Lezioni dal virus

Proteste dai balconi in India

(Per la serie LE MONDE D’APRÈS – in accesso libero da MEDIAPART) un articolo di Paul B. Preciado sulle frontiere necropolitiche dei corpi che il virus mette in luce, ripartendo da Foucault questo testo risuona con quelli di Latour e Mbembe ripubblicati pure nel blog di Clinica della Crisi. [l’onere della tentata traduzione è di Fabrice e Letizia]

11 aprile 2020 PAUL B. PRECIADO

A fronte di un’epidemia quali sono le vite che vogliamo salvare? Covid-19, AIDS, sifilide: ogni società può essere definita a partire dalle patologie virali che la minacciano e dal modo con cui essa si organizza per far loro fronte. Prima parte di un testo del filosofo Paul B. Preciado nella serie degli articoli di Mediapart dedicati al mondo dopo la pandemia

Se Michel Foucault fosse sopravvissuto all’AIDS nel 1984 e fosse rimasto in vita fino all’invenzione della triterapia, forse oggi avrebbe 93 anni: avrebbe accettato di segregarsinel suo appartamento di rue Vaugirard? Il primo filosofo della storia morto a causa delle complicazioni generate dal virus dell’immunodeficienza acquisita ci ha lasciato alcuni dei concetti tra i più efficaci per riflettere sulla gestione politica dell’epidemia i quali, in mezzo al panico e alla disinformazione, diventano altrettanto utili di una buona mascherina cognitiva.

La cosa più importante che abbiamo appreso da Foucault è che il corpo vivente (e dunque mortale) è l’oggetto centrale di ogni politica. Non vi è politica che non sia una politica dei corpi. Ma il corpo non è per Foucault un organismo biologico dato a priori sul quale il potere agisce in un secondo tempo. Il compito stesso dell’azione politica è quello di fabbricare un corpo, di metterlo al lavoro, di definire i suoi modi di produzione e di riproduzione, di prefigurare le modalità discorsive con le quali i corpi costruiscono la propria costruzione narrativa sino al punto da potersi riconoscere come soggetti capaci di dire “io”.

Tutta l’opera di Foucault può essere compresa come un’analisi storica delle differenze tecniche per cui il potere gestisce la vita e la morte delle popolazioni. Tra il 1975 e il 1976, anni in cui pubblica Sorvegliare e Punire e il primo volume della Storia della sessualità, Foucault utilizza la nozione di “biopolitica” per parlare del rapporto che il potere stabilisce con il corpo sociale nella modernità.

Egli descrive la transizione da quella che chiama una “società sovrana” a una “società disciplinare” come il passaggio da una società che definiva la sovranità in termini di ritualizzazione della violenza e della morte a una società che gestisce e massimizza la vita delle popolazioni in funzione dell’interesse nazionale. Per Foucault, le tecniche di governo biopolitico si sono espanse come una rete di potere che è andata oltre la sfera legale o punitiva sino a diventare una forza orizzontale e tentacolare, che attraversa la totalità del territorio fino a penetrare nel corpo individuale. 

Durante e dopo la crisi dell’AIDS, numerosi autori hanno amplificato e radicalizzzato le ipotesi di Foucault esplorando la relazione tra biopolitica e immunità. Il filosofo italiano Roberto Esposito ha analizzato le relazioni tra la nozione politica di “comunità” e la nozione biomedica ed epidemiologica di “immunità”. La comunità e l’immunità hanno una radice comune, “munus”, che in latino sta per l’imposta (il dovere, la legge, l’obbligo ma anche il dono) che ognuno doveva pagare per vivere o far parte della comunità. 

La comunità è “cum” (“con”) “munus”: un gruppo umano che è vincolato da una legge e da un comune obbligo, ma anche da un “dono” da qualcosa che non ha prezzo. Il sostantivo “immunitas” è una parola privativa che deriva dalla negazione di “munus”. Nel diritto romano, l’immunità era una dispensa o un privilegio che esentava qualcuno dagli obblighi dei compiti comuni a tutti. Colui che era stato esonerato da tali obblighi era “immunizzato”. Mentre chi era “demunito” aveva perso tutti i privilegi della vita in comune. [Demunito è il privativo di “munito”, (provvisto, dotato) e sta dunque per sprovvisto, sprovveduto, spodestato, mancante di agentività. NdT.]

Roberto Esposito insiste sul fatto che ogni biopolitica è immunologica: essa implica una definizione di comunità a partire dall’organizzazione gerarchica di coloro che sono esonerati dalle tasse o dai doni (considerati come immuni) e coloro che la comunità percepisce come potenzialmente pericolosi (i demuniti) e che saranno esclusi in un atto di protezione immunologica. È il paradosso della biopolitica: ogni atto di protezione comporta una definizione immunitaria della comunità, il che implica arrogarsi il poter decidere se sacrificare una parte della comunità, a beneficio di una certa idea della propria sovranità. Lo stato d’eccezione rappresenta la normalizzazione di questo paradosso insopportabile.

A partire dal XIX secolo, con la scoperta del primo vaccino contro la varicella e con le esperienze di Pasteur e di Robert Koch, la nozione di immunità ha trasceso la sfera giuridica e acquisito una significazione medica. L’individuo moderno inteso come un corpo libero e indipendente non è solo un’utopia dell’economia liberale, ma anche uno standard di immunità biopolitica.

Le democrazie europee liberali e patriarco-coloniali del XIX secolo costruiscono l’ideale dell’individuo moderno non solo come un agente economico libero (maschio, bianco, eterosessuale) ma anche come un corpo immunizzato radicalmente separato, che non deve niente alla comunità. 

Per Esposito, il modo con cui la Germania nazista ha caratterizzato una parte della propria popolazione (gli Ebrei, ma anche i Rom, gli omosessuali, i disabili) come corpi che minacciavano la sovranità della comunità ariana è un esempio paradigmatico dei pericoli della gestione biopolitica immunitaria. Questa comprensione immunologica della società non si è conclusa con il nazismo; al contrario, è sopravvissuta negli Stati Uniti e in Europa, legittimando le politiche di gestione delle loro minoranze razzializzate e delle popolazioni migranti. È questa politica immunitaria che ha forgiato l’attuale Comunità economica europea, il mito di Schengen e i dispositivi violenti dispiegati da Frontex.

Nel 1994, in Flexible Bodies,l’antropologo Emily Martin, dell’Università di Princeton, ha analizzato la relazione tra immunità e politica nella cultura americana durante le crisi della poliomielite e dell’AIDS. Martin è giunto a conclusioni che sono pertinenti per l’analisi della crisi attuale. L’immunità corporea, afferma Martin, non è un fatto biologico indipendente dalle variabili culturali e politiche. Al contrario, ciò che intendiamo per immunità è costruito collettivamente attraverso criteri sociali e politici che producono alternativamente sovranità o esclusione, protezione o stigmatizzazione, vita o morte. 

Se ripensiamo alla storia di alcune delle epidemie mondiali dei cinque secoli scorsi attraverso il prisma offerto da Michel Foucault, Roberto Esposito ed Emily Martin è possibile elaborare una ipotesi che prenderebbe la forma di un’equazione: ditemi come la vostra comunità costruisce la sua sovranità politica e vi dirò quali forme prenderanno le vostre epidemie e come le affronterete.

Le differenti epidemie materializzano nel campo del corpo individuale le ossessioni che dominano la gestione della vita e della morte delle popolazioni in un dato periodo. Per riprendere i termini di Foucault, un’epidemia radicalizza e sposta le tecniche biopolitiche applicate al territorio nazionale inscrivendole sul piano dell’anatomia politica, dentro e sul corpo individuale.

Allo stesso tempo, un’epidemia permette di estendere all’insieme della popolazione le misure politiche di “immunizzazione” che erano state fino ad allora applicate violentemente su coloro che erano considerati come “stranieri” sia all’interno che alle frontiere del territorio nazionale.

La gestione politica delle epidemie mette in scena un’idea della comunità, rivela i fantasmi immunitari di una società e lascia apparire alla luce del sole i sogni onnipotenti (e gli scacchi) della sovranità politica. L’ipotesi di Michel Foucault, di Roberto Esposito e Emily Martin non ha nulla che vedere con le teorie del complotto. Non si tratta dell’idea ridicola secondo cui il virus sarebbe un’invenzione di laboratorio o un piano machiavellico per diffondere politiche ancor più autoritarie. Al contrario, il virus non fa che riprodurre, materializzare, estendere, intensificare attraverso la totalità della popolazione le forme dominanti di gestione biopolitica e necropolitica che funzionavano già sul territorio nazionale e ai suoi confini.

Così, ogni società può definirsi a partire dall’epidemia che la minaccia e dal modo in cui si organizza di fronte ad essa.

Considerate la sifilide, per esempio. L’epidemia ha colpito la città di Napoli per la prima volta nel 1494. L’impresa coloniale europea si era appena avviata. La sifilide è stata come il “pronti via” della distruzione coloniale e delle politiche razziali a venire. Gli inglesi chiamavano la sifilide la “malattia francese”, i Francesi dicevano che era la “malattia napoletana” e i Napoletani dicevano che veniva dall’America: che sarebbe stata portata dai colonizzatori che erano stati infettati dagli Amerindiani….

Il virus, diceva Derrida, è sempre lo straniero, l’altro, colui che viene da altrove. Infezione sessualmente trasmissibile, la sifilide ha materializzato nei corpi dal XVI al XIX secolo le forme di repressione e di esclusione sociale che hanno dominato la modernità patriarcale e coloniale: l’ossessione della purezza razziale, l’interdizione dei presunti “matrimoni misti” tra persone di classi e di “razze” differenti, e le molteplici restrizioni che pesavano sulle relazioni sessuali ed extraconiugali.

L’utopia della comunità e il modello di immunità della società della sifilide sono quelli del corpo bianco borghese sessualmente confinato nella vita coniugale come nucleo di riproduzione del corpo nazionale. Così, la prostituta è diventata il corpo vivente che ha condensato tutti i significati politici abietti durante l’epidemia di sifilide: donna attiva spesso razzializzata, corpo al di fuori delle leggi domestiche e del matrimonio, che ha fatto della sua sessualità il suo mezzo di produzione, la lavoratrice del sesso è stata resa visibile, controllata e stigmatizzata come il principale vettore della propagazione del virus.

Ma non è la repressione della prostituzione o la segregazione delle prostitute nelle case chiuse nazionali (come immaginava Restif de la Bretonne) che ha permesso di finirla con la sifilide. Al contrario. La segregazione delle prostitute non faceva che renderle più vulnerabili alla malattia. Quel che ha permesso di sradicare quasi del tutto la sifilide, è la scoperta degli antibiotici, e soprattutto della penicillina nel 1928, ma anche un decennio di profonde trasformazioni delle politiche sessuali in Europa – con le sollevazioni dei movimenti di decolonizzazione, l’accesso delle donne bianche al voto, le prime depenalizzazioni dell’omosessualità e una relativa liberalizzazione dell’etica del matrimonio eterosessuale

Mezzo secolo più tardi, l’AIDS sarà per la società neoliberista eteronormativa del XX secolo ciò che la sifilide era stata per la società industriale e coloniale del XIX secolo. I primi casi sono apparsi nel 1981, precisamente nel momento in cui l’omosessualità aveva cessato di essere considerata una malattia psichiatrica, dopo essere stata l’oggetto di persecuzione e discriminazione sociale per decenni.

La prima fase dell’epidemia ha soprattutto toccato ciò che allora era chiamato le “4H” [dalle iniziali delle parole in inglese]: gli omosessuali, le “hookers” – le lavoratrici del sesso -, gli emofiliaci e gli “eroinomani” – gli utilizzatori di droghe. L’AIDS ha rimodellato la griglia del controllo dei corpi e aggiornato le tecniche di monitoraggio della sessualità che la sifilide aveva tessuto e che i movimenti di decolonizzazione, quelli femministi e omosessuali, nonché l’invenzione della penicillina, avevano contribuito a smantellare negli anni ’60 e ’70. Come nel caso delle prostitute durante la crisi della sifilide, la repressione dell’omosessualità non ha fatto che aumentare il numero dei decessi.

Ciò che ha trasformato progressivamente l’AIDS in malattia cronica, è stata la depatologizzazione dell’omosessualità, l’autonomizzazione farmacologica del Sud, l’emancipazione sessuale delle donne, il loro diritto di dire no alle pratiche sessuali senza preservativo, e l’accesso alle tri-terapie da parte delle popolazioni interessate, indipendentemente dalla loro classe sociale o dal loro grado di razzializzazione. Il modello di comunità/immunità dell’AIDS è legato al fantasma della sovranità sessuale maschile intesa come un diritto non negoziabile alla penetrazione, mentre ogni corpo penetrato (nelle forme dell’omosessualità, della femminilità, dell’analità) è percepito come mancante di sovranità (demunito).

Torniamo ora alla nostra situazione attuale. Molto prima della comparsa di Covid-19, avevamo già avviato un processo di mutazione planetaria. Stavamo già vivendo, prima del virus, un cambiamento sociale e politico così profondo quanto quello che ha colpito le società che hanno sviluppato la sifilide. Nel XV secolo, con l’invenzione della macchina da stampa e l’espansione del capitalismo coloniale, siamo passati da una società orale a una società scritta, da una forma di produzione feudale a una forma di produzione industriale-schiavista e da una società teocratica a una società governata da accordi scientifici in cui le nozioni di sesso, razza e sessualità sarebbero diventati dispositivi di gestione della vita e della morte delle popolazioni.

Oggi, stiamo passando da una società scritta a una società cyber-orale, da una società organica a una società digitale, da un’economia industriale a un’economia immateriale, da una forma di controllo disciplinare e architettonico alle forme di controllo micro-protesico e mediatico-cibernetico.

In altri testi, ho qualificato come “farmacopornografico” il tipo di gestione e produzione del corpo, ma anche di soggettività sessuale in questa nuova configurazione politica. Il corpo e la soggettività contemporanea non sono più regolati esclusivamente dal loro passaggio attraverso istituzioni disciplinari (scuola, fabbrica, caserma, ospedale, ecc.) ma soprattutto da un insieme di tecnologie biomolecolari che entrano all’interno del corpo, attraverso microprotesi e tecnologie di sorveglianza digitale.

Nel campo della sessualità, la modificazione farmacologica della coscienza e del comportamento, il consumo di massa di antidepressivi e ansiolitici, la mondializzazione del consumo della pillola contraccettiva, nonché la produzione di tri-terapie,di terapie preventive dell’AIDS, o il consumo di viagra, sono alcuni degli indicatori della gestione biotecnologica.

L’estensione planetaria di Internet, la generalizzazione dell’uso delle tecnologie informatiche mobili, l’utilizzo dell’intelligenza artificiale, lo scambio di informazioni a banda larga e lo sviluppo di dispositivi di sorveglianza informatica globale via satellite sono altrettanti indicatori di questa nuova gestione digitale semio-tecnica. Se li ho qualificati come pornografici, è perché queste tecniche di gestione non funzionano più attraverso la repressione e l’interdizione esercitate sulla sessualità (masturbatoria o altra), ma attraverso l’incitamento al consumo e attraverso la produzione costante di un piacere regolato e quantificabile. Più consumiamo e più siamo in buona salute, meglio siamo controllati.

La mutazione in corso potrebbe al contrario rappresentare il passaggio da un regime patriarco-coloniale ed estrattivista, da una società antropocentrica e in cui una piccola parte della comunità umana planetaria si autorizza a esercitare una politica di predazione universale, a una società capace di ridistribuire l’energia e la sovranità. È questo punto che sarà al centro del dibattito durante e dopo questa crisi: quali sono le vite che vogliamo salvare? È nel contesto di questa mutazione, di questa trasformazione dei modi di comprensione della comunità (una comunità che è oggi il pianeta intero) e dell’immunità, che il virus opera e che la strategia politica per fargli fronte si organizza.

Ciò che ha caratterizzato le politiche governative nel corso degli ultimi 20 anni, almeno dalla caduta delle torri gemelle, di fronte alle idee apparenti di libertà di movimento che hanno dominato il neoliberalismo dall’era Thatcher, è la ridefinizione degli Stati-nazione in termini neocoloniali e identitari, e il ritorno all’idea della frontiera fisica come condizione per la restaurazione dell’identità nazionale e della sovranità politica.

Israele, gli Stati Uniti, la Russia, la Turchia e la Comunità economica europea hanno inventato nuove forme di frontiera che, per la prima volta dopo decenni, sono state non solo custodite o sorvegliate, ma anche re-inscritte erigendo muri, costruendo dighe e difendendole con misure non biopolitiche, ma necropolitiche, con tecniche di esclusione e di morte.

La società europea ha deciso di costruirsi collettivamente come una comunità totalmente immunizzata, chiusa all’Est e al Sud, mentre l’Est e il Sud, in termini di risorse energetiche e di produzione di beni di consumo, sono i suoi depositi.La costruzione di questa immunità politica è stata nutrita da un delirio neo-sovranista: l’Europa ha chiuso la sua frontiera in Grecia e ha costruito i più grandi centri di detenzione a cielo aperto della storia sulle isole che orlano la Turchia e il Mediterraneo, a Ceuta, a Melilla, a Calais, nell’isola di Lampedusa. La distruzione dell’Europa è cominciata paradossalmente con questa costruzione di una comunità europea immune, aperta all’interno e totalmente chiusa agli stranieri e ai migranti.

Ciò che ora viene testato su scala planetaria attraverso la gestione del Covid-19 è una nuova modalità di comprendere la sovranità in un contesto in cui l’identità sessuale e razziale si è disarticolata. Il Covid-19 ha spostato le politiche dalle frontiere del territorio nazionale o del super-territorio europeo verso l’organismo individuale. Il corpo, il nostro corpo individuale, come spazio vitale e come rete di potere, come centro di produzione e di consumo di energia, è diventato il nuovo territorio in cui le politiche violente della frontiera che testiamo da anni su “gli altri”, prendono ora la forma di una guerra contro il virus.

La nuova frontiera necropolitica si è spostata dalle coste della Grecia verso la porta del nostro domicilio privato. Lesbo comincia ora sul nostro pianerottolo. E la frontiera non smette di chiudersi su di noi, ci spinge sempre più vicini al nostro corpo. Calais ci esplode ora in faccia. La nuova frontiera è la mascherina. L’aria che respiriamo deve essere soltanto nostra. La nuova frontiera, è la nostra epidermide. La nuova Lampedusa, è la nostra pelle.

Le politiche della frontiera e le strette misure di segregazione e di immobilizzazione che abbiamo applicato in questi ultimi anni ai migranti e ai rifugiati – considerandoli virali per la comunità – sono ora riprodotte all’interno del territorio nazionale, calibrate sulla popolazione totale, re-inscritte sui corpi individuali. Per anni, abbiamo collocato i migranti e i rifugiati nei centri di detenzione, limbi politici senza diritto e senza cittadinanza, perpetue sale di attesa. Ora, siamo noi che viviamo nei centri di detenzione delle nostre stesse case.