Sud

Sud di Gisella Modica, pubblicato nel Lessico della Crisi e del Possibile (SEB27, 2019)

Puglia 1955

Sud: terra del numinoso, del meraviglioso, del sogno, disseminato di Madonne nere, colore della rigenerazione e dell’invisibile; di Sibille che richiamano la cultura sommersa della fiaba; di Sante, porte di accesso casalingo al soprannaturale, figure liminali, metà prefiche metà guaritrici, che assumono su di sé il dolore e facendo spazio all’altro creano possibilità di vita nuova.

Sud: terra del sacro come compresenza dei vivi e dei morti; dilatante esperienza conoscitiva oltre il confine della coscienza originata dal bisogno di sconfinare della mente; dall’intima consapevolezza che c’è qualcosa di essenziale per la propria esistenza che resta nell’ambito del non dicibile e del non visibile.

Sud: soglia tra centro e periferia, isola e continente. Punto “d’intersezione di derive opposte che si mescolano da cui gettare uno sguardo singolare che sottraendosi alla logica della globalizzata omologazione del fare e del pensare, è capace di cogliere punti di contatto tra due estremi”. “Posizione terza dove posso invitare l’altro ad entrare, ma anche l’altro può invitare me a venire fuori”. 

Sud: “pozzo mare” della propria infanzia. Luogo dell’immaginario che ha sede nell’anima o nel sogno. Polo sud del pensiero a cui si approda attraverso i sentieri dell’emozione e dell’esperienza facendo largo fra stereotipi e rimozioni. 

Sud: Condizione permanente di precarietà. “Senza una casa dove stare”. “Luogo dell’assenza e di non ritorno, o del ritorno ogni volta da reinventare” da cui si va e si torna sostituendo al cerchio un moto a spirale.  Fare su e giù. Fare e disfare per non perdere di vista il punto d’origine, geografico e simbolico, senza rimanerne intrappolate.

Sud: “Terra di forte impatto emotivo dove il grigio paludoso delle discariche e l’azzurro del mare si fondono e coabitano con uguale forza aprendo ad un immaginario caratterizzato dal contrasto e dall’ambivalenza. Fa sud sentire forte il contrasto tra la bellezza e l’orrore di una terra violentata, e di violenza così compatta da non fare passare niente. Tra l’amore e lo strazio per il suo degrado che sembra trascinare con sé affetti e cose care, causa di dolore. Vivere il dolore, stare sulla ferita può insegnare a relazionarsi all’altro.  Un approccio che attiva una forma di conoscenza empatica. Un sentire-vedere. Un’arma per incidere sul potere camorristico e mafioso, sulla legge del più forte. 

Il sud dentro di sé fa ruggine, come un meccanismo che s’inceppa costringendo a tornare sempre sullo stesso punto, a ripartire daccapo, dalla contraddizione, a fare continuamente i conti con se stesse. 

A sud l’atto di separazione dal luogo, dall’oggetto d’amore, da sé è necessario, come l’atto del respirare, costringendo a vie di fuga. Alcune le trovano nella scrittura, altre nell’emigrare.

Il sud è “resto” è “rovina” è “rimosso”, e il tipo di immaginario che trascina con sè è legato alla cultura del resto, del rimosso. Imparare dai resti – figure non chiuse, tracce, frammenti, scarti materiali e umani (rifiuti urbani, immigrati, clandestini, precari) – ti invita a lavorare su quello che manca, sulla perdita, sul non finito, sull’ immondo. Insegna a fare attenzione ai dettagli; ai margini; a ciò che muta continuamente e velocemente sotto i nostri occhi: indefinito, irregolare, contingente, asincrono.

Ripartire dai resti insegna a fare dello spaesamento un punto di avvistamento, di ricollocamento in una seconda vita.Insegna a fare della cicatrice, una porta. 

Nota: Le considerazioni sono frutto del convegno della Società Italiana delle Letterate “Terra e Parole: donne riscrivono paesaggi violati” svolto a L’Aquila nel 2013 e del seminario itinerante “Ripartire da sud” organizzato da Nadia Nappo e da me a Napoli e a Rende nel 2015.