del conoscere. Sconvolge il fondazionalismo della conoscenza e invita il conoscitore a rivedere le sue pretese. Il racconto sottolinea una tensione che gli studenti del “neomaterialismo”(1) frequentano e che è abilmente sintetizzato dal proverbio Igbo: “Il mondo è una mascherata danzante; se lo si capisce, non si può restar fermi”. Il proverbio allude a un’idea di mondo che resiste alla stabilizzazione generata dal supposto sguardo esperto, un mondo che sfugge alle dinamiche di verifica dei laboratori, che vaga, istiga e si fa beffe dei tentativi umani di finalizzazione, e che fa muovere e danzare gli esseri umani per costringerli a negoziare con la sua astuta e imprevedibile promiscuità.
Per gli Igbo della Nigeria, la conoscenza (così come l’etica) è cinetica: conoscere il mondo significa alterare ciò che si conosce ed essere alterati dalla materialità del conoscere. Navigare nel mondo significa rendere possibili certi tipi di conoscenza ed escluderne altri.
In un senso molto tattile, quindi, conoscere il mondo, conoscere qualsiasi cosa, significa dar forma e mettere in scena il mondo – e allo stesso tempo prender forma ed essere formati. Per esempio, saper riparare i computer significa avere il proprio corpo segnato e modellato da questa disciplina; passare il tempo a lavorare in un cubicolo (2) significa diventare una creatura del cubicolo. Il fare misurazioni ha una dimensione più ampia di ciò che si misura. qualcosa che dà forma al fenomeno del misurare.
Non abitiamo un universo indipendente dall’osservazione, in cui l’essenza della conoscenza consisterebbe nel cogliere o rappresentare in modo adeguato fenomeni “naturali” come ossa, batteri e buchi neri. Invece interveniamo così intimamente quando rispondiamo alla “natura” che la modifichiamo in modo fondamentalmente anche solo interagendo con essa, anche solo descrivendola, e sia noi che la “natura” (come se le due cose potessero essere separate) ci trasformiamo nello stesso momento.
Conoscere significa mettere in atto il mondo; conoscere significa modificare il presunto oggetto della nostra cognizione. Osservare significa alterare ciò che osserviamo. Abbiamo più possibilità di catturare il nostro riflesso in uno specchio che di comprendere il mondo come se fosse un contenitore fatto di oggetti intelligibilmente discreti e separati con proprietà fisse che attendono le nostre misure precise.
Tendiamo a immaginare il pensiero come qualcosa di completamente spettrale, immateriale, trascendente e ultraterreno – e la vocazione a conoscere come una registrazione del tutto esterna dei codici invariabili e determinabili del mondo materiale. Una simile immaginazione posiziona noi “umani”, come se vivessimo al di fuori del mondo e allo stesso tempo rende centrali e amplifica le nostre attività sul pianeta.
Ciò che la storia della tartaruga e il proverbio Igbo ci insegnano, rilette oggi attraverso nuove intuizioni materialiste, è che il pensiero, o il pensare, nasce da un movimento materiale di corpi (non necessariamente umani e persino non animati) che danzano insieme. Una rivitalizzazione performativa del pensiero corporeo come matrice rizomatica tentacolare che intreccia i corpi in una rete in continuo divenire. Il modo in cui conosciamo ha a che fare con i movimenti che facciamo. Non riflettiamo sul mondo, lo mettiamo in atto. Allora fare ricerca non significa catalogare il mondo accumulando dati consumabili, ma toccarlo e trattenere il respiro ed essere toccati in una restituzione orgasmica, e poi secernere “esempi” sufficientemente stabili (invece di categorie o prototipi paradigmaticamente fissi). Prestare attenzione al mondo diventa un poter fare in tensione artistica con il mondo; assistere alla caduta in rovina dei nostri ambienti significa testimoniare insieme la nostra fine collettiva.
Questa visione della conoscenza è particolarmente congrua oggi nell’era ormai nota a molti dell’Antropocene – un termine controverso coniato nel 2000 da Paul Crutzen e Eugene Stoermer che assegna un nuovo nome geologico all’epoca post-olocenica in cui presumibilmente viviamo. Questo nome sottolinea gli effetti negativi dell’attività antropica e le tracce tossiche dell’industrializzazione che la documentazione geo-stratigrafica rivela. Il termine è controverso perché accomuna [nel riferimento all’ Anthropos] tutte le comunità umane, come se tutte fossero state ugualmente complici in questa modalità di “conoscere” il mondo in modi ormai riconosciuti come deleteri. Ciò che è importante notare è che il termine ha avuto una certa utilità nel suscitare una conversazione (per quanto sbilenca e parziale) che rivela un’insurrezione di corpi un tempo invisibili: è come se il mondo non umano e le ecologie che hanno a lungo sovvenzionato le nostre pretese di centralità e superiorità si stessero ribellando, ritirando il loro consenso e irrompendo attraverso le mura accuratamente consacrate delle civiltà che abbiamo costruito dalla fine dell’era glaciale. Il mondo fa spallucce e, nella sua critica torrenziale agli insediamenti moderni, mette in discussione i modi di conoscere che hanno reso “noi” abitanti umani così problematici.
Volendo navigare il contrasto tra una nozione relazionale/ecologica/non duale di conoscenza e una dualistica, aggiungerò qualcosa.
Uno dei modelli moderni di conoscenza – quello che si può chiamare il mito del ricercatore privilegiato ma in una gabbia dorata – separa il conoscitore dal mondo, immagina entrambi a partire da categorie binarie separate. Il conoscente sarebbe un soggetto dotato di capacità pre-relazionali in grado di rappresentare il mondo così com’è. Il conosciuto se ne starebbe in un’esteriorità passiva in attesa che vengano impiegati gli strumenti e le misure appropriate per rivelare le sue dimensioni nascoste.
In questa cosmologia eurocentrica di rappresentazioni e descrizioni, il mondo resta in attesa di essere svelato. L’umano resta sovrano. Essere istruiti significherebbe conquistare gli strumenti adeguati per temperare la ferocia della natura e per attingere alle sue risorse. L’accento sull’ estrattivismo coloniale non è un caso: il rappresentazionalismo è una performance del sapere impegnata a privilegiare il soggetto umano come conoscitore privilegiato e oscura il ruolo dell’ambiente nel produrre non solo la conoscenza, ma anche colui che è “supposto sapere”. È una dialettica di soggetto contro oggetto, di conoscente contro conosciuto. Questa dinamica che presuppone che il vero sapere sia un riflesso speculare dell’immagine del conoscente, è al centro del moderno progetto illuminista e struttura l’università coloniale. L’indagine si basa sul controllo, sulla previsione, sulla descrizione e sulla strumentalizzazione. Naturalmente, questa epistemologia ha favorito a lungo gli uomini bianchi e ha oggettivato i corpi neri e le donne.
Come già accennato, la modernità anela alla stabilità e all’uniformità. Vuole indicizzare il mondo, categorizzarlo, stabilizzarlo e renderlo funzionale ai nostri obiettivi (per “nostri” si intenda “moderni e bianchi”). L’avvento dei big data e la continua Google-izzazione del mondo sono solo esempi di come il mondo moderno costruisca il suo sapere. Tuttavia, come la tartaruga nella storia Yoruba, nell’Antropocene la modernità si trova di fronte a uno scandalo e non se ne capacita: gli eventi degli ultimi decenni hanno turbato quella versione lineare della conoscenza. Siamo testimoni di un mondo che si rovescia, di un mondo che devia dalle categorie assegnate, di un mondo che supera le nostre modalità di rappresentarlo.
Questo imbarazzante eccesso di mondo mette in discussione la nostra centralità colonizzatrice, costringendoci (3) a prendere atto di come abbiamo ridotto il mondo a nostra immagine e somiglianza.
Prima dell’introduzione del termine Antropocene, i movimenti femministi del cosiddetto “Nord e Sud globale” hanno lottato per dare potere alle donne in un sistema dominato dagli uomini e, in tempi più recenti, hanno sottolineato come anche la relazione con l’ambiente sia stata dominata dal patriarcato bianco. Gli ecofemminismi, i nuovi materialismi e i postumanesimi critici sono nati da questo impegno energico, dalle domande sulla vitalità delle ecologie, sull’influenza della terra sul pensiero e sull’interdipendenza degli esseri umani. Queste nuove discipline segnalano una “svolta” un “riorno” verso la natura – non la natura come risorsa, ma la natura come agency, come continuità vitale che resiste a ogni articolazione definitiva.
Ri/volgersi alla natura
Molte saggezze indigene non occidentali hanno preceduto questi sviluppi accademici. Da sempre parlano di una terra viva, di un mondo animato che non si limita ad assecondare i nostri ansiosi desideri di intelligibilità. Gli Yoruba, per esempio, parlano di “Awon Iya Wa” ovvero delle “Nostre Madri” come di una misteriosa forza terrestre, fonte segreta di potere che si manifesta e incarna maestosamente, nei corpi delle madri anziane. Queste vengono chiamate “Aje”, che i contenitori concettuali coloniali hanno tradotto con “Strega”. I concetti yoruba di “aje” e “aśe” sono simili alla forza misteriosa di “Manitou” ben nota ai popoli algonchini. La ricercatrice indigena Vanessa Watts parla di un “pensiero del luogo”, un concetto che de-sacralizza gli umani e situa la persona in una dimensione relazionale che procede dalla terra. Anche la ricercatrice occidentale N. Katherine Hayles scrive di reti cognitive non coscie, dimostrando che la “mente” e le sue presunte proprietà non si celano nel cranio. In altre parole siamo estensioni performative degli ambienti che abitiamo.
In breve, questi campi indicano la possibilita di una diversa ontologia della ricerca e mettono in discussione le abitudini eurocentriche delle modalità di rappresentazione e osservazione. Ancora una volta, conoscere il mondo non significa porsi in una posizione di fredda esteriorità; conoscere significa riconfigurare ciò che si conosce ed essere a propria volta riconfigurati. C’è un’intima reciprocità che lega “soggetto” e “oggetto” in uno stretto intreccio relazionale
Il richiamo dell’ecoversità
La promessa delle ecoversità, a mio avviso, risiede nella destabilizzazione dell’umano come categoria separata e del mondo come qualcosa di stabile da conoscere o da ricercare, nel senso passivo del termine. Le ecoversità di oggi possono contribuire collettivamente a disturbare le forme di indagine “umaniste” che abbiamo adottato e che hanno contribuito a generare indifferenza nei confronti delle agenzie più-che-umane che ci plasmano. Possono contribuire a segnalare la fine del progetto illuminista, del soggetto indorato e del ricercatore privilegiato.
L’ecoversità è l’ambiente del ricercatore postumanista. Con “ricercatore postumanista” non intendo il filosofo addestrato all’arte di pensare la porosità della figura umana o il postumano. Se dico “ricercatore” non intendo privilegiare lo sguardo umano. Con ricercatore postumano mi riferisco all’intreccio di soggetti-oggetti ancora da nominare; intendo dire che il mondo è così ricco, così abbondante, che supporre di essere gli unici incantati da questa meraviglia significa perpetuare una sorta di cecità oggi particolarmente problematica; intendo richiamare l’attenzione su coalizioni più ampie e selvagge di cui abbiamo sempre fatto parte; Intendo dire che gli alberi, i cetacei e le comunità batteriche che vivono come ecosistemi immigrati nelle viscere umane stanno conducendo una propria ricerca; e vorrei fare un cenno agli antenati che indugiano in luoghi spettralmente ontologici [hauntological sites], infestando i nostri mobili e alludere ai corpi esotici/mostruosi che disturbano la fissità di ciò che significa essere umani; intendo cantare un mondo che è più-che-mondo, più-che-sapere, più-che-essere, sempre in divenire.
L’ecoversità non può che resistere a mappature definitive, ad articolazioni finali, perché ci invita a un’alterità inquietante, e ad abbracciare altri spazi di potere al di fuori delle torri d’avorio e del loro umanesimo liberale (o forse in dimore troiane clandestine). L’ecoversità è un “non dire” apofatico, un rifiuto di essere assolutamente certi di cosa sia una foglia, il rifiuto di strumentalizzare il mondo con certezze tali da togliergli ogni meraviglia. L’ecoversità è una postura di umiltà, in un universo incommensurabile che ridimensiona il privilegiato conoscitore umano – è un ritrovarsi nelle crepe dell’asfalto riconoscendo che il non sapere non è meno prezioso delle abilità e dei gesti che reifichiamo come sapere, anche se solo per un istante. L’ecoversità è ciò che potremmo fare se ci immaginassimo all’improvviso su un pianeta alieno, immersi nell’eccentricità di un mondo che non risponde alle nostre solite spinte, alle nostre provocazioni, ai nostri atteggiamenti etici e alle nostre razionalizzazioni puritane, e se ci rendessimo conto di essere in una situazione che in buona parte ci sfugge.
Toccare il mondo ed essere toccati a nostra volta
Lo scrittore e professore di Black Studies, Fred Moten, parla dello studio come del superamento dei contenitori in cui lo abbiamo rinchiuso. Proprio come la musica non inizia quando il direttore d’orchestra entra nella sala e impugna la bacchetta, ma prende forma nell’attesa e nella preparazione che precede l’evento poi permea il godimento nell’esecuzione e indugia anche dopo, nelle conversazioni all’esterno dell’auditorium, studiare è un’impresa più complessa e selvaggia di quanto si ritenga. Questo vale anche per la ricerca.
Che aspetto avrebbe la ricerca se immaginassimo che si svolge al di là dei documenti, dei laboratori e delle pratiche di peer review? E se anche le radici stessero conducessero una ricerca sul campo? Magari in questo momento le particelle virtuali stanno svolgendo una loro ricerca sul mondo nel suo essere-divenire. E se la ricerca significasse metterlo al mondo il mondo? Immaginare questo significherebbe decentrare la funzione umana (soprattutto la figura maschile bianca e benestante) dagli algoritmi della ricerca. Momenti apparentemente insignificanti, casuali e per lo più invisibili, verrebbero considerate forme di ricerca.
Le nonne che raccontano ai bambini storie della buonanotte sarebbero una forma di ricerca. Condividere sentimenti di gelosia in una cerchia di amici e sconosciuti sarebbe una forma di ricerca sull’ontologia della gelosia – non per scoprire cosa “sia” la gelosia in una qualche riduzionistica modalità, ma per sentire come si sta manifestando, per percepire l’inappropriatezza delle nostre categorie e per essere aperti a quali altre questioni potrebbero emergere. Sì, anche il sentire potrebbe essere considerato costitutivo di come il mondo vien messo al mondo, all’interno di un arazzo di affetti che va oltre le impressioni atomistiche dei nostri sé individuati e che coinvolge nella sua eccessività corpi ancestrali, segreti, rituali, poteri e profezie.
In breve, l’ecoversità fa uscire di prigione la ricerca, quasi nello stesso modo in cui la tartaruga libera e riversa il contenuto della sua zucca nel mondo.
Andrebbe al di là degli obiettivi di questo breve saggio delineare tutti i possibili approcci, le metodologie e istanze di “studio fuggitivo” evitando di reificare il progetto dell’ ecoversità come sito vitale per la produzione di nuovi corpi. Questo esercizio richiederebbe un lavoro di mappatura che contatti la moltitudine di approcci, cosmologie e impegni in atto in questi tempi. Questa mappatura sarebbe un processo continuo, da non confondere mai con il lavoro di indicizzazione che la colonizzazione propizia. Una condivisione di ricette, non di prototipi. Una raccolta vivente di esempi, non di documenti statici. Una bussola di domande, non un’arringa biblica di risposte definitive.
Sebbene un elenco di pratiche non sia possibile in questa sede, possiamo almeno offrire alcuni esempi e poi cercare di contestualizzarli all’interno del nostro travagliato ambiente – dimostrando perché abbiamo bisogno di avvicinarci al mondo in modi così diversi da quelli che il mondo classico delle università ci invita a fare.
In effetti, l’ecoversità è una risposta all’urgenza di rallentare. L’Antropocene, nella sua stranezza aliena, introduce un senso pervasivo di mancanza di dimora e di qualcosa che manca negli insediamenti moderni: il mondo che una volta escludevamo ci sta precipitando addosso, confondendo le equazioni e gli algoritmi a cui siamo abituati. Il cambiamento climatico, un eufemismo per indicare l’Antropocene, ci stressa, tirandoci per la giacca. Una risposta ricorrente degli Stati nazionali, delle istituzioni e persino dei movimenti per la giustizia climatica è stata quella di cercare di bloccare il fenomeno, di chiedersi quali soluzioni tecnologiche possiamo mettere in campo per aspirare il carbonio dall’atmosfera. Per forzare una legislazione che imponga limiti alle emissioni. Sebbene questa linea di indagine sia importante, occlude altre forme di ascolto, di creazione di senso e di conoscenza. Annulla il tipo di domande che una sensibilità postumanista (cioè una metafisica che rifiuta la centralità degli esseri umani e pensa agli ambienti come vivi e attivi nella creazione del mondo) potrebbe consentirci di porre.
Le metodologie di ricerca post-umaniste (4) e post-qualitative sono modi di condurre l’indagine e di porre domande che privilegiano il non umano e tengono conto del modo in cui l’inclusione del non umano nell’assemblaggio della ricerca riconfigura la ricerca stessa. La fretta di trovare soluzioni lascia il posto a una modalità in cui stare con i problemi, a un rallentamento che riconosce che il “mondo” è più scaltro di quanto i nostri sforzi di strumentalizzazione possano o vogliano affermare.
Le metodologie postumaniste sono approcci diffrattivi, mettono in gioco le interferenze, invece di riprodurre le posizioni precedenti. Un metodo che ho sviluppato e messo in pratica in circoli ccreativi di intelligenza collettiva, il Trail of Enlivenment, invita i partecipanti a porsi domande che ritengono importanti, e poi di incontrare e interagire con gli “oggetti” del loro ambiente in un modo “nuovo”, avvicinandoli non come oggetti da studiare ma come parenti e potenziali alleati (o anche elementi perturbanti) della propria ricerca. I partecipanti sono poi invitati a tornare alle domande iniziali e a modificarle, a prescindere dalla percezione che ciò che è emerso abbia o meno senso o ne abbia di più rispetto alle domande iniziali. Il processo è immaginato come espansione ontologica, per turbare il ricercatore nella certezza delle sue considerazioni.
Nelle pratiche di scrittura creativa, l’insegnamento abituale enfatizza il ruolo dell’autoriflessività nella vita dello scrittore. Scavando nella propria interiorità, lo scrittore può estrarre gemme di intuizioni sul funzionamento soggettivo che possono servire per l’apprendimento trasformativo. Tuttavia, come alcuni ricercatori sottolineano, questo “scavare” presuppone che il sé e il suo archivio di esperienze possiedano un’interiorità assoluta che rende invisibili i contributi del mondo circostante al nostro divenire. Kay Are, ricercatrice dell’Università di Melbourne, fa eco alla biologa Donna Haraway affermando che gli oggetti che ci circondano sono “storie congelate” e che, quando “tocchiamo” il mondo, esercitiamo un’attenzione diffrattiva che rompe l’insularità del ricercatore privilegiato chiuso nella sua introspezione (5). I “tranelli dell’autoriflessività” sono di perpetuare il rischio di restare con ciò che ci è familiare, di rafforzare il razionale e di stabilizzare le dinamiche problematiche del potere. Abbiamo bisogno di approcci conoscitivi che ci avvicinino a una disciplina dell’altro mostruoso, di quel mondo che ci mette in riga.
Ci sono altre forme di ricerca, esistono rituali e “tecnologie del compostaggio” che possono trovare spazio nell’ecoversità. Proviamo a “immaginare santuari”, non come luoghi sicuri (il santuario non è un rifugio), ma come luoghi in cui si può cadere a pezzi, in cui si può co-sensualizzare con il più-che-umano. Ho dedicato una parte significativa delle mie energie a pensare a forme di organizzazione o assemblaggio che potremmo sperimentare in un periodo di collasso climatico. La mia idea di santuario, ripresa dalle pratiche medievali che aprivano la via dell’esilio a chi era in fuga, privilegia la figura del mostro/gargoyle come agente di cambiamento. Iniziamo ad avvicinare il mostruoso nei luoghi in cui convidiamo un impegno che nasce dal nostro comune combussolamento, in cui iniziamo a nutrire una maggiore consapevolezza della nostra preoccupante tentacolarità (che corrode le solite categorie identitarie) e in cui speriamo di essere accolti da un mondo più grande di noi, questo è l’invito del santuario.
Ho scritto altrove che: “L’invito del santuario non è quello di riconquistare padronanza sugli elementi, di affermare il nostro dominio, di proporre il controllo, di sconfiggere i sistemi oppressivi con la critica e la resistenza, non è di diventare cittadini più giusti e più buoni, non è quello di diventare illuminati e non è quello di sperare troppo fervidamente in una qualche soluzione alla crisi climatica. C’è un non sapere che si agita nel cuore di questa impresa, che riecheggia nella lettera di Paolo ai Romani: ‘Non sappiamo per che cosa dobbiamo pregare, ma lo Spirito stesso intercede per noi con gemiti senza parole.’ Questo gemito intercessorio, inter-carnazionale del santuario è un luogo di fragile indagine, di celebrazione festosa, di studio rigoroso e di attenzione a ciò che vuole essere conosciuto”.
Che sia all’interno dell’organizzazione di un “santuario”, o nell’abbraccio ammaliante dei racconti di una nonna o nella morsa psichedelica delle piante medicinali, lo “studio” (nel senso di Fred Moten) può dimostrare che noi “umani” non siamo gli unici in grado di produrre conoscenza. In definitiva, il movimento dell’ecoversità può trovare una vocazione nell’alchimia dei metodi, nella mappatura delle strategie, nella conduzione di tour di ascolto e nella condivisione di ricchi spazi di non-sapere collettivo – come mi sembra stia già accadendo. Mettere in rete queste onto-epistemologie nomadi e queste soggettività nomadi potrebbe contribuire a generare mondi potenzialmente più saggi, economie, politiche e tecnologie più sagge. Potrebbe contribuire a sviluppare approcci, sensibilità, domande, ricette che difficilmente disponibili nelle epistemologie di ispirazione occidentale. Potrebbe aiutarci ad affinare i nostri sensi su come stiamo mutando attraverso la ricerca. Non basta essere d’accordo sul fatto che il mondo è vivo: dobbiamo mettere in pratica questa affermazione. Se non lo facciamo, rischiamo di dispiegare i soliti imperativi epistemici dello sguardo illuminista e di riprodurre le dinamiche da spettatori che ci lasciano intatti.
Una conseguenza che è una via di mezzo
Mi sono spesso chiesto cosa ne sia stato della tartaruga dopo che aveva riversato il suo tesoro sull mondo, ora che si era improvvisamente impoverita senza nulla di proprio se non una zucca vuota. Forse è scesa avvilita dall’albero; forse si è messa a camminare lentamente per i campi, spenta e come morta. Ma le conseguenze e i finali non sono mai state strategie narrative adeguate quando ragioniamo di una figura trickster come la tartaruga. L’imbroglione ha bisogno di continuare a vivere, di continuare a sventare tutti gli sforzi di stabilizzazione e i convenienti porti di approdo, di disturbare l’architettura che privilegia il narratore rispetto all’ascoltatore della storia. Chiedersi cosa succede dopo significa tornare al centro del racconto.
Con l’ecoversità, la fine è indeterminabile, l’inizio è inconsolabile. Tutto ciò che abbiamo è questo denso mentre, nel bel mezzo. Questi momenti postumani. Questi inviti allo stupore e alla meraviglia. Questi modi di conoscere che non esitano a lasciarci tremanti in estasi, dolore e confusione. Questo rientrare in un mondo che non ci siamo mai veramente lasciati alle spalle. Questo scendere a terra.
Incontriamoci lì. Nel mezzo.
Note:
(1) Il nuovo materialismo è il campo interdisciplinare che intreccia studi critici e meraviglia e riunisce gli approcci teorici per ripensare il mondo materiale come agenziale, vitale, vivo e intelligente – rifiutando l’enfasi storica sulla figura umana come unico contenitore o emittente di questi attributi.
(2) Uno straordinario team ha costruito una bambola a grandezza naturale di nome “Emma” per rappresentare come potrebbero diventare i nostri corpi se non modificheremo il modo in cui sono composti gli spazi e gli ambienti di lavoro. Emma ha le gambe gonfie, le vene varicose, la gobba, gli occhi arrossati per aver fissato troppo a lungo lo schermo del computer, è sovrappeso e soffre di un eczema causato dallo stress. https://www.sciencealert.com/this-representation-of-the-next-generation-s-office-worker-is-terrifying. Conoscere lo spazio dell’ufficio significa essere conosciuti dallo spazio dell’ufficio.
(3) Di quale “noi” stiamo parlando? Non intendo certo ripetere o perpetuare le generalizzazioni del termine Antropocene, né nascondere le eredità delle colonizzazioni estrattive, imperialistiche e colonizzatrici che costituiscono in buona in parte la storia dell’Antropocene. Ma nell’uso del termine Antropocene si può dedurre qualcosa di più della complicità e della colpevolezza. Si può intuire l’intreccio. Il termine può essere letto come se suggerisse quanto sia problematica l’idea di una nostra indipendenza, quanto sia già problematica la purezza etica e quanto siano intra-connessi sia il colonizzatore che il colonizzato.
(4) Il postumanesimo ha molti filoni e resiste a una definizione univoca. Ma il ricco campo condiviso è il ripudio del dualismo. Il rifiuto di ri-privilegiare e centralizzare gli esseri umani come fonte di agency o guida al cambiamento. La letteratura è ricca di esempi di termini come more-than-human, not-quite-human, com-post-human e di ciò che gli Yoruba chiamano “aye”. Ho scelto di usare questi termini nel mio lavoro per segnalare un mondo di differenze senza far naufragare la comprensione dell’intreccio [entanglement] in quella semplificazione colloquiale che ritiene che “tutto è connesso” e indifferenziato. Inoltre, con umiltà, scrivo in quanto creatura ibrida che ricombina le mie radici indigene Yoruba e la ricerca euro-americana. Queste posizioni teoriche sono offerte fragili e modeste che non parlano (e non possono parlare) delle particolarità di tutti i contesti.
Una nota dei redattori di Ecoversities: “Questo saggio è una trasversalità di corpi. Spero che sia diffrattivo e che non dica alle persone cosa devono fare. Spero che aiuti a sciogliere i vincoli che legano le persone che lo leggono ai quadri etici, materiali ed epistemologici della modernità”,
[estratto da una conversazione con i curatori durante il processo editoriale.]
Il saggio originale in inglese è stato pubblicato da Ecoversities vedi il link
«il primo passo verso la costruzione di un mondo alternativo dev’essere ilrifiuto dell’immagine del mondo impiantata nelle nostre menti e di tutte le false promesse usate ovunque per giustificare e idealizzare il bisogno criminale e insaziabile di vendere.»
Nel 2001 veniva pubblicato sulla rivista Lo Straniero un articolo di John Berger che mi sembra ancora straordinariamente efficace nel descrivere lo stato delle cose. E’ stato ripubblicato da Bollati Boringhieri nella raccolta Modi di Vedere (2004). Il brano era stato scritto all’epoca di ‘un nuovo mondo è possibile’ , prima del G7 di Genova, prima dell’11 settembre, prima di Trump, di Elon Musk e dei viaggi su Marte, prima della pandemia e della guerra… Ma dai sette frammenti di cui parla Berger capiamo che questi eventi hanno alle spalle una storia o un’ombra lunga – l’ideologizzazione del religioso, la battaglia per recuperare agency ma compensando la perdita di referenti simbolici che permettono di leggere e interpretare il mondo. Insieme alla critica serrata alla logica intrinseca dell’economia finanziaria e del liberismo selvaggio e alle conseguenti miopi geopolitiche che frammentano ulteriormente e violentemente il mondo. Contro il senso di impotenza e minorità che affligge buona parte del mondo, non ci si può stancare di demitizzare, come fa Berger, la favoletta dell’economia sovrana. Ora lo ripropongo.
«A volte nella storia della pittura si possono trovare strane profezie che l’autore non ha inteso come tali. Quasi come se il visibile potesse vivere i suoi propri incubi. Per esempio, nel trionfo della morte di Brueghel, dipinto negli anni immediatamente successivi ai 1560 e oggi al Museo del Prado vi è una terribile profezia dei campi di sterminio nazisti. La maggior parte delle profezie, quando sono specifiche, sono forzosamente cattive, poiché nel corso della storia vi sono sempre nuovi terrori. Persino quando qualcuno di essi si easurisce non compaiono nuove felicità – la felicità è quella di sempre. Sono le forme di lotta per raggiungerla che cambiano. Mezzo secolo prima di Brueghel, Hieronymus Bosch dipinse il suo Trittico del millennio, anch’esso al Prado. Il pannello di sinistra del trittico mostra Adamo ed Eva in Paradiso, il grande pannello centrale raffigura il Giardino dell’Eden, e il pannello di destra descrive l’Inferno. E questo inferno è diventato una strana profezia del clima mentale imposto al mondo (…) dal nuovo ordine economico.
Lasciate che provi a spiegare come. Il simbolismo impiegato nel dipinto non c’entra. Probabilmente i simboli di cui Bosch si serve provengono dal linguaggio segreto, proverbiale, eretico di certe sette millenaristiche del xv secolo, le quali ereticamente credevano che, se si fosse potuto sconfiggere il male, si sarebbe riusciti a costruire il paradiso in terra. Gli studi che parlano delle allegorie presenti nella sua opera sono innumerevoli. Tuttavia, se la visione che Bosch ha dell’inferno è profetica, la profezia non sta tanto nei dettagli … che pure sono ossessivi e grotteschi – quanto nell’insieme. O, per dirla in altro modo, in ciò che costituisce lo spazio dell’inferno.
L’orizzonte è del tutto assente. Non vi è continuità nelle azioni, non vi sono pause nei percorsi, non vi è un disegno, un passato, un futuro. Vi è solo il clamore di un presente disparato e frammentario. Le sorprese e le sensazioni sono ovunque, ma manca qualsiasi via d’uscita. Niente porta a niente: tutto si interrompe. Siamo di fronte a una specie di delirio spaziale.
Confrontate questo spazio con quello dell ‘inserto pubblicitario standard, o del notiziario tipo della CNN o di qualslasl commento alle notizie del giorno proposto dai mass media. La stessa incoerenza , la stessa giungla di emozioni sconnesse tra loro, lo stesso parossismo. La profezia di Bosch annuncia l’immagine del mondo che ci viene comunicata oggi dai media (…) Entrambi sono come un puzzle i cui molti pezzi non stanno insieme. Ed è esattamente questa la parola usata dal subcomandante Marcos in una lettera dell’anno scorso a proposito del nuovo ordine mondiale. Scriveva dal Chiapas, dal Sud-Est del Messlco. Marcos vede il pianeta di oggi come il campo di battaglia della quarta guerra mondiale. (La terza è stata la cosiddetta Guerra Fredda). Lo scopo dei belligeranti era la conquista dell’intero mondo attraverso il mercato. Gli arsenali sono finanziari; e turtavia non passa momento senza che milioni di persone vengano mutilate o uccise. II fine di chi conduce la guerra è governare il mondo da centri di potere nuovi e astratti – megalopoli del mercato, che non saranno soggetti ad altro controllo che quello della logica dell’investimento. Nel frattempo nove decimi delle donne e degli uomini del pianeta vivono con i segmenti scomposti di un puzzle che non sta insieme.
La segmentazione del pannello di Bosch è talmente simile che quasi mi aspetto di trovarvi i sette frammenti nominati da Marcos.
Il primo frammento porta il simbolo del dollaro ed è verde Consiste nella nuova concentrazione della ricchezza mondiale in mani sempre più numerose e nell’estensionme senza precedenti di disperate povertà.
Il secondo è triangolare ed è fatto di di una bugia. Il nuovo ordine afferma di razionalizzare e modernizzare la produzione e la fatica degli esseri umani . In realtà si tratta di un ritorno alla barbarie degli inizi della rivoluzione industriale, con l’importante differenza che oggi tale barbarie sfugge a qualsiasi opposizione o principio etico. Il nuovo ordine è fanatico e totalitario. (All’interno del suo stesso sistema non vi sono appelli. Il suo totalitarismo non riguarda i politici – che, in base a un suo preciso calcolo, sono stati soppiantati – rna il controllo monelario globale). I bambini, per esempio. Nel mondo ci sono cento milioni di bambini che vivono nelle strade e duecento milioni che fanno parte della forza lavoro globale.
II terzo frammento è rotondo come un circolo vizioso. Consiste nell’emigrazione forzata. I più intraprendenti tra coloro che non possiedono nulla tentano di migrare per sopravvivere. Eppure il nuovo ordine opera notte e giorno sulla base del principio che chiunque non produce, non consuma e non ha denaro da mettere in banca, è ridondante. Dunque i migranti, i senza terra, i senza tetto sono trattati come rifiuti del sistema: vanno eliminati.
Il quarto frammento è rettangolare come uno specchio. Consiste nella scambio ininterrotto tra banche commerciali e racket mondiali, perche anche il crimine va globalizzato.
Il quinto frammento è grossomodo un pentagono. Consiste nella repressione fisica. Sotto il nuovo ordine gli Stati nazionali hanno perso la loro indipendenza economica, la loro iniziativa politica e la loro sovranità (La nuova retorica di molti politici è il tentativo di mascherare la propria impotenza politica) (…) Il nuovo compito degli Stati è gestire ciò che viene loro assegnato, proteggere gli interessi delle mega-imprese di mercato e, soprattutto, controllare e sorvegliare il ridondante.
Il sesto frammento ha forma di scarabocchio ed è fatto di rotture. Da un lato il nuovo ordine abolisce frontiere e distanze attraverso la telecomunicazione istantanea di scambi e transazioni, zone di libero commercio obbligate (NAFTA), e l’imposizione ovunque dell’unica e indiscutibile legge del mercato; e dall’altro provoca la frammentazione e la proliferazione delle frontiere minando gli Stati – per esempio, l’ex Unione Sovietica, la Iugoslavia ecc. «Un mondo di specchi rotti – ha scritto Marcos – che riflettono la vana unità del puzzle neoliberista».
Il settimo frammento ha forma di sacca, ed è fatto delle tante sacche di resistenza al nuovo ordine che si stanno sviluppando in tutto il globo. Gli zapatisti nel Sud·Est del Messico sono una di queste sacche. Altri, in circostanze differenti, non hanno scelto necessariamente la resistenza armata. Le tante sacche non hanno un programma politico comune in quanto tale. Come potrebbero, dal momento che esistono all’interno di un puzzle spezzato? Eppure la loro eterogeneità può essere una prornessa. Ciò che le accomuna è che difendono il ridondante, ciò che sta per essere eliminato, e la loro convinzione che la quarta guerra mondiale è un crimine contro l’ umanità.
I sette frammenti non riusciranno mai a ricomporsi in modo da avere un senso. Questa mancanza di senso, questa assurdità è caratteristica del nuovo ordine. Come Bosch previde nella sua visione dell’inferno, non c’e orizzonte. II mondo sta bruciando. Ogni figura cerca di sopravvivere concentrandosi sul proprio bisogno immediato, sulla propria personale sopravvivenza. La claustrofobia, che qui raggiunge il suo grado estremo, non è provocata dall’affollamento eccessivo, ma dal vuoto di continuità tra un’azione e l’altra, che pure le è così vicina da toccarla. L’inferno è questo.
La cultura in cui viviamo è forse la più claustrofobica che sia mai esistita; (…) come nell’inferno dl Bosch, non si vede neppure di sfuggita un altrove a un altrimenti. Cio che è dato è una prigione. E, di fronte a un tale riduzionismo, l’intelligenza umana si riduce all’avidità. Marcos concludeva 1a sua lettera dicendo: «E’ necessario costruire un mondo nuovo, un mondo capace di contenere molti mondi, capace di contenere tutti i mondi ».
Il dipinto di Bosch ci ricorda – se le profezie possono essere definite un promemoria – che il primo passo verso la costruzione di un mondo alternativo dev’essere il rifiuto dell’immagine del mondo impiantata nelle nostre menti e di tutte Ie false promesse usate ovunque per giustificare e idealizzare il bisogno criminale e insaziabile di vendere. Abbiamo un bisogno vitale di uno spazio diverso. Innanzi tutto dobbiamo scoprire un orizzonte. E per farlo dobbiamo ritrovare la speranza – malgrado tutto ciò che il nuovo ordine pretende e perpetra. La speranza, però, è un atto di fede e va sostenuta con atti concreti. Per esempio, l’atto di avvicinare, di misurare le distanze e di camminare verso. Ciò porterà a collaborazioni che negano la discontinuità. l’atto di resistenza significa non soltanto rifiutare di accettare l’assurdità dell’immagine del mondo che ci è offerta, ma denunciarla. E quando l’inferno viene denunciato dall’interno, smette di essere inferno.
Nelle sacche di resistenza oggi esistenti, gli altri due pannelli del trittico di Bosch, dove compaiono Adamo ed Eva e il Giardino dell’Eden, possono essere studiati a lume di candela nell’oscurità… abbiamo bisogno di loro.
Mi piace citare ancora una volta il poeta argentino Juan Gelman:
La morte stessa è giunta con la sua documentazione
In molte formulazioni trascendenti esiste il pericolo di idealizzare la fuga, nutrendo l’ideale di una redenzione futura, di una purezza a venire nelle molte dimore della casa paterna. I venti del paradiso e le loro promesse di una appartenenza disincarnata nell’ “eterno riposo” trascinano la Storia in una accelerazione apocalittica senza battute di arresto.
Trovo che l’animismo benjaminiano di Bayo Akomolafe – quell’invito cioè a rallentare che il mondo e l’agentività non solo umana impongono – aiuti a discernere i pericoli di voli ascensionali, non come distanza generativa ma come speranza trascendente di una conferma del nostro eccezionalismo. Queste affascinanti promesse di “riparazione, speranza e giustizia a venire” possono nutrire un comprensibile bisogno di evasione ma anche una inflazione spirituale normativa che evita di stare nell’intreccio con di Terra E Mondo. Un passaggio di These Wilds Beyond Our Fences mi aveva particolarmente colpito:
L’ Icaro nell’antichità che tenta di fuggire dal suo imprigionamento materiale a Creta (…) È un enigma psichico che trasuda, trabocca e invade la dimensione sociopolitica E ci parla di una storia di dislocazione e separazione [specialmente se consideriamo la modernità come] il diniego antropocentrico di un più umile posto nel mondo e come ricerca trascendente. Sentirsi nel giusto è un ennesimo volo di Icaro che tenta di sfuggire l’intrattabile eccesso sensuale ed etico del mondo materiale.
La dis-locazione che la modernità genera in continuazione è paradossale: nell’immaginare e conquistare un posto centrale nel rapporto con tutte le cose, nella ricerca di una casa e di un luogo sicuro, nell’aspirazione alla governance delle cose tutte, il controllo e il dominio ci allontanano da tutto ciò che è vivente e da noi stessi. L’altra faccia della medaglia lo potremmo chiamare “il complesso di Icaro,” una sorta di onnipotenza adolescenziale che non sa gestire eredità complesse.
Il giovane Icaro si trova prigioniero a Creta insieme al padre Dedalo che era stato punito dal tiranno Minosse per aver propiziato la fuga di Teseo dal labirinto che lo stesso Dedalo aveva progettato. Qui l’eroe ateniese aveva ucciso un ibrido semiumano, il Minotauro figlio di un accoppiamento illecito della Regina con un toro. Al Minotauro ogni anno venivano sacrificate le giovani fanciulle che gli ateniesi erano costretti a inviare a Creta. Quanti temi, già si intrecciano in questo mito e ancora ci sollecitano: la purezza, il desiderio e la sua demonizzazione, la creazione del mostruoso, la bestialità patriarcale, la rimozione e trasformazione della divinità preellenica per eccellenza la Signora degli animali e anche la presunzione di poter sciogliere una volta per tutte queste eredità, “facendo fuori” il problema, tagliando la testa al Toro. I figli nella mitologia e nella tragedia greca non se la cavano tanto bene. Il povero Icaro eredita tutto questo. Ancora una volta è l’ingegnoso padre nella torre in cui sono confinati a scoprire un nido di api e con cera e piume costruisce le ali della fuga. Ma a Icaro a questo punto non basta volar via dalla prigione, l’ascesa dev’essere totale, la soluzione essere finale, l’aspirazione alla liberazione, l’ebbrezza celeste diventa seduzione luciferina e salendo verso il Sole, la cera si scioglie e Icaro precipita nel mare e muore. Quanto questi miti di una eventuale futura definitiva salvezza in un immaginario altrove complicano il nostro rapporto col divenire?
Il genio di Chagall rappresenta la cosa come una catastrofe collettiva, una dissociazione psico-sociale. (notevole del dipinto il contrasto tra le reazioni collettive del popolo in blu e del popolo in rosso). Anche l’insostenibile leggerezza dell’essere ha bisogno di “terra” per uscire dal ritmo maniaco-depressivo della modernità.
Dopo una serie di eventi personali che mi invitavano a prendere posizione, a sciogliere nodi, ad accettare il cambiamento ho fatto recentemente questo breve sogno. Non ho mai fatto sogni con riferimenti alla mitologia greca, ma avevo da poco letto di come il mito di Icaro possa essere associato alla nostra modernità ascensionale e vetero-adolescenziale in cerca di soluzioni definitive.
Ma ecco il sogno:
E’ notte fonda. Vedo Icaro è un guerriero dietro una barricata. Ha i piedi ben piantati a terra ed è vivo. Non capisco contro chi combatta e non sono del tutto certo che conduca la lotta nel modo giusto, ma vederlo così è qualcosa di sorprendente.
Mi chiedo se ciò non possa essere un indizio di ciò chi diventa santuario e rifugio per il fuggitivo in crepe terrene che sconfermano il trionfo della tracciabilità assoluta, che sfuggono ai paradigmi carcerari senza scegliere l’evasione spirituale o politica dal nostro abitare sempre nel mezzo del cammino.
In Psicoanalisi della guerra Franco Fornari sistematizza una serie di considerazioni che evidenziano come il contributo psicoanalitico offra spunti di comprensione della dialettica affettiva necessaria per far fronte alle reazioni collettive e individuali e alla distruttività anche inconscia in atto nel fenomeno guerra. La psicoanalisi in questo senso ha un contributo da offrire a quanti trovano difficile ignorare il carattere assolutizzante di argomentazioni animate da ragioni incontrovertibili. Esistono infatti difese apparentemente razionali che si intrecciano con profonde angosce psicotiche. Tali sistemi di difesa paranoidi espellono il conflitto interiore e non ammettono dubbi perché devono mettere a tacere le nostre più distruttive pulsioni anche a costo di esternalizzarle concretamente su un nemico in carne ed ossa. Ogni presa di posizione rispetto a un conflitto non è solo razionale ma implica un processo che porti a una forma di discernimento, discernimentoche nasce dalla disponibilità a riconoscere quanto queste istanze inconsce condizionino le nostre “libere” decisioni.
Prima di ragionare sull’auspicabilità della guerra come soluzione ai torti subiti dalle nazioni, alle colpe dei tiranni e dei loro interessi, bisognerebbe non trascurare fattori irrazionali che potrebbero ostacolare per gli attori (è il caso di dirlo) in gioco un corretto esame di realtà, e in particolare quelle diffuse e trasversali difese da angosce persecutorie che strutturano la guerra come elaborazione paranoica del lutto,che è poi l’intuizione centrale delle scomode tesi di Fornari.
“Quando una realtà distruttiva viene coperta da simboli d’amore esiste la possibilità che ciò costituisca una operazione destinata a coprire profonde angosce depressive o persecutive e che tale occultamento abbia in sé grande probabilità di predisporre colui che lo fa a distorsioni gravi nell’esame di realtà e quindi a non trovarsi nelle condizioni di poter prevedere correttamente le conseguenze possibili dei suoi atti”.
La guerra – che viene più o meno esplicitamente pensata come ineluttabile dispositivo volto a garantire sicurezza – sarebbe allora anche un’istituzione volta ad anestetizzare profonde angosce persecutorie. Una “formazione reattiva” volta a difenderci da un fantasma ancor più Terrificante. Come un iceberg – diceva Fornari – il sistema di sicurezza ha una parte visibile (la difesa dal pericolo di un nemico esterno) e uno invisibile, la difesa da un nemico interno e assoluto volto ad annientarci, un persecutore che a volte prende una forma indefinita nei peggiori incubi e che potrebbe travolgere anche i nostri cari. L’amplificazione paranoide che proietta il Terrificante su un nemico esterno paradossalmente ci difende tacitando – per un tempo – quell’angoscia di morte che la situazione atomica, la crisi ecologica planetaria e la pandemia hanno trasformato angoscia da annientamento assoluto. Qui i confini tra il delirio psichico e la realtà sfumano perché la situazione atomica concretizza fantasmi distruttivi che coincidono almeno in parte la possibilità latente di una sadica e folle onnipotenza.
La fibrillazione aumenta e con essa le difese paranoidi – ci si aggrappa a vecchie certezze e soluzioni, si razionalizza come se tutto fosse assolutamente chiaro ed evidente.
Ma la caratteristica del “nemico” interno è subdola proprio in quanto radicata in una possibile deriva onnipotente, invisibile, che la cultura ci racconta con il volto di Caino che uccide Abele o di Atreo che nutre Tieste cucinandogli i resti dei suoi figli dopo averlo invitato a una supposta conferenza di pace. È la stessa amplificazione persecutoria che rivela la nostra distuttività che se si scatena può portare a uccidere la persona amata (generalmente una donna) nella percezione di un irreparabile torto subito.
Trovare nemici esterni da uccidere, trovare un nemico reale, per quanto ci metta a rischio, ci rassicura per un tempo dalla paura che un delirio di annientamento prenda il sopravvento senza che ci si possa far qualcosa. Soprattutto ci protegge dal timore che ciò abbia a che fare con una distruttività capace di attaccare persino ciò che amiamo. Difendiamo allora la verità del nostro supposto amore a tutti i costi.
Freud chiamava questo processo deflessione all’esterno della pulsione di morte, pulsione che prende forma nella psiche umana in fantasie di onnipotenza sadica distruttiva e che tuttavia le culture tentano di affrontare in modi diversi. Una pulsione che ha probabilmente la sua radice in una specifica consapevolezza di vulnerabilità delle comunità umane tanto più grande quanto più separate dalla percezione di un più ampio metabolismo, dalla biofilia costitutiva dell’esistenza, sostituita da un delirio di eccezionalità.
Non è tuttavia sufficiente descrivere queste dimensioni pulsionali distruttive come parte di una universale esperienza umana. Secoli di modernità coloniale hanno strutturato anche a livello inconscio una separabilità, un desiderio di controllo e dominio che rafforza ogni diniego e allo stesso tempo legittima ogni forza e ogni sopruso in nome dei soprusi subiti.
da “Il dottor Stranamore” di Stanley Kubrick
Tuttavia non tutti i dispositivi delle culture elaborano allo stesso modo la vulnerabilità che ci accomuna a tutto vivente e che molte tradizioni riconoscono nella radice precisa del dover mangiare (letteralmente) altre vite – sapendo al contempo di essere parimenti a rischio di essere mangiati. In anropologia, Viveiros de Castro, De Scola e altri hanno evidenziato che tale “prospettivismo” relazionale mentre non nega le pulsioni distruttive resta profondamente eco-sistemico. Al di là di ogni esotismo romanticizzante, le culture metaboliche che nutrono un sentimento di continuità con il mistero del nostro esistere e passare, che non negano l’aggressività ma non la trasformano in guerra, genocidio, ecocidio sono anche culture in cui si pratica la via dei sogni animati, dell’incanto e della meraviglia, illustrazioni di una Terra Vivente al di là delle nostre povere immaginazioni. E che riconoscendo la distruttività come intrinseca all’esistenza se ne fanno carico altrimenti.
Da “Come pensano le foreste” di Edouardo Kohn
Lo stesso Fornari lo aveva già intuito quando in Psicoanalisi della situazione atomica (1964) scriveva:
« Uno dei risultati dell’inflazione intellettualistica della società occidentale sembra legato all’oblio da parte dell’uomo cosiddetto civile della capacità che ha invece l’uomo [cosiddetto] primitivo di responsabilizzarsi di fronte al proprio inconscio.»
Questo oblio oggi viene alimentato ipnoticamente, catturato da una fascinazione collettiva per il riarmo, a un tempo ideologica e post-ideologica, che sembrerebbe avere funzione di difesa maniacale dai lutti profondi che la situazione generale del pianeta impone. Uno dei sintomi lampanti di questo squilibrio è la demonizzazione del dubbio e della libertà di pensiero.
La valenza ipnotica della situazione spinge a relativizzare il potenziale distruttivo del conflitto tra visioni geopolitico-economiche dei blocchi egemoni contrapposti. La possibile dimensione atomica del conflitto viene relativizzata anche quando le stesse parti in causa la evocano. Se i regimi totalitari non hanno scrupoli nell’imporre questa logica difensiva le (post)democrazie liberali rivendicano il valore morale (sempre più evanescente) della loro storia attraverso dispositivi retorici che evocano i traumi collettivi del passato. Questo copia e incolla che taglia la testa al toro e ignora i contesti trova in alcuni la forma dell’appello a una scelta inedita e radicale tra libertà e vita.Per alcuni, a sinistra, l’appello al riarmo prende a riferimento la Resistenza. Come se la storia non sia stata abitata da altre forme di conflitto violento che avevano a che fare più che con la liberazione dall’oppressore con le logiche delle sovranità nazionale e imperiale. Mussolini, per esempio, aveva fatto del culto della Grande Guerra, dell’interventismo, del prezzo di sangue pagato dall’Italia, il baluardo della sua retorica nazionalista. E difatti la destra gongola per l’opportunità ghiotta che questi appelli offrono a un analogio trionfalista spirito guerresco. Appelli che scindono l’unità costitutiva di vita e libertà così come abbiamo scisso l’atomo. Un binarismo insostenibile dato che libertà e la vita abbondante e indeterminata (Zoe) sono strettamente correlate, specialmente oggi che la vita del pianeta tutto viene messa a rischio non solo dalle tentazioni di alzare la posta del coinvolgimento delle potenze atomiche ma anche dalla catastrofe ambientale. Una situazione fche rischia di svalutare le possibilità di resistenza più profonde dell’umano. Per alcuni la scelta della libertà come massimo valore etico imporrebbe il riarmo anche a costo della distruzione della vita stessa. Vale certamente combattere per ciò che conta e ogni resistenza anche quella dei contadini anarchici che gridavano ben prima del franchismo “viva la muerte” scendendo per i campi contro Napoleone si radicava in un desiderio di buona vita più che nella mera pulsione di morte. Tuttavia, in un conflitto che contrappone l’aspirazione geopolitica di potenze nucleari, l’appello al riarmo e alla guerra mi sembra abbia davvero poco a che fare con le lotte dei partigiani.
La situazione atomica e l’intreccio globale dei problemi rendono la vita da salvare innanzi tutto non quella individuale o quella delle nazioni e dei loro interessi geopolitici ma quella del pianeta, condizione di vita, futuro e libertà per tutti.
Dire che la libertà è un dovere supremo come ha recentemente titolato il direttore di Repubblica mi sembra del resto un doppio messaggio, un ossimoro paralizzante e ipocrita ancor più da quando la pandemia ha consentito ai governi di strutturare le ansie collettive organizzando con politiche sanitarie obbligate la limitazione di movimento e persino per alcuni la libertà di lavorare – imponendo misure di confinamento e di libertà limitata e differenziale come condizione per poter tornare a “essere liberi”, cosa che nell’equazione del discorso corrisponde alla supposta normalità dello status quo mentre le cause profonde del dissesto ambientale, ecologico, economico e politico restano occultate. Il senso della libertà viene così ridotto al dovere del consenso. Tutto ciò ha reso impossibile un vero passaggio depressivo, un lutto riuscito che prenda atto del dis-astro che la modernità coloniale ci lascia in eredità. Parlare di un dovere supremo nei confronti del valore libertà mi sembra allora un artificio retorico che non sconferma la tendenza a una governance post-democratica consensuale che si appoggia anch’essa come nella più evidente razionalità difensiva dei regimi a “formazioni reattive” che gestiscono a modo loro le profonde ansie depressive. Il palliativo rassicurante dell’adesione di massa a un supposto bene comune sembra avere valenze ipnotiche fortissime a destra come a sinistra.
Il tentativo di utilizzare la guerra per rafforzare il sentire di una identità Europea fortificata e fondata sulla supposta superiorità etica delle sue radici culturali mi sembra faccia parte della medesima deriva anti-storica, nel senso che rifiuta di prendere in carico proprio le eredità non elaborate nella costruzione violenta del progetto della modernità coloniale nel suo rapporto con le risorse e i popoli.
Senza nemmeno parlare delle politiche migratorie a due pesi e due misure, dei milioni di rifugiati siriani confinati nei campi in Turchia , delle migliaia segregati nella foresta tra Bielorussia e Polonia a cui non viene concesso di passare, della profilazione razziale alle frontiere per gli studenti africani che fuggono dall’Ucraina, delle corsie preferenziali che segnalano una visione nazional-identitaria che riduce e inquina ciò che la stessa storia dei conflitti mondiali aveva insegnato sul ruolo cruciale che i rifugiati portano alla comprensione della storia.
Lo ha ribadito benissimo recentemente Didi-Huberman in “Passare a ogni costo”:
“Tutti questi movimenti di migrazione hanno un nome generico: la cultura. Non la cultura dei «programmi culturali» o dei «ministeri della cultura», ma la cultura nel senso antropologico del termine, ciò che rende cioè gli umani quegli esseri capaci, non solo di parlare, lavorare e inventare attrezzi, o magari opere d’arte, ma anche di vivere in società, parlarsi, inventarsi, immaginarsi l’un l’altro. Quando una società comincia a confondere il suo vicino con il nemico, o lo straniero con il pericolo, quando inventa istituzioni per mettere in opera questa confusione paranoica, allora possiamo dire, secondo la logica storica – e non da un semplice punto di vista etico – che sta perdendo la propria cultura, la propria capacità di civiltà.”
Chi si schiera per la cultura, intesa in questo senso, pare oggi colpevole di ignavia terrapiattista (ancora Repubblica) o di nascondersi dietro sofismi astratti, ma ragionare, o meglio sentir-pensare, non significa né scegliere la scorciatoia del tifo né mantenere una indifferente equidistanza –– significherebbe piuttosto considerare la necessità di una più ampia prospettiva che faccia i conti con le varie forme di diniego in questo grande dissesto e prendere posizione per il pianeta come condizione primaria per la continuità di un processo che garantisca vita e libertà. Al di là dei proclami e degli imperativi emergentiche impongono di schierarsi un barlume di consapevolezza di questa altra urgenza non è forse estraneo agli uni come agli altri.
Forse chi saprà riconoscere la possibile catastrofica deriva che queste difese inconsce amplificano, senza timore di dis-fatta, si dimostrerà all’altezza del’umiltà necessaria oggi nel momento del pericolo.
Ma sulla lezione di Fornari su psicanalisi e culture di pace sarà bene tornare. (continua)