Politiche di morte e clinica della crisi

Ho tradotto buona parte di un recente articolo di Judith Butler sulla London Review of Books che a partire dalla lucidissima analisi della struttura maniacale di Trump traccia i lineamenti di un sintomo collettivo contemporaneo che tuttavia risuona con ciò che nella storia è stato rovinoso e che riconosciamo anche in molte forme della politica italiana. Già il titolo del suo nuovo libro in uscita in inglese nel 2020 “La forza della non violenza” ci conforta nell’idea di una clinica della crisi da contrapporre al farmaco velenoso delle politiche dell’inimicizia.

Genio o Suicida

Judith Butler

Donald Trump vorrebbe farci credere che il suo comportamento e il suo disprezzo per la legge vanno più che bene anzi sono perfetti e che la richiesta di impeachment sia  una specie di colpo di stato. E che rifarebbe tutto daccapo. (…) [Alcuni esperti]  dicono che tutto ciò rappresenta una forma di follia e si chiedono se Trump stia mettendo in atto una sorta di suicidio pubblico oppure stia dimostrando una sorta di geniale attitudine alla sopravvivenza. Mi chiedo se queste due posizioni siano in alternativa l’una con l’altra. 

Siamo entrati in una sorta di Paese delle Meraviglie psicoanalitico. Generalmente si ritiene che gli uomini politici stiano alla larga dalla prospettiva di essere svergognati per un qualche comportamento illegale. Invece Trump rivendica tutto ciò che fa senza dimostrare alcun pentimento ma attraverso l’esibizione esuberante nella sua spudoratezza. Alcuni commentatori suggeriscono che tegli stia cercando di anestetizzare il pubblico condizionandolo all’indifferenza nei confronti dei suoi comportamenti illeciti ovvero di normalizzare le sue azioni, ma ciò non ci permette di dare  una risposta all’alternativa: genialità o suicidio? Un motivo per cui la psicoanalisi non è mai stata importante quanto oggi è che siamo costretti a prendere in considerazione azioni che potrebbero essere suicide e/o strumenti di trionfale sopravvivenza. Vien da chiedersi se nell’arena politica contemporanea non siano in gioco entrambe le cose. Come si concatenano suicidio e sopravvivenza in quel campo psichico che chiamiamo Trump? Può darsi che egli ritenga che una confessione spudorata normalizzi i suoi crimini e renda possibile il suo trionfo in un mondo in cui legge e crimine sono diventati fatalmente confusi. Ma non basta. Sembra piuttosto che Trump consideri la legalità e il giuramento prestato come forme di debolezza, convinto com’è che solo coloro che eludono la legge (ignorando le richieste di rendere pubblica la propria posizione fiscale, ignorando i vincoli costituzionali sul potere esecutivo) sono abbastanza intelligenti e potenti da prevalere. Egli sfrutta certamente anche l’ammirazione entusiastica di una base elettorale che ammira quanti hanno lo stomaco di prendersi gioco della legge: questi criminali romantici sono icone per coloro che si eccitano alla fantasia di vivere al di sopra e al di fuori della legge senza inibizione o vergogna.

Quando i commentatori parlano del desiderio suicidale di Trump intuiscono qualcosa anche se forse un po’ diverso da ciò che immaginano. La pulsione di morte, per Freud, si manifesta attraverso azioni caratterizzate da ripetizione compulsiva e dalla spinta alla distruzione.  Sebbene possa essere collegata al piacere o all’eccitazione, non è governata dalla logica del desiderio. Le azioni ripetitive che non sono guidate dal desiderio possono assumere diversi aspetti specifici: accelerare il degrado dell’organismo umano nel tentativo di tornare all’indifferenziazione che precede la vita individuata; l’incubo della ripetizione di materiale traumatico senza prospettive evolutive; l’esternalizzazione della distruttività attraverso un comportamento potenzialmente mortifero. La pulsione di morte procede per vie traverse, ed è fondamentalmente opportunistica: può essere identificata solo attraverso i fenomeni emergenti che cavalca nel loro sviluppo. Può anche essere  sotteraneamente all’opera in momenti di desiderio radicale, di piacere,  e di apparente vitalismo, quanto in momenti di trionfalismo dimostrativo del proprio potere. O in stati di estrema convinzione. Solo più tardi, semmai, arriva l’improvvisa realizzazione che ciò che sembrava generare potere ed eccitazione era in realtà al servizio  di uno scopo più distruttivo.

Non è necessario ragionare sull’infanzia di Trump, o  accettare la nozione biologica di una pulsione di morte per riconoscere nel suo comportamento pubblico una spinta a farsi fuori o a far fuori quel mondo che non gli permette di fare quello che vuole. 

La spudoratezza è il vettore attraverso il quale opera la pulione di morte. Senza un sentimento di vergogna le accuse levate contro di lui non funzionan, si indeboliscono sempre più e il loro eco nella sfera pubblica si affievolisce. Allo stesso tempo diventa evidente che il rifiutoripetuto e compulsivo di Trump di cedere alla vergogna e al rifiuto dimostra come quanto questi fantasmi siano per lui pericolosi. Egli appare come qualcuno il cui obiettivo principale è dimostrare che rimane orgoglioso, trionfante e innocente a fronte di ogni accusa di incapacità, criminalità e condotta non etica; la legge non dovrà avere potere su di lui. 

Ma quella medaglia ha un’altra faccia. Il potere di Trump come trasgressore della legge si appoggia in realtà alla persistenza della legge e se egli riuscisse a distruggere ogni sentimento di legalità cancellando la distinzione tra azioni legali lecite e azioni criminali il suo potere svanirebbe. In altre parole, egli ha bisogno della legge per diventare il trasgressore monomaniacale che vuole essere. E nella misura in cui egli ha bisogno bisogno della legge la riproduce come condizione essenziale per il suo trionfalismo spudorato e spericolato. 

Eppure anche a questa svolta dialettica va aggiunto qualcosa. Fare appello alla legge e ai crimini dei suoi nemici è una delle tattiche favorite di Trump: conosce la sua efficacia. E così continua a incoraggiare i suoi sostenitori a cantare in coro ‘Imprigionatela!’ – il riferimento è a  Hillary Clinton. E lo abbiamo sentito dichiarare che Joe Bieden meriti la sedia elettrica. I centri di detenzione alla frontiera meridionale degli Stati Uniti sono un dispositivo che dà forma a una realizzazione criminale e mortifera del potere legale.  Come noto Trump aveva dichiarato che egli avrebbe potuto uccidere qualcuno nel mezzo della Fifth Avenue e vincere ugualmente le elezioni.

L’immunità dalla legge è diventata la definizione stessa di potere, E così la perdita di immunità rappresenterebbe il suo tracollo. Che la sua convinzione sia che solo coloro che riescono a sfuggire alla legge sopravvivono è dimostrato dal suo appello alla Cina di investigare i Bidens è una ripetizione retorica del crimine di cui è stato accusato per l’Ucraina. Eppure sebbene il potere apparente di Trump si appoggi alla sua volontà di agire malgrado e contro la legge, la legge, seppure ritardo, ora si sveglia soll chiedendogli di consegnare atti e registrazioni, chiedendogli di render conto delle sue responsabilità. Rifiutando di riconoscere il potere che la legge ha su di lui Trump si sta preparando il terreno per diventare egli stesso il bersaglio di quello slogan cantato da lui stesso coniato: “Imprigionatelo!”

Naturalmente, la sopravvivenza di Tramp è dipesa da un esercito di avvocati che hanno seguito le sue direttive in tribunale ma questo è solo uno dei paradossi meno vistosi del suo trafficare con la legge. Forse quello più importante è emerso più chiaramente negli ultimi giorni di fronte alla minaccia dell’impeachment.  I media ci dicono che Trump sta attivamente accumulando prove contro sé stesso rifiutando persino di consegnare ufficialmente i documenti legalmente richiesti. Sta sulla Fifth Avenue ma  le pistole sono puntate sul nemico, su sé stesso o su entrambi? Se finalmente venisse fermato e scortato dalle guardie federali della Casa Bianca dopo aver perso il mandato, oppure arrestato a Mar-a-lago o in una delle altre sue proprietà indubbiamente sputerebbe accuse e insulti mentre la nave affonda. Cercherebbe di distruggere mentre viene distrutto. Sarebbe la scena cruciale di tutta una vita, una battaglia rabbiosa per determinare chi è legittimato a emettere il giudizio finale contro chi. Il regime di Trump è destinato a finire così? Forse. La sua base elettorale è tutta presa dal dramma del sovrano spericolato,  rappresentante definitivo del potere statale che vive pericolosamente al di fuori della legge. È una fuga maniacale, un thriller mitologico in cui il sovrano che dichiara la sua “grande incomparabile saggezza” minaccia la distruzione dell’economia turca giorni prima di scatenare turchi contro i curdi. La retorica sarebbe ridicola se le conseguenze non fossero così catastrofiche.

Nel migliore dei casi, unoa brula letale viene messa in scena man mano che il sovrano amplifica i suoi poteri di distruzione alla vigilia del suo smascheramento e della sua cattura legale. Continuando a sparare dichiarazioni retoriche che confermano tutto ciò di cui i suoi investigatori hanno bisogno per portar per rimuoverlo dalla presidenza, mentre rifiuta di aderire alle procedure prescritte, egli vuol dimostrare in modo maniacale chi è al di sopra al di fuori della legge proprio mentre offre tutti gli elementi per passare in giudizio. Una fine vergognosa è ciò che egli rigetta e sollecita allo stesso tempo: essere svergognato non è ciò che egli desidera eppure si muove in modo compulsivo in quella direzione. In questo caso  la maniacalità prende la forma di un combattimento spietato, di una ricerca ossessiva dei propri nemici, di un’inflazione senza limiti della personalità, di messaggi armati sparati nel mondo con una salva di tweet giornalieri per andare avanti a tutti costi –  perché cosa accadrebbe se si fermasse? È curioso che Trump possa essere colui che ci restituisce la legge proprio perché obbligato a fare i conti con la propria caduta? Diventerà forse, anche se solo con la propria uscita di scena, colui che ripristina la legge? Il prezzo che potrebbe pagare alla fine: la prigione e una vergogna infinita. 

Ho solo offerto una specie di mia sequenza onirica. Potrebbe anche essere che vergogna e colpa abbiano colorato sottotraccia il suo sentire – chi può dirlo? La scommessa del mio sogno è che preferirebbe morire piuttosto che fermarsi a percepire la vergogna che lo attraversa e viene esternalizzata come distruzione e rabbia. Se mai in qualche momento percepisce qualcosa di vergognoso potrebbe accadere solo sulla soglia di quel brevissimo istante in cui la proietta all’esterno, la espelle nel mondo. Ma non può mai viverla come propria perché la sua struttura psichica è costruita per bloccarla: un compito smisurato. E se alla fine mai la vergogna lo raggiungesse per le regole del suo codice interno significherebbe la resa a una sottomissione suicida. Aspettatevi allora un lungo, altissimo ululato mentre lancia un’accusa estrema contro il mondo intero. Speriamo che a quel punto sia stato privato nel suo accesso al potere militare.

razzismo e inconscio

Riprendendo Foucault e Deleuze, Achille Mbembe sottolinea ripetutamente che razza e razzismo fanno parte dei processi fondamentali con cui l’inconscio rappresenta il rapporto con l’alterità.

[Per] il razzista vedere un negro, significa non vedere che non c’è, che non esiste; che non è che il punto di fissazione patologica di un’assenza di relazione.[Mbembe, 2012, p. 58 ].

La categoria psicopatologica cui fare riferimento non è evidentemente in senso clinico la fobia (che genera evitamento) ma la paranoia, là dove la proiezione sull’oggetto delle proprie pulsioni aggressive è così massiccia da generare forme di attacco preventivo.

La razza fa dunque parte di una struttura immaginaria generatrice di doppi, di simulacri, di «oggetti schizofrenici».

Perché possa operare in quanto affetto, pulsione e riflesso, la razza deve farsi immagine, forma, superficie, figura, e soprattutto struttura immaginaria (…) la sua forza proviene dalla capacità di produrre incessantemente oggetti schizofrenici, nel popolare e ripopolare il mondo di simulacri, di esseri da categorizzare e frammentare, a sostegno disperato di una struttura che vacilla [Mbembe, ivi, p. 57].

Tutto ciò rivela una forma estrema di sostegno paranoide a un’immagine ideale ad alto rischio di frattura. L’allucinazione di un mondo in bianco e nero diventa necessaria per negare il processo di elaborazione e il confronto con la vulnerabilità necessari per sostenere il cambiamento e la differenziazione. Il lavoro inconscio della razza consiste insomma nella negazione radicale di un bene comune, di una comunanza umana nella diversità, attraverso l’espulsione proiettiva della differenza dall’altra parte dello specchio.

La stessa retorica antirazzista rischia di rimuovere, edulcorare e ‘imbiancare’ questi nuclei di razzismo inconscio senza modificarne il segno. Allora in nome dei ‘buoni sentimenti’ – si finisce per riproporre la rappresentazione dei poveri africani da salvare e delle vittime da aiutare invece di decostruire il significante stesso di ‘razza’ incorporato in forme inconsapevoli, profonde, collettive, contagiose.  O magari si tenta di diventarne ‘rappresentante’ politico invece di dar loro voce.  Si rischia allora di  riprodurre le disuguaglianze che il triangolo sistemico persecutore/vittima/salvatore tende a perpetuare. 

Feticci

Marx utilizza l’espressione feticismo delle merci per rappresentare il valore ipnotico della volontà  che si cela nella moltiplicazione dei consumi volta ad accrescere potere accumulando capitale. L’etimologia di feticcio rimanda al portoghese fetiço deriva dal latino facticius, che sta per qualcosa di fabbricato, che riguarda cose che si animano, un insieme di organico e inorganico al cui interno o nella cui superficie avrebbe sede il sacro: lo spirito che imprevedibilmente. concatena cose eterogenee. Ha assunto la tonalità del sortilegio, di ciò che indovina e determina la sorte.

Osserviamo un feticcio – possiamo dire che è innanzitutto un ibrido, una ricombinazione erratica di elementi discordi e contradditori, e che allo stesso tempo è una formazione onirica confusiva quanto basta per interpellare la volontà, la predisposizione a creare a mettere ordine. Un feticcio dovrebbe allora essere un dispositivo dialettico che propizia l’attraversamento di un confine, quello tra assoggettamento e soggettivazione. 

maschera-feticcio come ibrido perturbante

Come il sogno nella sua confusività o meglio non linearità, presenta coppie di opposti che costringono il sognatore (a volte già nel sogno stesso) a una scelta, a una decisione e differenziazione, così il feticcio attiva ciò che è indicibile, incontrollabile, incontenibile e dunque la cosceinza a dare ordine e gerarchia all’alterità rappresetna anche questo potenziale. Nella misura in cui è un focus per la volontà il feticcio può dunque anche diventare un luogo dove la volontà, l’intenzione nascosta, viene usata per aumentare la propria forza cioè il dominio su umani, non umani, forme dell’alterità. E’ la famosa bambola trafitta da spilli o la statuetta piena di chiodi con cui l’intenzione amplificata chiede liberazionedagli impicci.  

Attraverso il feticcio è possibile dar forma al desiderio di controllo e di influenzamento, esso è una sorta di habitus materiale, la forma concretizzata (e concretistica) della volontà. E tuttavia viene anche immaginato come entità del tutto autonoma che condiziona e domina le volontà.

Il filosofo politico camerunense Achille Mbembe lo chiarisce molto bene quando scrive che  «Hegel definisce il feticcio come un oggetto in cui la volontà arbitraria dell’individuo sembra avere a che fare con un’entità indipendente.»

In altre parole per Hegel il soggetto africano non sarebbe che vittima inconsapevole di un sistema si suggestione e superstizione, di un ‘complesso’ diremmo oggi,  di sottomissione a ciò che pare trascenderlo e che prende forma nel feticcio. Mbembe sottolinea che l’entità feticcio non è mai indipendente ma dipende sempre da una volontà. 

«nel caso dell’Africa, l’oggetto non è altro che la volontà individuale proiettata in una forma visibile così che, in altre parole nel feticcio africano il libero arbitrio rimane padrone dell’immagine adottata.» [Mbembe 2001 p. 177]

Nella sua accezione positiva, il feticcio è dunque l’immagine del potere creativo, rappresentazione della possibilità volitiva di creare mondi e significati – di generare l’imprevisto – ma anche di difenderli dall’interferenza del potere altrui– in ogni caso deposito di un potenziale narrativo in cui prende forma la volontà e il libero arbitrio: “voglio dunque posso”.

Per Mbembe, il feticcio sarebbe allora il luogo dove si manifesta materialmente la tensione tra subordinazione e autonomia.  Può dunque essere pensato anche come un oggetto in cui la volontà umana (e la sua intenzione per lo più invisibile) viene visualizzata/proiettata in forma materiale, perciò può essere anche il luogo in cui si esercita la violenza simbolica e la volontà di potenza. 

E’ allora davvero prezioso seguire Mbembe per rifiutare il ghetto in cui una certa etnografia metteva i topoi africani confindando il potenziale di quei concetti alle culture “tradizionali” . Si tratta invece – come incosapevolmente aveva fatto Marx di ampliare l’interpretazione a includere le pratiche discorsive e i dispositivi “invisibili” dell’Occidente.

Per esempio molte forme algoritmiche di governance presentate come dispositivo materiale di operatività sono feticci. Che occultano il loro bias Lo stesso dispositivo social che appare come luogo di conenssione se visto rispetto alle forme di gestione dell’inconscio digitale da parte di Big Data appare un feticcio assai potente.

Rispetto alle declinazione della volontà del potere in Africa Mbembe prende inoltre in considerazione la questione del debito socio-culturale nei termini di un’eredità a un tempo individuale e collettiva:

 «Il principio secondo cui ogni individuo nutriva un debito nei confronti dell’eredità collettiva era non solo economico ma abbracciava la conoscenza, la tecnica, in breve l’infrastruttura materiale e identitaria senza la quale nessun individuo poteva intraprendere qualcosa. Dal contributo che ogni individuo offriva a quell’eredità dipendeva l’integrità morale della società nel suo insieme, la sua forza condivisa. Il debito sociale precedeva, per così dire, l’esistenza individuale. Tra lo stato e l’individuo c’erano la famiglia, il lignaggio, la parentela e probabilmente la fratellanza religiosa.» [Mbembe, 2001, p. 47].

In un ambiente in cui le forme dell’esistere si costituivano sempre a partire dall’incertezza del rapporto con la contingenza naturale, l’ordine sociale poteva essere letto come principio di gerarchizzazione a tutela dei vulnerabili da un lato e di efficacia d’azione per i detentori della conoscenza dall’altro.

Non molto diversamente, l’occidentale “investe” di energia psichica, di desiderio, un quadro, un mobile, una collana, una casa, una persona pensando di compiere un’operazione estetica, o perché l’oggetto è deposito di ricordi o di potenzialità, luogo di sicurezza immaginaria, esorcismo di pulsioni distruttive o emblema della propria ricchezza. Il feticcio, come la maschera, rivela la sua natura di doppio: un doppio che esprime il divenir-forma della forza e il divenir forza della forma, [Mbembe, 2012, p. 82]. Un gioco di metamorfosi in cui, nell’intreccio di essere e apparire, vedere significa non essere visto e ciò che si mostra è anche ciò che si nasconde. Questa astuzia primordiale della forza si mantiene in un rapporto di ambivalenza radicale rispetto alle derive della pulsionalità e in particolare della pulsione di morte. Una matrice sadica segna anche il passaggio dal discorso coloniale alle forme di dominio post-coloniale.

«Il discorso coloniale, prodotto aberrante della follia che minaccia ogni dominazione, è affossato nella spessa argilla del disprezzo, della condiscendenza e dell’odio. Nel frattempo il colonizzatore si ingozza, si arrampica sull’albero del linguaggio, si dedica a orge di piacere, scoreggia e poi crolla stordito dai fumi dell’alcool. Il colonizzatore, pizzica le parole, le graffia, le dilata, le sbatte e poi sbotta con violenza. Quella ghigliottina che è diventato il linguaggio può essere utilizzato in un esercizio di violenza chiuso e vuoto, segnato da crudeltà e vertigine, tanto più selvaggio in quanto svolto dietro persiane chiuse. Può in un accesso giubilatorio, giungere alla dissezione, alla mutilazione e alla decapitazione. Solo così il colonizzatore può negare, alla fine del linguaggio, l’esistenza del colonizzato e la sua soggettività» [Mbembe, 2001, p. 181].

La storia post-coloniale è segnata dal persistere di logiche di «privatizzazione della sovranità» (intimidazioni, espropriazioni, tassazione, deregulation, corruzione, imprigionamento, morte). 

Anche nel dominio postcoloniale il diritto di godere di tutto è dominante troviamo sempre corruzione, abuso di potere, rapina. La ridondanza grottesca dei significanti messi in scena rimandano a una fusione cannibalesca della dimensione orale e della pulsione di morte che trova il suo feticcio principe nel corpo del despota come rappresentante divorante dell’arbitrarietà. Logiche di organizzazione del potere che strutturano enclavi di sfruttamento delle risorse attraverso reti informali e internazionali che legano tra di loro interessi economici e finanziari, multinazionali, potentati locali, organizzazioni paramilitari e mercenarie. I pensatori post-coloniali rifiutano dunque di considerare i colonizzati come semplici “vittime” e reclamano un’assunzione di responsabilità da parte del colonizzato per la sua ambivalenza nei confronti del sortilegio capitalista.

Mbembe indica che l’uscita dal sortilegio implica una presa di coscienza e un confronto con la distruttività in tutte le forme assunte nella storia e incorporate nella psiche:  «Anche per il colonizzato l’individuazione passa per il confronto con l’alterità pulsionale distruttiva. Durante la tratta degli schiavi, il consumo di merci europee a spese delle proprie genti da parte degli schiavisti africani divenne il modo con cui costoro sublimarono la pulsione di morte connaturata a ogni forma di potere .» [Mbembe, 2012, p. 172].

Il colonizzato stesso venne dunque sedotto e catturato dalla logica in nuce della moltiplicazione delle merci. Mbembe lo chiama ‘il piccolo segreto della colonia’. Ogni cosa divenne segno di un invisibile e potentissimo feticcio, quello della moltiplicazione: «i tessuti e il rum, le perline e i fucili, ma anche le strade, i monumenti e gli ospedali.»

inaugurazione Litoranea libica

Il doppio volto del feticcio risuona con l’invito di Foucault a disamorarsi del potere perché nel suo aspetto notturno il feticcio rischia sempre di diventare un simulacro, una rappresentazione mortifera del potere.  il luogo dove l’inconscio delira dicevano Deleuze e Guattari è l’idea di razza, di appartenenza ideale e indissolubile a un gruppo umano – e lo stesso familismo su cui la psicoanalisi cha costruito tante sue categorie affonderebbe le sue radici in questa matrice. 

Un esempio di quanto questo genere di feticcio abiti poi categorie del sapere profondamente incorporate è per esempio nell’ «aspetto ‘collezione di farfalle’ dell’antropologia» [Amselle 1999]. il comparativismo che interpreta a partire da categorie già note modificando la propria conoscenza ma in modo assai tangenziale rispetto alle categorie altrui perché estrae i fenomeni dalla continuità del loro contesto ma si propone come universale e gerarchizza l’altro esprimendo dunque una volontà di dominio. Qui razziismo e questione di genere ovviamento si intesecano. 

Come esempio di feticcio vorrei citare brevemente la storia di Sarah Baartman, la Venere Ottentotta che fu esposta a Londra e Parigi come ‘curiosità vivente’…

Sara nacque verso il 1789, nelle vicinanze del fiume Gamtoos., nell’oderno Sud Africa. Rimase orfana a causa del raid di un commando sudafricano e il nome Sara le fu dato dalla famiglia di boeri di Città del Capo presso cui finì schiava. Hendrick Cezar, convinse il fratello – che ne era proprietario – a trasferirla in Inghilterra come fenomeno da baraccone. Sappiamo che fu messa in mostra a Manchester, e probabilmente a Bath e a Limerick in Irlanda. Un testimone dell’epoca, Charles Mathhews,  descrive Baartman accanto ad altre «curiosità viventi» come “il Ragazzo Pezzato”, “il Nano Elegante”; “lo Scheletro Vivente”, il Gigante Daniel Lambert, che a trentasei anni pesava 317 chili e Miss Crackham, una giovinetta che non giungeva ai cinquanta centimetri e che veniva presentata come la Fatina Siciliana.

Matthews racconta di aver assistito a uno spettacolo in cui Baartman era circondata da molti spettatori tra cui molte donne. Una di queste la pizzicò, un’altra usò il parasole per verificare se le forme del sedere fossero «autentiche», un altro spettatore fece altrettanto col bastone da passeggio, atteggiamento con cui all’epoca i visitatori degli zoo solevano stuzzicare gli animali in mostra.

La ghigliottina dello sguardo.

Con la tournée in provincia si conclusero le rappresentazioni da baraccone della Venere Ottentotta nel Regno Unito. Sara fu poi ceduta al domatore francese S. Réaux che la mise in mostra a Parigi per 18 mesi in condizioni più dure di quelle britanniche. Nella primavera del 1815, Baartman passò tre giorni al Jardin des Plantes per essere osservata dai professori del Museo di Storia Naturale. Qui posò per le immagini che comparvero nel primo volume de l’Histoire naturelle des mammifères di Frédéric Cuvier.

Sono l’unico ritratto umano nella ricca iconografia animale dell’opera. Ma Saint Hilaire e Cuvier dovettero subire un po’ di frustrazione. Ciò che era stato oggetto delle pruriginose curiosità britanniche

(le natiche enormi – steatopigia – e le labia genitali allungate – il cosiddetto tablier o grembiule ottentotto), era da tempo diventato anche l’oggetto del voyeurismo scientifico. Voyeurismo che contrasta con il pudore caratteristico delle donne khoisan di cui vi sono numerosetestimonianze. Indotta a teatralizzare l’immaginario del colono, a passeggiare sul palco incatenata, o persino a quattro zampe, Baartman si era però sempre rifiutata di posare nuda.

Anche durante l’esame al Jardin des Plantes sia Henri de Blainville che Cuvier la supplicarono di permetter loro di esaminare il suo intimo “grembiule”. Blainville le offrì del denaro ma Sara rifiutò ed ebbe sempre cura di non esporre allo sguardo i genitali. Entrambi ebbero la loro rivincita quando Sara sette mesi dopo morì. Geoffroy Saint-Hilaire fece appello alle autorità in nome del Musée d’Histoire Naturelle perché il corpo fosse donato alla ricerca scientifica in quanto insolito esemplare di grande interesse scientifico.La domanda venne approvata e la spoglia trasferita al Museo dove Cuvier condusse l’autopsia e pubblicò una trionfante e dettagliata monografia sull’anatomia del corpo di Sara. L’ambivalenza di Cuvier nella sua monografia è degna di nota. Da un lato egli riferisce degli incontri al Jardin des Plantes con la donna (cui non viene mai riconosciuto un nome) e ne sottolinea la vivacità, la memoria e il buon dominio dell’olandese, i rudimenti di inglese e francese, quasi ne riconoscesse, suo malgrado, l’umanità. Quando però passa alla fisiognomica Cuvier stenta a nascondere il suo disgusto: mascella sporgente, labbra enormi, mento piccolo, guance grandi, occhi a mandorla, naso mongolo. La fisiognomica del diciannovesimo secolo era stata ridotta a presunta e arrogante dimostrazione dell’inferiorità razziale o caratteriale dei colonizzati. Ancora alla fine degli anni Novanta del secolo scorso quando Nelson Mandela aveva sollecitato Mitterand a intervenire affinché Sara fosse restituita alla terra e al Sud Africa, Philippe Mennecier, assistente curatore al Musée de l’Homme si oppose dicendo che «non possiamo mai sapere cosa la scienza ci potrà rivelare in futuro. Se [Sara] verrà sepolta, questa possibilità sarà persa… essa rimane per noi un importante tesoro». Così Sara, non più esposta allo sguardo pubblico, restava oggettivata da quello scientifico [Qureshi 2004, p. 246].

Va infine ricordato che scheletro e calchi di Sara vennero esposti nelle sale del Museo di Storia Naturale con altri due scheletri umani fino al 1937 quando vennero donati al Musée de l’Homme in occasione della sua apertura. Lo straordinario “reperto” dello scheletro e del calco del corpo, esibiti in parallelo per evidenziare la differenza della steatopigia, accolsero il visitatore nella teca numero 33 del Museo fino alla fine degli anni Settanta del secolo scorso.

Sadiah Qureshi, autrice di un magistrale lavoro pubblicato in History of Science giustamente commenta:

«I musei necessariamente divorziano gli oggetti dal loro contesto originale; così facendo attribuiscono loro un significato che in caso contrario gli stessi oggetti non otterrebbero facilmente. L’oggetto implicitamente occupa una posizione privilegiata nello spazio di surrogata neutralitàgarantita dall’esposizione museale» [Qureshi, ivi, p. 146 corsivo mio ].

Questo spazio di ‘surrogata neutralità’ (potremmo –  perché no – chiamarla fake news) non risuona forse con l’idea di feticcio dalla prospettiva qui proposta?

Da un lato questa neutralità vorrebbe annuniciare  al visitatore che è libero di fruire da sé di nuove conoscenze ma allo stesso tempo costruisce l’oggetto sezionato come un artefatto investito di una intenzione e di una pretesa di potenza invisibile, in questo caso quella della ’“neutralità” scientifica. Che innquesto caso è tutto fuorchè sceintifica perché riducendo l’umano al biologico ne rimuove la biografia.

Da questo punto di vista, Sara viene trattata da bambola iconizzata dell’alterità, trafitta dagli spilli della volontà di potenza analitica. Nella teca 33 del museo etnografico più famoso del mondo Baartman non fece che ribadire, “oggettivamente”, “neutralmente”, “scientificamente”, la peculiarità dell’anatomia Khoikhoi, la steatopigia, il grande culo che aveva incuriosito Londra e Parigi.

Di Sara non restano lettere, o testimonianze. È sin troppo facile farne un simbolo. Già in vita la sua politicizzazione ai fini della causa abolizionista rivelò aspetti problematici. Anche oggi si rischia di ridurre Sara Baartman a icona astratta dell’africanità lasciando in ombra la singolarità della sua esperienza.

Una pratica terapeutica del razzismo dovrà affrontare in maniera inedita il tema del doppio, del feticcio e della maschera applicandone le categorie complesse a tutti i dispositivi culturali che rivelano (e velano) il gioco complesso del libero arbitrio nei conflitti generativi. Ma sopratutto a tutti i dispositivi – occidentali e non – in cui la volontà di potenza associata alla pulsione di morte invece prevale nel tentativo di bloccare ogni dialettica. La cosa degna di nota è che anche le icone di liberazione possono dovevate feticci qualora vengano rianimate – a mo’ di zombie immaginativi dalla pulsione di morte (penso per esempio all’uso contemporaneo di crocefissi e rosari come significante politico identitario).

Ciò che vale per la pretesa neutralità della ricerca scientifica come della governance algoritmica di processi complessi, vale ancor più per il feticcio storia. Come ha scritto un appassionato studioso di Benjamin, FabrizioDesideri, si tratta di decostruire la storia come feticcio, come apparenza reificata di immaginaria continuità: «QuantoBenjamin mira a distruggere è, infatti, proprio la possibilità di pensarela storia come un in sé, come qualcosa di assolutamente realeal di fuori della coscienza individuale e collettiva» [Desideri, 2010,p. 187]. In questo senso la rivoluzione copernicana proposta daBenjamin è quella di assumere il “risveglio” della coscienza come luogo in cui gli eventi della storia vengono accolti e trasformati.

Nkisi nkondi.

È allora  partire dalla crisi radicale della trasmissione e della tradizione, che dobbiamo immaginare un passaggio verso una rinnovata pratica immaginativa (etica, estetica e politica) che è forse l’unico ponte possibile per pensare sia i “feticci” tradizionali (intesi come deposito attivo di un certo tipo di narrazioni in una data cultura) che il feticismo complesso e fondamentalmente passivo del tardo capitalismo. A tratti a Benjamin pare che persino il feticcio-merce possa diventare un’immagine che porta al risveglio. Nei momenti di massima “alienazione” che la moltiplicazione dei beni genera – e oggi nella consapevolezza che siamo invasi dai miserabili resti permanenti di questa moltiplicazione – possiamo tornare a un’immediatezza della contingenza, a un corto circuito vitale in cui le immagini tornano a essere pregnanti.

Ma se l’inconscio delira su appartenenze e volontà di potenza il feticcio per eccellenza è allora la razza. La specificità dell’idea di razza o di razzismo dice Mbembe è sempre di generare un doppio, un sostituto un equivalente, una maschera, un simulacro.  «Un volto umano autentico è convocato alla vista. Il lavoro del razzismo consiste nel relegarlo sullo sfondo o nel ricoprirlo di un velo.» [ivi, p. 57].  Ma se la razza è un feticcio nel senso di un’intenzione inconscia incorporata, una difesa (auto)immunitaria che legittima il sopruso, bisognerà pensare come muovere oltre l’idea di razza a partire dal confronto con il feticcio stesso che l’idea di razza impone.