
Riporto di seguito il brano che Bayo Akomolafe dedica a un racconto di Ursula K. Le Guin e che mi sembra cruciale per avvicinare il suo modo di affrontare l’intreccio tra decolonialità, disabilità e la dimensione immaginativa che vivifica i pensieri emergenti.
Freud pensava all’ombelico del sogno come all’elemento cruciale che ci separa dal portato perturbante e rimosso del suo significare. Anche nella storia di Le Guin mi sembra esista un ombelico del testo e vorrei invitarvi a cercare di capire in che modo possa risuonare con i nostri incorporati e con i modi di vedere che ci separano dal mondo perché cercando di garantire una casa ai nostri posteri – dice Bayo – “abbiamo solo accelerato e sottolineato la dissociazione tra noi stessi e il mondo”
Ma ecco il brano, tratto da Queste terre selvagge oltre lo steccato edito da Exòrma.
«Nel racconto di Ursula Le Guin “Quelli che si allontanano da Omelas”, l’autrice immagina una città idilliaca, “dalle torri luminose sul mare”, un luogo così felice da sembrare troppo bello per essere vero. È una città dalla nobile architettura, che coltiva una scienza profonda e una squisita saggezza. Una felicità davvero responsabile permea Omelas. Come mai questa gioia compiuta e integra?
La narratrice non lo dice, o non lo sa, ma chiede al lettore della storia di arrivare da solo alle proprie conclusioni. I dettagli di ciò che li rende così felici “non hanno importanza”, il narratore sa solo che sono felici – e non si tratta di una felicità insipida, vacua,“buonista”, “puritana”, derivativa, stupida o banale, ma di una reale liberazione, incarnata, intellettuale e affettiva. Sebbene la narratrice non conosca tutti i dettagli che contribuiscono alla felicità di questa città, è tuttavia abbastanza certa che essa sia resa possibile dall’assoluta miseria di un bambino piccolo collocato in un seminterrato sporco, insalubre e privo di finestre:
In un seminterrato sotto uno dei bei palazzi pubblici di Omelas, o forse nella cantina di una delle sue spaziose case private, c’è una stanza. Ha una porta chiusa a chiave e nessuna finestra. Un po’ di luce filtra polverosamente tra le fessure dei tavolati, da una finestrella coperta da ragnatele in qualche altra parte nella cantina. In un angolo della stanzetta, vicino a un secchio arrugginito, ci sono un paio di spazzoloni con la testa rigida, raggrumata e maleodorante. Il pavimento è sporco, un po’ umido al tatto, come di solito la sporcizia delle cantine. La stanzaè. lunga circa tre passi e larga due: un semplice ripostiglio per le scope o un deposito di attrezzi in disuso. Nella stanza è seduto un bambino. Potrebbe essere un bambino o una bambina. Sembra avere circa sei anni, ma in realtà ne ha quasi dieci.
Per raccontarti per bene questa storia, tesoro, ho citato a lungo l’autrice, perché lo/la descrive in modo così suggestivo
In Omelas questo bambino/a non vede mai la luce del giorno, l’amore, l’alba, non sente mai il vento che gli soffia sul volto. È “così magro che le gambe non hanno polpacci; ha il ventre gonfio; vive con una mezza ciotola di farina di mais e grasso al giorno. È nudo. Natiche e cosce sono una
massa di piaghe incancrenite poiché siede continuamente sui suoi stessi escrementi”. Non finge di essere miserabile; è davvero miserabile, e la narratrice si preoccupa di dissuadere il lettore dal pensare che questo bambino sia proto-umano o una specie di macchina priva di sentimenti e di desiderio:
Ha paura degli spazzoloni. Li trova orribili. Chiude gli occhi, ma sache sono ancora lì; la porta è chiusa; e nessuno verrà. La porta è sempre chiusa a chiave e non arriva mai nessuno, tranne che, a volte – il bambino non capisce nulla del tempo e dei ritmi – a volte la porta cigola terribilmente e si apre, e una o più persone appaiono. Una di loro può venirgli vicina e dargli un calcio per farlo alzare. Gli altri non si avvicinano mai, ma lo scrutano con occhi spaventati e disgustati. La ciotola del cibo e la brocca dell’acqua vengono frettolosamente riempite, la porta viene chiusa a chiave, gli occhi scompaiono. Le persone alla porta non dicono mai nulla, ma il bambino, che non ha sempre vissuto nella stanza degli attrezzi e ricorda la luce del sole e la voce della madre, a volte parla. “Farò il bravo”, dice. “Per favore, fatemi uscire. Farò il bravo!”. Non rispondono mai.
Gli abitanti di Omelas non sanno che il bambino è lì? “Lo sanno tutti, tutti gli abitanti di Omelas”. Il narratore spiega che a volte vengono a trovarlo, non per consolare o offrire una parola gentile o portare coperte, ma per guardarlo per un po’ e poi allontanarsi. Sanno che deve stare lì. “Tutti capiscono che la loro felicità, la bellezza della loro città, la tenerezza delle loro amicizie, la salute dei loro figli, la saggezza dei loro studiosi, l’abilità dei loro costruttori, persino l’abbondanza del loro raccolto e il tempo clemente dei loro cieli, dipendono interamente dall’abominevole miseria di questo bambino”. I genitori lo spiegano ai figli, ma per quanto lo facciano bene, tutti quelli che vanno a fargli visita restano sconvolti.
Alcuni capiscono, altri vogliono fare qualcosa, tranne che, nel momento in cui offrissero anche solo un sorriso, “in quel giorno e in quell’ora tutta la prosperità, la bellezza e la gioia di Omelas appassirebbero e verrebbero distrutte. Le condizioni sono queste. Barattare la bontà e la grazia di ogni vita di Omelas per quell’unico, piccolo miglioramento: buttare via la felicità di migliaia di persone per la possibilità della felicità di una sola”.
Queste sono condizioni assolute. La pregnanza, la potenza e la vitalità della cultura di Omelas – quelle mura galanti, quella conoscenza autentica di molte arti, quella entusiastica e reciproca benevolenza e quell’ospitalità condivisa – tutte queste cose derivano dalla consapevolezza che quel bambino viene tenuto così. Gli abitanti di Omelas sanno di “non essere liberi”; possono mostrare compassione ed essere gentili solo perché è lì. Alla fine, molti imparano a mollare il senso di colpa dopo aver covato a lungo la “rabbia” per le condizioni del bambino.
Possono scervellarsi per settimane o anni. Ma con il passare del tempo cominciano a rendersi conto che, anche se il bambino potesse essere liberato, non otterrebbe molto dalla sua libertà: un po’ di vago piacere da calore e cibo, senza dubbio, ma poco più.… Le loro lacrime per l’amara ingiustizia si asciugano quando cominciano a percepire la terribile giustiziadella realtà, e ad accettarla.
Il narratore trova poi incredibile il fatto che alcuni di coloro che vanno a osservare il bambino non tornino mai a casa piangendo; passano oltre i campi coltivati, oltre le nobili corti e le buone strade di Omelas, e lasciano la città per sempre. Il narratore non può dire se sappiano dove stiano andando, ma se ne vanno, si allontanano chissà dove.
In retrospettiva, la storia di Le Guin sarebbe stata un’eccellente esemplificazione dei temi che ho esplorato nella lettera precedente sai, quella che parla di una parte della vita psichica irrimediabilmente oscura e della nostra necessità di trovare un modo per farci i conti. Quell’oscurità non può essere risolta. Ma se provi una certa rabbia nel contemplare le disgrazie del bambino, e giuri di essere uno di quelli che si armeranno per fare qualcosa, sono solidale con te, cara. Mi sono sentito così leggendo la storia.
L’intuizione magistrale di Le Guin, tuttavia, consiste nel non imporre giudizi morali. Non conclude dicendo che le persone sono malvagie; non le descrive in modo poco lusinghiero.
Leggendo, non si sente una colonna sonora minacciosa e sinistra celata dietro l’apparente gioia degli abitanti della città. Ed è così: uno dei motivi che Omelas rende evidente è che nulla si manifesta “completamente”… le cose appaiono diffratte, generate da ciò che abilita e da ciò che disabilita, da ciò che viene supportato e da ciò che viene occultato, simultaneamente.
Non è possibile trovare una posizione o un atteggiamento esente da tensioni generate da mondi e possibilità dimenticate. Le nostre realtà materiali, socio-politiche, economiche ed etiche vengono forgiate in un continuo patto faustiano; persino i concetti di bene e male sono spettralmente abitati da un bambino in una stanza senza finestre, chiuso a chiave, fuori campo.
Se ci chiediamo come rispondere alla crisi, la storia di Le Guin ci propone una lezione più sottile – una lezione che parla di intrecci, diffrazioni e intra-azioni: insegna che questa particolare domanda su “come rispondere alla crisi” ha un suo modo di agire che spesso ci impedisce di vedere che “stiamo già rispondendo”. Un altro modo per dirlo potrebbe essere che stiamo facendo la domanda sbagliata quando ci chiediamo cosa fare, come tornare a casa, come lasciare un bel mondo ai nostri figli: con questo tipo di pennello si dipinge male.
Quello che qui ci fa riflettere è che l’etica non è una cosa che viene “dopo”. Non osserviamo i fatti e solo dopo decidiamo di fare qualcosa. L’etica non è esterna al materiale farsi e disfarsi del mondo, ma emerge con esso – tanto che i nostri stessi corpi sono risposte etiche del mondo alla propria complessità.
Chiedere “come rispondiamo alle crisi?” può dare l’idea che le azioni siano questioni umane e che esista un posto esterno al mondo dove contemplare il modo migliore e più appropriato per rispondere. Ma non è così. Non possiamo rispondere al mondo se siamo il mondo.»