Senza Nome

Chandra Livia Candiani

[Inizio qui a condividere alcuni dei testi per certi versi fondanti della prospettiva che abbiamo chiamato “clinica della crisi”. Ragionando dunque di prospettive e dunque della possibile “appartenenza” a una comunità in fieri – inizierò con il lemma che Chandra Livia Candiani ci aveva donato per il Lessico della Crisi e del possibile – (Fab)]

SENZA NOME – Chandra Livia Candiani

Mi sembra di vivere in un tempo profondamente tragico senza alcuna capacità di pensiero tragico.

Intendo un pensiero capace di contenere gli opposti senza mediarli e senza negarli. Un pensiero capace di rispondere. Un pensiero deciso a non appropriarsi. A smantellare le nostre convinzioni rapaci e omicide.

Ma ho una Via. La Via è sempre preceduta da una Visione, eppure la Visione è lungo la Via e si lascia modificare da quello che incontra.

La meditazione per me è un passo dopo l’altro, un respiro dopo l’altro, inoltrarsi nella conoscenza degli automatismi che mi rendono brutale. È disarmo. Puntuale, preciso, millimetrico disarmo.

Quando mi siedo seguo il respiro e gli permetto di portarmi in una zona non discorsiva, in un luogo che certe volte è scendere ma certe volte galleggiare. Un luogo senza parole. Serve per non fare esperienza solo dell’auto-narrazione ma assaporare invece le tracce che le esperienze lasciano in noi, serve per sentire e ascoltare e accedere a una consistenza diversa dell’esperienza, una consistenza fatta di resti, tracce, orme, impronte, periferie.

Mi fa male il mondo. Mi fanno male le parole. La poesia è il linguaggio delle schegge, del dopo catastrofe, toccare il limite e prendere fuoco. Andare a capo. 

Seminare la poesia a scuola tra le bambine e i bambini è incendiarli. Portare a scuola il fuoco, custodirlo, nonostante la desolazione e poi distribuirlo, passarlo di mano in mano mentre in cerchio ci stringiamo le mani e l’alta tensione circola. Diceva Paul Celan: “Non vedo differenza tra una poesia e una stretta di mano.”

Quest’anno in un doposcuola difficile in un quartiere frastornato, nell’impossibilità di lavorare nel silenzio, ho tenuto per buono, per sfondo, il trambusto, gli urli, il caos della stanchezza dei bambini dopo ore di prigione a scuola. Una bambina mi ha premiato così, ha buttato veloce su un foglio queste parole: “Nell’amore i bambini sanno parlare.” Non ho pianto, ho riso forte, tremando. Non avevo parlato di amore, ma di silenzio e lei l’aveva tradotto con relazione. E lei si è accorta di saper parlare, cioè scrivere. 

Quest’anno ho letto in una classe la poesia di un bambino che ha attraversato anni fa il mare e parla di urla nel buio, di voci di antenati che guidano, e termina con questi versi: “…che per fiorire ci vuole un’eternità.” Una bambina, che viene da altre derive, ha ascoltato e si è precipitata a scrivere. 

Ha descritto cosa manca mentre si va alla deriva, ha parlato della sete e del sale nei capelli, ha parlato della paura e della danza, ha scritto così:

Avere paura

La paura di attraversare il mare

l’agitazione di affrontare le onde

il dolore di stare giorno e notte tra le acque

la malinconia della famiglia e dei amici

la paura di sbrigarsi per arrivare prima

la paura della pioggia

la paura di prendersi un raffreddore

la paura se riuscirai ad arrivare nella spiaggia

la tristezza di affogare

la paura se sai nuotare o no

lo spavento di morire

i ricordi degli amici

della casa in cui vivevi

la tensione di arrivare

il temporale con i fulmini

il fastidio di essere sempre bagnato

la voglia di essere già arrivato

la voglia di mangiare e di bere acqua

ma non acqua salata

ma acqua naturale

la voglia di saltare nelle pozzanghere

e non di stare nell’acqua salata

la voglia di asciugare i capelli

e di non averli bagnati d’acqua salata

il dolore di dover ancora attraversare il deserto

nel deserto c’è molto caldo c’è molta sabbia

il caldo che ti entra la sabbia negli occhi

per colpa del vento

il bisogno di aver molta acqua

il desiderio di voler avere l’acqua del mare calma

il desiderio di voler ascoltare la musica

di ballare

e di ridere

il desiderio di essere a casa

nel proprio letto con una coperta e con un cuscino.

Allora non desisto, resto e compio piccoli gesti consapevoli e smonto i miei automatismi e tutto questo non ha nome ma ha tutti i nomi, i nomi del mondo e del senza mondo e del fuori mondo.

Il dolore è fecondo. Se lo ascolti. Se lo interroghi. Ho avuto un’infanzia massacrante e ora posso accogliere i bambini massacrati, ci riconosciamo con uno sguardo. Frequentare i bambini è frequentare un popolo, un grande popolo capace di pensiero e di visione. Sono onorata ogni volta che li incontro e chiedo loro tantissimo e mi arrabbio se non ci sono totalmente.

Quest’anno, un bambino beffardo e cinico, ferito fino alle sue ossa di cane randagio, quando ho detto, toccata dalla mancanza in molti di loro della possibilità che esistano cose sacre: “Sacra è la relazione che ho con voi”, ha scritto come sua poesia-lascito: 

La parola che usiamo

ce l’hai donata 

tu

le cose più importanti

da esprimere

ora

le so io.

Ho fallito un sacco di volte quest’anno ma con lui, nella fierezza di questa poesia, nel suo prendersi la parola e farne quello che vuole farne e nel lanciarmi la sfida di farmi capire che lui sa cosa conta, cosa è sacro, grazie a tutto questo sento che io insisto, non smetto di seminare. Senza nome.

Uno spettro si aggira per la Terra

Edo Ferrini

Edo Ferrini


Uno spettro si aggira tra i risentiti e gli esclusi della Globalizzazione. Marx sotto mentite spoglie? Una rivendicazione postcoloniale? Un nuovo sciame di “vite di scarto” (come diceva Zygmunt Bauman)?

Anche ma non solo –  perché secondo la riflessione di Fabrice Dubosc portata avanti in Sognare la terra. Il troll nell’ Antropocene (in uscita da Exòrma a fine maggio 2020) – il confine tra  rivendicazione e risentimento è esile e sovente trasforma il diritto alla critica in odio gratuito.  L’energia dello  spettro anima hater e  troll, emblemi di un nichilismo piccino, nella sua odierna forma digitalizzata che si manifesta nei blog, nelle chat, nei dibattiti televisivi.

L’autore traccia un percorso che intreccia la coscienza sociale di matrice decoloniale (con riferimenti a Fanon e Mbembe) con i temi legati alle “ecologie degli altri” (efficace il ricorso all’epistemologia amerindiana  per cui le “foreste pensano”).

Percorso complesso ma ricco di tracce che invitano a seguirlo, percorso reso ancora più urgente alla luce del recente Covid-19 che cortocircuita la “vicinanza” globale mentre evidenzia il conflitto tra uomo predatore e ambiente, tale da rendere l’animale selvatico “untore originario”.

Come ogni riflessione rilevante il testo di Dubosc, moltiplica le prospettive, ha a cuore le domande  più che le ricette pronte. L’antidoto al facile odio del troll passa per un lavorio sotterraneo di consapevolezza dell’ingiustizia e dei privilegi insiti nei rapporti di dominio ma da percepire in quanto tali, prima ancora di rivendicare la loro evacuazione in una simmetrica logica di esclusione.

La parte centrale del testo mette a fuoco l’importanza del discorso sulla vulnerabilità,  collegando le riflessioni sulla non violenza di Judith Butler come antidoto alla rabbia che ogni lutto genera, con quelle sulla partecipazione attiva alla costruzione del mondo di Simone Weil.  

La riflessione di Fabrice Dubosc delinea un’alternativa a un tempo politica e “clinica” (di cura e attenzione) che appare lontana dalla vis distruttrice che soventa anima la critica fine a sé stessa.

Il Troll  nelle fiabe e nelle raffigurazioni antiche è un mostro di aspetto sgradevole, oltretutto non molto intelligente, è una macchina da guerra abbastanza incapace di colpi di scena, a differenza di altre creature mostruose più intelligenti e ammirabili quali draghi, o goblin, mostruosi ma non stupidi. Ciò che il troll mostra di sé è per esempio la parolaccia o l’offesa gratuita e reiterata. Il troll è un uomo contro o contrario, un pesce fuor d’acqua che confonde la rivendicazione sociale con il bisogno di identificare un nemico da combattere. A volte diventa un trickster, un troll intelligente o sofisticato, ma pur sempre un fondamentalista dell’individualismo.

Il messaggio più importante nel testo di Fabrice Dubosc sulle conseguenze dell’ odio e del risentimento individuale e collettivo dell’era comunemente definita Antropocene, è che nella società non esistono fenomeni innocenti o superficiali solo perché agiti dalla stupidità. Sarebbe troppo facile analizzare i cambiamenti sociali tramite l’alta letteratura, tralasciando il linguaggio dell’ignoranza. Anche perché il populismo è l’apoteosi del linguaggio ignorante. Il troll infatti non è solo una porcheria digitale, nasconde  sentimenti come l’autoghettizzazione, il vittimismo, e la paura per le utopie. Colpisce poi la contrapposizione tra il trionfo dell’uomo nella terminologia Antropocene, e l’emergere della bruttezza disumana o sovrumana del troll. L’ambiente deturpato come nel caso della foresta amazzonica mette l’uomo di fronte allo spettro del troll che probabilmente in origine era emblema di una connessione possibile tra noto e ignoto, visibile e invisibile.

Il problema dell’hater però è che non conosce la soglia che separa le ingiustizie subite e quelle temute. E soprattutto, il suo e nostro problema, è che parla anche a nome nostro. Da questo punto di vista lo spettro del troll sopravvive pienamente nei populismi assimilando nel risentimento contestatori e conservatori dello status quo. 

Occorre essere più precisi ed esplicitare nel concreto quali sono le dimensioni sociali e addirittura filosofiche del mostro contestatore. In primo luogo il risentimento, un tema molto caro a Nietzsche secondo il quale il risentito è una persona che rinuncia alla propria volontà di potenza, sottomettendosi ad un potere, che rappresenta come  giusto, per non ammettere di essere debole sottomettendosi ad esso. Ma cosa succede se il risentito e il risentimento si svegliano dal torpore? E poi, e in questo Dubosc traccia un percorso preciso ed affidabile, perché oggi assistiamo a così tanto risentimento? Forse perché siamo passati per tante riforme sociali, utopie riformatrici e rigeneratrici che non hanno saputo nascondere le disuguaglianze che promettevano di indebolire o eliminare.

Basti pensare ai miliardari di Internet che si sono arricchiti fuori misura  usando una base teoricamente del tutto aperta e democratica, il web. Oppure basta pensare al rapporto molto stretto tra progresso tecnologico e distruzione dell’ambiente (il vero e proprio germe dell’Antropocene), o ad un modello di integrazione basato sull’omologazione del consumismo e sul successo economico nella società.

Non si può negare che il risentimento abbia valide ragioni, il problema è che diventando fine a se stesso, la rivendicazione rischia di trasformarsi in qualunquismo e in esibizionismo.  Per i troll le riforme nascondono complotti, ingiustizie pronte ad esplodere, tali da rendere le idee di rigenerazione rinnovamento, utopie da temere, perché da un giorno all’altro potrebbero diventare distopie e nuove disillusioni.

Il troll sostiene che non si può costruire un’etica, e che siamo tutti vittime. L’ambiente diventa allora una costrizione alla co-abitazione forzata,  nella visione distopica della globalizzazione. Ma Dubosc è attento a farlo notare, invocando addirittura gli sciamani Yanomami:  l’ambiente non è uno spazio delimitato dai conflitti, è il luogo dove l’equilibrio si rinnova per tutti i viventi malgrado e grazie ai conflitti. 

Edo Ferrini insegna storia e filosofia in un liceo. A breve uscirà il suo “Il Falso Specchio. La crisi del reale nel cinema” (Sentieri Selvaggi – Go Ware)