Bianchezza / Nerezza

Clinica della crisi/ecologia della cura nasce nel desiderio di ripensare i lemmi dei nostri luoghi comuni ,delle parole d’ordine stantie e delle parole che ancora ci mancano. Bayo Akomolafe in questi due brani tratti dai suoi webinar e blog (https://www.bayoakomolafe.net) riprende i temi dell’identità e della razzializzazione nel contesto di un più vasto intreccio con il pianeta e con il divenire degli umani. Sono temi che ricordano molti spunti di Achille Mbembe, e prima di lui di Frantz Fanon ma l’intreccio delle radici Yoruba di Bayo in dialogo con la ricchezza del pensiero contemporaneo permettono di esplorarli nuovamente come altrimenti emergenti dalle urgenze del presente. Le foto delle maschere sono tratte dal lavoro di Phyllis Galembo “Maske” scattate in Africa Occidentale e nella diaspora a Haiti e Cuba.

Bianchezza

«La modernità coincide con la “bianchezza”.

Ma cos’è la bianchezza? Non è una qualità o proprietà personale, così come le nostre politiche tentano di di definirla, la bianchezza è un sistema,  un sistema razzializzato che produce corpi e li colloca gerarchicamente. Mi piace dire che i corpi bianchi sono diventati bianchi per via della “bianchezza”. Non  è che i corpi nascano bianchi o neri o marroni, ma che quelle identità sono costruite a partire da una metrica politica che attribuisce delle “proprietà”.

Se che le cose ìdel mondo non appaiono senza relazioni, il mio corpo e i vostri corpi emergono a partire da questa metrica politica e veniamo introdotti in un mondo che ci dice di Tizo e Caio …..  non tanto che “sono” bianchi ma piuttosto che la “bianchezza” arruola i loro corpi, usa i loro corpi così come usa il mio e lo colloca all’interno dello schema di ciò che conta: “tu sei nero, tu sei bianco, tu sei caucasico” e così via….

Dunque, la bianchezza è un sistema geo-socio-culturale razzializzato che produce corpi e li colloca all’interno di una gerarchia di privilegi o possibilità di accesso alle produzioni di stabilità della modernità. Quello che stiamo dicendo è che la “bianchezza” eccede l’individualità umana. La bianchezza non dipende da una proprietà ereditata da un singolo corpo, o da singoli corpi, ma è un sistema, un’organizzazione.

Per iniziare a cogliere le tracce [culturali] della bianchezza potrebbe essere d’aiuto la storia archetipica di Baldur, il mito nordico di Baldur, per capire come agisce e cosa genera la bianchezza, e cosa ciò abbia a che fare con una certa idea di modernità.

La storia di Baldur deriva dal mito di un dio nobile e bellissimo, figlio di Freya e di Odino. Un giorno una profezia arriva alle orecchie di Freya e di tutti quanti, di fatto annunciando la morte di Baldur. Tutti hanno paura, specialmente la madre, Freya, così fa quello che in quelle circostanze penso farebbe ogni madre dotata di quella sorta di potere divino, viaggia in lungo e in largo per tutti i Sette Regni, va da ogni cosa umana e non umana supplicando ognuna e ognuno di non fare del male a suo figlio, di non ferire Baldur. Va dai tavoli e dalle aquile e dalla luce del sole e da montagne e leoni e da ogni singola cosa che ha un nome, e anche da quelle che un nome non ce l’hanno ancora. Ma ne dimentica una, dimentica di visitare il vischio. Così quando  Loki entra in gioco in questo intricato copione narrativo egli cerca di capire come fare a uccidere Baldur. E quando scopre che il vischio è stato trascurato da questo dispositivo, lo prende e ci costruisce un’arma, la punta contro il calcagno di Baldur, e lo uccide. E poi la storia da lì continua con la discesa agli inferi di Baldur e tutto il resto.

Ma a me interessa perché può aiutarci a  a capire come agisce la bianchezza – la bianchezza non è semplicemente un’identità…la bianchezza è un  progetto di formattazione della terra, un progetto di gerarchizzazione. Un progetto che colloca i corpi, compresi quei corpi che vengono “identificati” come bianchi in un dispositivo coloniale che non sta più funzionando per nessuno, neri, o bianchi o marrone. Così la bianchezza non equivale semplicemente ai corpi bianchi, la bianchezza è una determinata configurazione del potere sulla terra che ci ha messo seriamente nei guai, e dobbiamo parlarne.La storia di Baldur ha a che fare con il desiderio di trascendenza. Baldur cerca di sfuggire alla finitudine, alla morte, e la madre cercatdi proteggere il corpo del figlio dalla materialità delle cose, dalla perdita, della sub-scendenza, dal declino e della discesa nella terra.

È una ricerca di purezza, è quello che aveva notato Hillman – un grande psicologo – quando aveva definito la bianchezza un “culto della purezza.” È l’aspirazione alla supremazia, è una delle possibili figure che assume l’universalismo, un supposto desiderio di “libertà”, un’idea di indipendenza e salvezza, che immagina di poter risolvere tutti i problemi se solo ogni cosa venisse gestita e nominata. E tutto questo ha a che fare con l’idea che  l’umano sia un’unità discreta e distinta, esclusiva e escludente. Se posso tagliar fuori tutto il resto, tutto quello che c’è nel mondo, allora posso crearmi una sovranità privata ed interiore. È per questo che la modernità fa tanta fatica a pensare alle cose come a qualcosa di vivo, non può pensare che il mondo sia vivo. È necessario che il mondo sia morto, ha bisogno che il mondo sia una “risorsa naturale”. Per poter proteggere Baldur deve fare in modo che ciò sia così a tutti costi. È questa la pulsazione archetipica della modernità e della bianchezza.

Questa è l’idea di una modernità bianca. E’ in questo modo che la bianchezza è connessa alla storia euro-americana, e alla colonizzazione. E’ tutto ciò si intreccia con la rivoluzione industriale, con il diniego di altre “agentività” terrene… è qui che la narrativa dell’espansione incontra la metanarrativa del progresso. La modernità nasce da un desiderio di diniego. Ed è connessa a un campo traumatico. 

L’Antropocene rappresenta  la sua struttura temporale geologica, un’era in cui l’umanità ha acquisito una tale superiorità da esser diventata la specie dominante sul pianeta, a tal punto che converte il mondo a sua immagine e somiglianza. Quando i geologi dicono che dall’Olocene siamo passati all’Antropocene chiamano questa era con il nostro nome, [l’anthropos = l’umano] per ricordarci dei danni che iabbiamo imposto al mondo. Un’era caratterizzata dal caos climatico, dalla disuguaglianza razziale, dalla morte e dalla sofferenza. La modernità bianca è caratterizzata dalle superfici cicatrizzate del capitalismo estrattivista. 

Queste non sono solo nobili proposizioni teoriche, queste sono le terre da cui vengo, le terre che ricevono il lato oscuro, e le ombre della rettitudine morale dell’occidente. Racconto spesso ai miei amici quando viaggio negli Stati Uniti o in Europa, e vedo quanti, con molta diligenza, si affannano a differenziare la spazzatura, e penso a ciò che non viene raccontato a queste care persone che solo il 7 per cento di ciò che si suppone venga riciclato, viene davvero riciclato. Il resto, il 93 per cento viene spedito nei miei paesi: in Ghana, in Nigeria, e diventa il nostro parco giochi. Ho giocato sulle discariche di rifiuti dell’occidente. Le narrazioni che mancano a quei cittadini che fanno del loro meglio per fare la cosa giusta è che ci sono mondi nascosti, mondi sottili, mondi insorgenti, che sono da moltissimo tempo i destinatari di queste pratiche moralistiche. E anche questo è capitalismo estrattivista,  è il modo in cui i cittadini vegono illusi rispetto ai veri costi del lusso in cui vivono, rispetto ai costi di ciò che considerano “ordinario”. La modernità è costellata dai corpi degli schiavi africani trasportati oltre Atlantico ed è anche associata al caos climatico. Non solo dal riscaldamento globale del carbonio ma da un clima globale didisperazione. Se giuardate alle statistiche aumenta sempe più la perdita di fiducia nell’autorità costituita, la perdita di fiducia nello stato-nazione, la perdita di fiducia nella democrazia, perdiamo fiducia nelle cose che sono state il fondamento della civiltà moderna. Questa è anche un opportunità credo, ma allo stesso tempo causa di allarme, perché tutto sta andando a pezzi.

Quello che voglio sottolineare  è che la modernità è un vero e proprio “progetto immobiliare”,  per dirla con le parole di W.E. DuBois, il sociologo del XIX secolo. È qualcosa di più di uno stato di “cattura”, che si prende corpi neri e marrone, ma ha a che fare con la conversione del mondo in un’immagine pietrificata,  si diffonde a macchia d’olio, al di là della piantagione, si apre e sanguina in  concetti come la giustizia, l’individuo, il cittadino… Perché anche quando gli schiavi in fuga hanno trovato libertà, hanno rapidamente scoperto che la libertà non poteva essere concepita al di fuori di un’architettura bianca e al di fuori delle strutture concettuali che la nutrivano. Persino la libertà era prigione.

Perché chi fuggiva e rivendicava la libertà, doveva rivendicare la cittadinanza che è un’altra delle forme della modernità bianca. Non parlerò delle riserve indiane, o di innumerevoli azioni compiute per creare un mondo apparentemente stabile, razionalizzato.  Certamente le strategie coloniali  ebbero effetti devastanti a partire dalle appropriazioni territoriali e dai che le legittimavano ma per ora mi fermo qui: all’individuo, al soggetto “cittadino”,   l’individuo, il feticcio della modernità. Ciò che la modernità ama al di sopra di ogni altra cosa è l’idea dell’individuo “sano”, rimosso dal e isolato dalle terre selvagge di là dagli steccati.»

Nerezza

Nerezza non è un sogno pan africanistica associato a visioni di futura supremazia, ritorno dall’esilio e coerenza nazionalista e non parla nemmeno di una nerezza afrocentrica, statica ed essenzialista. Non si limita al concetto identitario antagonista associato alle dinamiche dell’identità nelle comunità Afro-diasporiche, e non è una promessa disincarnata e universale di emancipazione. In sintesi, questa nerezza non è una creatura dello Stato o della giustizia. Questa nerezza, pure secreta dalla storia e dalle storie e dai lutti di corpi neri, è l’olio votivo che illumina la fine di un “mondo”, cercando crepe nel vasto territorio umano (l’Anthropos), e promuovendo pratiche decoloniali fuggitive. Tale Nerezza sconcerta: è un invito a intrecciare i fili della complicità senza cadere nella comoda trappola della colpa; un invito a mappare il desiderio e a fare i conti con il fallimento. Un invito a combattere – non con i poteri stabiliti che disprezziamo, ma con le paradossali collusioni con cui sosteniamo tali poteri. 

Badate. Proprio come l’autismo non ha solo a che fare con eventi neurologici nella testa di un figlio, ma con i modi con cui produciamo e nominiamo i corpi e i mondi che li supportano escludendo altre corporeità, la Nerezza non riguarda solo persone nere (così come la bianchezza non riguarda solo i bianchi), anche se emerge dall’attenta considerazione dei contesti, delle esperienze e dei viaggi di entrambi. La nerezza è una cripistemologia [epistemologia che nasce da saperi considerati disabili/crippled NdT] che considera l’uomo, l’Anthropos, e ciò che fa, ciò che produce, ciò che esclude; la nerezza è la ricerca di nuove disabilità, di nuove fedeltà corporee. Riguarda un mondo macchinico che definisce alcuni colpi speciali – e altri corpi come appendici superflue, vicine all’animalità, e che non giungeranno mai alla gloria e alla nobiltà di quei corpi che si identificano come corpi bianchi: una nobiltà grevemente sostenuta dal diniego censorio della vitalità del mondo materiale. La nerezza non equivale agli slogan riprenderci il nostro, vendicarci, essere uguali, essere risarciti. Non equivale a quella opposizione normativa che rientra in fondo nell’architettura del progresso bianco. Riguarda invece il modo in cui corpi rimangono invischiati nei mondi che creano, nei mondi che li creano – riguarda le aperture, le crepe, che spesso emergono, quasi miracolosamente, riguarda i portali attraverso i quali possiamo intuire con un’intensità percettiva quasi animale che una diversa via è possibile.

 La nerezza non è solo una opposizione avversa e prescrittiva che interferisce con il progresso biancoè l’abbondanza nei confronti della quale siamo già indebitati – anche se non sappiamo bene come riconoscerlo. Parlo elle piume di polvere ricche di fosforo e delle diatomee morte negli antichi laghi dei deserti africani che volano al di là dell’Atlantico per nutrire i polmoni amazzonici del pianeta (e fanno eco ad altri viaggi che attravesarono l’Atlantico quattrocento anni fa); parlo della porosità degna-di-gratitudine che turba ogni vocazione alla permanenza.

 La nerezza – questa lettura elettrica e temporanea di ciò che  emerge attraverso la storicità della presa in schiavitù e della colonizzazione – è la possibilità estatica che anche la bianchezza si stia mutando in altro.

Per una cartografia decoloniale

Postattivismo creativo

art by Curiot

Riprendendo i nostri dialoghi vorrei poter inaugurare una serie di discussioni su come si possa intendere il “postattivismo”:  non come una sorta di superamento dell’attivismo, ma come una via verso una  maggior efficacia e respons-abilità in una nascente ecologia della cura e della riparazione. L’epistemologia critica è importante ma non basta e nessun “soluzionismo”  esce in fondo dalla logica coloniale della pretesa efficienza della modernità. Una architettura in cui abitano persino i privilegi “etici” delle migliori ragioni e che alimenta negli stessi movimenti il narcisismo delle piccole (o grandi) differenze.

Anche se siamo ancora incapaci di fermarci davanti allo sfacelo –  come l’angelo della storia di Benjamin catturato dal moto perpetuo dei più alti ideali –  forse cominciamo a intravedere quanto l’intreccio costitutivo e relazionale della realtà ci inviti ad abitare e trasformare  diversamente le rovine. Specialmente quando il confine tra simbolico e reale si assottiglia: quando i satelliti iniziano a cadere “La caduta del cielo” – la profezia sciamanica di Davi Kopenawa – non è più solo un affascinante viaggio dislocante verso esotiche prospettive.

Qui condivido non una sintesi ma tre  brani che assemblo perché li ho appena letti e ascoltati – contributi di di Bayo Akomolafe, l’autore che in questo momento mi sollecita più di altri a pensare ed esplorare il potenziale del pensiero decoloniale “fuggitivo” e diasporico: la costellazione della crisi,  il post-umanesimo, il neo-materialismo, le alleanze in fieri degli undercommons, il rovesciamento delle prospettive generato da un animismo relazionale ecosistemico intrecciato con le scienze della complessità… 

Forse la sfida si pone a un crocevia: andando di là si resterà intrappolati nei ricordi di passate militanze – che è anch’esso una sorta di imprinting identitario – nell’altra direzione invece rischiamo di rimuovere le eredità che ci costituiscono – non resta che riconoscere e rendere creativa l’impasse imparando a intra-agire  con quelle urgenze immanenti in cui il passato è strettamente intrecciato con questo presente…

C’è forse una terza via tra il militantismo risentito del conflitto permanente e la resa alla dipendenza atomizzante agli algoritmi dominanti. Una via che prende forme provvisorie a partire dalla consapevolezza emergente che ciò che agisce non può essere che affettivo, intra e inter-relazionale.

L’attivismo militante, le lotte per il respiro negato, per i diritti, lo stesso slancio critico, sono stati e restano imperativi necessari  oltre che storicamente cruciali,  come lo sono gli imperativi locali del presente. Il postattivismo mi sembra tuttavia un tentativo “clinico” di esplorazione collettiva di forme di  cura, riparazione e creazione collettiva in un tessuto relazionale (e percettivo) profondamente ferito, un tentativo che tenta di ripensare le alleanze necessarie a farlo nel contesto di in una più ampia e inclusiva costellazione o cartografia spazio-temporale.

Mi piace in particolare il modo in cui Bayo decostruisce le identificazioni razziali rideclinandole in termini storico-simbolici: la bianchezza come eredità escludente, culto della purezza e del controllo all’interno di un’architettura modernista e come dice Mbembe “brutalista” capace di accomodare nei suoi dispositivi giuridici la costruzione di moltitudini di “corpi-frontiera”. E la nerezza come decostruzione forzata del rapporto con “terra e sangue”, ma anche opportunità diasporica animata dalle radici di un rapporto permanente con la complessità visibile e invisibile e con l’idea di cura come trasformazione…

Da questo punto di vista le considerazioni di Bayo offrono una diversa cornice di riferimento per l’idea di riparazione che anche in questo caso fanno eco a quelle di Mbembe e degli autori di Undercommons. Se la riparazione delle ferite coloniali e patriarcali tocca il tema di fratture profonde nella relazione col vivente essa rappresenta qualcosa di altrettanto irriducibile, qualcosa che ha la forza di un evento e che trascende sia le supposte virtù giuridiche della modernità che il concretismo di un risarcimento impossibile. E tuttavia dalla stessa frattura diasporica nuove fonti di pensiero e performatività aprono inedite possibilità di cura.

Mi rendo conto mentre assemblo che i frammenti arbitrariamente condivisi non fanno giustizia alla ricchezza degli argomenti che una lettura più organica del lavoro di Bayo Akomolafe può offrire – ma forse possono servire come pratica di compostaggio se fecondati dallo slancio immaginativo di chi legge. 

A presto,

fab

art by Curiot

Qualche brano da una conversazione in podcast che potete ascoltare per intero in inglese qui https://newrepublicoftheheart.org/podcast/064-bayo-akomolafe-getting-lost-meeting-the-more-than-human-vibrancy-of-the-world/?fbclid=IwAR2fCsQTIA_6bxQxiFUUVvhY4P-tU-cpFmzEe3LdB6j6ruyUg4aDnOY6_VE

«Come creiamo qualcosa di nuovo? Come facciamo qualcosa di diverso dal parlare nello stesso modo, scrivere nello stesso modo, ritrovarci nello stesso modo? Come faccio o come facciamo noi – e dico “noi” perché c’è una complessità irriducibile e perché l’io è già accompagnato da quegli “altri” che cerca di ignorare mentre sforza di nominare sé stesso così assiduamente… 

Come facciamo, a partire da questo denso noi, a uscire dai confini di ciò che ci è famigliare, per entrare in ciò che è portentoso e  impensato,  per intrecciarci con altre modalità del pensare e del conoscere? 

Le cose che cerco di esplorare nel campo dell’invenzione  e della sperimentazione, nei margini liminali delle cose e che a volte definisco nel linguaggio della “fuggitività”, delle “piantagioni”,  della fratture , delle nascite messianiche e delle notizie sperimentali, mi rendono sospettoso nei confronti del “soluzionismo”, mi rendono guardingo nei confronti di chi dice: “ho la soluzione”.  Sto cercando una dimensione di “incapacità generativa”, un posto per il compostaggio che possa rendermi capace di cose nuove e ovviamente il compostaggio non dipenderà dalle mie azioni, perché un nodo nel filo non può sciogliersi da solo, ha bisogno della compagnia di altri per farlo, così in un certo senso la mia ricerca ha come focus gli altri, tutti quelli che la modernità ha escluso, altri alieni, microbiomi-altri, tutti quelli che non abbiamo pensato come particolari o cruciali per ciò che succede sulla terra, perché pensiamo sempre nei termini di ciò che conta per gli umani, ci poniamo sempre come esseri senzienti al centro, mentre il mio desiderio va verso  i mostri, le fate, gli outsider, le cose che escludiamo, e io confido in un coro di esseri che generi alleanze più ampie, per trovare nuovi modi di stare insieme. Queste sono le mie priorità e il modo in cui procedo su questo piano, per esempio, è quello di incontrare i miei bambini ogni volta come se fosse la prima. Ci sono faglie creative nel tessuto della realtà (…)

[Domanda: “dopo George Floyd e di fronte ai suprematisti bianchi qui in America non c’è più modo si sentirsi “virtuosi” ci sembra di ereditare tutti un crimine  e quando entriamo in dialogo con qualcuno dal Sud Globale, con qualcuno nero, vorremmo in fondo non essere associati ai colpevoli, vorremmo poter riconquistare una virtù impossibile e vorrei nominare queste cose in uno spirito di apertura e vulnerabilità…”]

Se tu andassi a trovare uno sciamano Yoruba – in realtà non si definiscono sciamani, ma guaritori, il termine è babalayo,  un “medicine man” che è una sorta di avvocato cosmico, che non si limita a guarire ma che negozia la guarigione, il benessere e la prosperità con con la miriade di agencies multiple che popolano il mondo e che noi riassumiamo con nome ayé,  termine che con una sana dose di povertà viene tradotta con il termine “vita”, ma è qualcosa di più ampio, c’è quasi un sapore di cospirazione nel termine ayé…., comunque il babalayo incontra tutte le forze o il maggior numero possibile di forze che sono rizomaticamente connesse con la tua situazione per intercedere a tuo favore, con una capra o dell’igname (yam), ma un guaritore o babalayo non smette di essere gentile quando si avvicina con un coltello…c’è qualcosa che può apparire brutale nell’approccio, non credo che loro ne parlerebbero esattamente in questi termini ma su un certo piano si può dire così: “la guarigione può essere un rischio”… se la guarigione si china su una forma particolare con cui ci identifichiamo allora fa correre dei pericoli. Abbiamo questo desiderio di salvezza e redenzione. Ma salvezza e redenzione si declinano a partire da una ontologia specifica che stabilizza determinate modalità di “essere” e questo è il motivo per cui spesso dico che la “giustizia” che è un ideale immenso, no?, potrebbe anche ostacolare alcuni processi di trasformazione… e il lavoro del babalayo è la trasformazione.

Sa che il tuo problema non consiste nel maggiore o minor benessere, ma nell’aver assunto un determinato stato corporeo…uno stato corporeo che ti permette di sperimentare quello che stai sperimentando…. Così viene verso di te con un coltello per ferirti, per ferirti di più, non per ucciderti ovviamente, ma per incidere cicatrici nel tuo corpo, e da dove vengo io questo ha generato la tradizione delle scarificazioni, l’apertura della carne corrisponde al desiderio della carne di altre modalità di essere nel mondo e la spietatezza di quello che dico deriva da questo, che se parlo a partire dal paradigma all’interno del quale nasce la domanda allora divento parte del problema, imbrigliato nelle dinamiche del problema (…) ho cominciato a pensare “cosa potrebbe funzionare meglio di una risposta a un problema?” e sento che la risposta a questa domanda è “una sorta di stupore meravigliato e sbigottito” (bewilderement)… perché lo stupore ci fa uscire dalle economie relazionali dove le domande e le risposte si contaminano a vicenda… ti trasporta in una diversa economia relazionale, in una prospettiva del tutto diversa…da mio punto di vista può essere più efficace di una risposta. Così quando mi fai una domanda sulle dinamiche Floydiane della nostra epoca, la domanda centrale che emerge dalla modernità è “ come reagiamo, come affrontiamo il senso di colpa che questa situazione genera?”  E non ho una risposta definitiva, ma anch’io mi pongo una serie di domande:   mi chiedo anche se il modo con cui formuliamo queste domande non facciano parte del problema… facciano parte della crisi…. E se l’enfasi sulla colpa – e non è che voglia svalutare l’importanza della colpa, il senso di colpa può avere una funzione, ma il dubbio è che l’enfasi sulla colpa non faccia altro che consolidare la centralità bianca che vorremmo decostruire o dalla quale vorremmo allontanarci…e che anche il paradigma dei soggetti che cercano riconoscimento da parte dello Stato faccia parte del problema…

Così quando una persona bianca si presenta e chiede “ma noi ora che facciamo di questa situazione?” io sento che la domanda stessa risuona con il paradigma dominante che tenta di arruolare quei corpi come attori nel consolidamento della modernità…e non credo che abbiamo risposte …a queste domande su quello che possano fare i bianchi… credo che questo sia un momento in cui sia cruciale ascoltare insieme, potresti chiedermi “ma ascoltare cosa?” – credo che il mondo più-che-umano ci stia invitando a una posizione di ricerca e questo luogo di ricerca è razziale, spirituale, psicologico, economico, gastronomico, batterico, microbiotico è contemporaneamente tutte queste cose…ed è qui che penso che sperimentare nuove modalità di essere sia necessario, per andare da una politica che mette al centro queste ansietà, perché le ansietà sono il prodotto delle forme cha abbiamo assunto…e abbiamo bisogno di nuove storie e nuove cornici di riferimento ontologiche con cui pensare o ripensare le nostre identità, ripensare cosa significhi essere nera, che è un concetto diasporico, ripensare che significhi essere bianca, che è una moderna imposizione identitaria e trovare altri modi di essere nel mondo…

Non va assolutamente ignorato il grido urgente, la domanda di salvezza e attenzione… faccio parte di quel grido, ma so che la critica mi può portare solo fino a un certo punto…la critica mi colloca in piena modernità e ho bisogno di qualcosa che mi porti più in là [Bayo qui racconta la storia degli schiavi Igbo che ho pubblicato in Ballando con lo spirito dell’acqua)… quella idea di una nerezza più-che-umana mi interessa perché non voglio essere salvato da corpi bianchi, non voglio essere l’oggetto di compassione moderna, voglio altri spazi di potere.

[Domanda sintetizzata: “abbiamo ereditato una narrazione di progresso… e l’abbiamo poi intrecciata con un’idea spirituale, perché non possiamo considerare la vita solo come una storia catastrofica, la vita è miracolosa non stiamo forse andando verso la vitalità vibrante di un mondo consapevole e meraviglioso?”]  

Sono di solito molto riluttante nel descrivere il mondo come IL mondo. Credo che Marcus Gabriel nel suo libro “perché il mondo non esiste” abbia lavorato per decostruire l’idea che il mondo sia un tutto coerente… non è che neghi l’evidenza empirica sta solo dicendo che il linguaggio non può nominare ogni cosa in una qualche forma totalizzante, non vi è un termine che copra tutto, la “cosapevolezza” non basta, l’Universo neppure, perché persino l’immaginazione è reale, ha veri e propri effetti non è necessario che abbia validità empirica per avere effetti. Non è che vi sia UN mondo e nemmeno mondi MULTIPLI, il mondo è resiliente nella sua indeterminatezza e navigandolo noi operiamo dei tagli operativi in un punto o nell’altro, lo definiamo e chiediamo che ci definisca…. Non siamo solo degli utlizzatori e il mondo non è solo uno strumento – di nuovo il linguaggio mi tradisce – noi non siamo utilizzatori e Un Mondo o Mondi Multipli o il Mondo a Venire siano uno strumento, piuttosto capiamo che  i ruoli vengono costantemente capovolti. E questo mi porta a discutere l’idea di “che cosa ci aspetta” e sono acnora più riluttante a parlarne – qualche volta mi chiedono: “cosa pensi che accadrà nel 2050? Entreremo in un Età della compassione?” O qualcosa del genere. E davvero non so come rispondere a questo tipo di domande…Vengo da un popolo che non poteva vedere cosa sarebbe accaduto la settimana dopo perché non ne avevano la possibilità… quando leggo della scarsa visibilità in California per via degli incendi, sento compassione ma sento anche “certo, questa cosa la conosco, l’ho vista, l’ho vissuta…” il fatto di non sapere cosa succederà dopo… l’urgenza, l’immediatezza del mondo è ciò che cattura la mia attenzione – e so che rischio di lasciar fuori un universo di considerazioni – ma c’è lavoro da fare nella immediatezza immanente del mondo, a partire da come viviamo nella densità del presente…e al di là delle categorie con cui proiettiamo il presente nel futuro. Preferirei mettere a fuoco il passato. Per esempio, c’è un proverbio indigeno che dice che il lavoro serio lo fanno quelli che guardano il passato. Non considero il passato come qualcosa di concluso, perché mi interessa un diverso paradigma temporale, “il passato deve ancora accadere”, posso guardare in avanti, per così dire, e guardare il passato. Se pensi al tempo in termini circolari allora il passato non è solo ciò che è passato, il passato è ciò che sta ancora accadendo, l’eco di voci nelle pieghe della modernità, gli archetipi di cui parlava Hillman per cui gli dei che non sono mai svaniti, sono diventati parte dei nostri apparati, dei nostri pixel e delle nostre tecnologie…L’idea che il passato sia presente che dobbiamo le nostre vite e i nostri corpi al cosiddetto passato, e che lo elaboriamo continuamente in una qualche forma transcorporea quando per esempio ci chiediamo: “che significa avere un corpo? Che significa essere vivi in questo tempo?” questo è un tema che mi appassiona, tanto che non riesco a pensare a quale forma il mondo potrebbe avere in un tempo futuro – non so se posso avere fiducia – e forse questa è una prospettiva postmoderna – non so se posso avere fiducia in queste grandi metanarrative – l’ ”Età della Ragione”, l’ “Età dell’Acquario”…o qualcosa del genere (ride) certamente non c’è stato niente del genere per persone come me…sono molto sospettoso rispetto a quel modo di nominare le cose anche per restare umili rispetto a cosa potrebbe accadere – non è per negare la creatività con cui nominiamo le cose, ma dobbiamo resistere all’urgenza di farlo da soli…»

Da un altro post sulla pagina fb bayoakomolafe

«La modernità non ha eliminato il sacro. Lo ha riposizionato nel confine delle coordinate umane – in primis nel corpo bianco, il suo principale avatar. Qui nei vortici del rifiuto post/moderno di ogni autorialità non umana, nello stesso progetto antropologico, si nasconde un tempio dedicato alla venerazione delle quando riusciamo a criticare queste forme di devozione religiosa –  siamo tutti arruolati al servizio di questa configurazione: puliamo panche, passiamo il cestino delle donazioni, ammiriamo i preti nel sanctum sanctorum. Ma il sacro non si fa ingabbiare. Oggi, se ascoltate, potreste sentire che la presa contratta dell’umano comincia ad allentarsi, mentre la nostra pretesa centralità non regge il confronto con argomenti non umani assai convincenti. Se ascoltate un po’ più a lungo, potreste persino iniziare a discernere i passi caotici del sacro che migra dal suo precedente confine, fischiettando mentre saltabalzella con determinazione  sulle rovine asfaltate del nostro mancato arrivo…»

carnevale a Haiti

 

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«Insieme a Bruno Latour, in una “perversa” deformazione del suo aforisma ma che credo egli approverebbe possiamo dire: “Non siamo mai stati umani”. In un sorprendente rovesciamento del copione non siamo né gli eroi né l’unico focus affascinante di un pluriverso eccedente. Il sapere strumentale umano capace di concepire l’uso di strumenti e attrezzi è diventato (o è sempre stato) strumentalizzato. La dimensione [evolutiva] ultima, definitiva è diventata  penultima (…) il mondo è vivo e performativo – suffuso di elementi di agentività relazionale, quelli che attribuiamo senza pensarci a noi stessi.

art by Curiot

In breve l’Antropocene richiede una ontologia radicalmente nuova e smantella quella aristotelica-cartesiana che la maggior parte degli abitanti della modernità hanno dato per scontato. Aspetti di questa performatività materiale che prende atto di processi “molecolari” (nel senso attribuito alla parola da Deleuze) sono i corpi transcorporei, le specie amiche, il tempo queer e l’agentività non umana. Questo vibrante mondo ecologico emergente, de-sacralizza l’attività umana, inserendola in una rete di altri effetti efficaci che scorrono da un mondo incalcolabilmente perverso e rizomatico. Un mondo processuale di azioni performative in divenire.

(…)

Invece di considerare solo i soggetti indipendenti nel loro agire – cioè l’unità  privilegiata di analisi del cambiamento sociale, e le cui intenzioni, motivazioni ed esaurimenti costituirebbero la fucina del cambiamento mondiale  – prestiamo lttenzione all’attrezzatura che circonda il soggetto intento ad agire,   considerando l’assemblaggio complessivo,  tentando ci capire cosa e come stia operando questa concatenazione di corpi. 

L’attivista non è più l’umano separato dal dispositivo necessario al suo attivismo, ma è l’ ”umano” e i suoi attrezzi: gli schermi dei computer, i concetti, le classificazioni, le categorie di pensiero, e la città nei suoi effetti di soggettivazione.

In quanto tale il “Sé” classico viene così decentrato come focus dell’attenzione e delle suppliche; il cambiamento sociale non dipende da mosse unilaterali del sé umano, ma dalle concatenazioni emergenti che attraversano altre concatenazioni (deterritorializzioni e riterritorializzazioni).

Come definire una ricerca postattivista? Quali questioni potrebbero emergere? Non c’è spazio qui per esplorare le metodologie di un impegno postattivista, ma qualunque esse siano, tale vocazione è promettente  – specialmente in tempi di sconforto, quando l’approccio alle questioni da veterani dell’attivismo non appare generativo. 

Come figlio del cosiddetto Sud Globale, il mio popolo è stato per molto tempo beneficiario della “benevolenza” occidentale. Le Ong sono altrettanto numerose delle chiese predatorie ad ogni angolo di strada. Molti [subalterni] si  ribattezzano “attivisti”  per  mettere la bocca sotto il rubinetto  del “foreign aid” e della filantropia Euro-Americana. Tuttavia non ci sono grandi cambiamenti. L’attivismo si traduce sovente nel fatto che scafati ragazzi di strada siano pronti ad ingannare un altro straniero in cerca di virtù. Per i volonterosi ed ingenui neo attivisti le lezioni sono dure e presto imparate: non importa quali siano la tua giusta causa, o le tue nobili intenzioni, per sopravvivere devi portare avanti il programma.

Il possible invito del postattivismo è di restare con i vari elementi dell’arredamento che compongono l’assemblaggio attivista. Invece di mettere a fuoco solo l’umano, veniamo invitati a prendere nota dei dispositivi, di  cosa essi stabilizzino, di che cosa riproducano, di che cosa escludano. 

Per esempio – prendendo sul serio l’invito postattivista di de-privilegiare l’ “attore” umano – potremmo scoprire che i nostri problemi fanno spesso parte del problema: che le nostre soluzioni, pensieri, contributi e idee sono secrezioni delle concatenazioni con cui intra-agiamo. E che come tali – e questa è un’ulteriore importante considerazione post-attivista – spesso rafforzeranno le situazioni problematiche che vorremmo evitare: le nostre “soluzioni” sovente si riveleranno come un aspetto della crisi che si ripiega e moltiplica, magari in modo più intelligente e con più sfumature.

La cosa più importatnte è che la ricerca postattivista potrebbe aiutarci a ritrovare un sentimento di meraviglia e re-incanto indicandoci “altri luoghi di potere”. Forse questo è il suo dono più grande: scombinare gli schemi percettivi e le forme di impegno per riorientare l’attenzione su altre bolle di potenzialità che emergono dai paesaggi chimici dell’Antropocene.

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In ultima analisi, il più grande sacrificio dell’attivista è la sua identità, la sua verginale separatezza. Con la sua dipartita disperde i suoi resti impollinando ogni banale superficie con agentività e promessa. Ed è lì che dobbiamo andare, nella distanza performativa in cui vortica l’altrimenti.»

street art stencil a Betlemme