Un primo ringraziamento con le poche foto che ho raccolto che non restituiscono quanto è accaduto ma ne restituiscono uno scorcio.
Ringrazio tutti quelli che hanno reso possibile il tour di Bayo Akomolafe in Italia per la presentazione del suo libro “Queste terre selvagge oltre lo steccato” un tour che è diventato un workshop itinerante di politiche dell’altrimenti, di pedagogie sensoriali e concettuali, di nuove frequenze di soglia nelle crepe di questa crisi permanente di cui troppo spesso sembrano far parte anche le nostre supposte “soluzioni” e certezze.
A Exòrma per aver avuto il coraggio di pubblicarlo: a Claudia Mejia e Rebecca Rovoletto per l’accoglienza veneta,
a Gianluca Solla e Rosanna Cima per aver offerto generosamente ospitalità e supporto costante a Suranga e Judith Katugampala per aver colto l’opportunità di immaginare il possibile coinvolgendo martedì 16 il Laboratorio autogestito Paratodos di Verona. Grazie a Lahcen, a tutto il collettivo e al laboratorio di ricerca partecipata Saperi Situati dell’Uni di Verona. A Wissal Houbabi per la performance poetica oltre la monolingua. A Rosie Heinrich per lo scambio generativo e il sostegno nella stanchezza.
Bisogna aggiungere che Suranga aveva allertato Andrea Perini che ha immediatamente colto la visione per Terzo Paesaggio e MadreProject e invitando Bayo a Milano non solo a ragionare mercoledì 17 di ecosofie ed ecologia profonda (in un progetto che coinvolge anche Tim Ingold e Timothy Morton) ma a proporre un workshop multisensoriale di Bayo al Padiglione Chiaravalle.
Il sostegno di Terzo Paesaggio ha reso il viaggio possibile e questo dice molto. Grazie anche al Centro Internazionale di Quartiere che ha ospitato la serata Grazie a Ronke Oluwadare a sostegno in tutti gli eventi milanesi e al collettivo genealogie del Fuuro che è intevenuto sintonizzandosi con grande sensibilità. E a Ludovica Amat così attenta nel coordinarsi e seguire il lavoro prezioso con la stampa di Maia Terrinoni. A Telmo Pievani per il bellissimo articolo su La Lettura, a Francesca Giommi per l’intervista sul Manifesto e a Eugenio Giannetta per quello sull’Avvenire.
Giovedì 18 Bayo ha parlato all’Uni di Torino in un incontro con Diego di Masi che lo ha ospitato insieme a Carmen Concilio e Roberto Beneduce in un emozionante dialogo a più voci. Con un nutrito drappello di Clinica della crisi presente.
Il pomeriggio al Salone del Libro la lettura di brani del libro da parte di Gabriele Vacis e i commenti di Akomolafe hanno resistito con flemma alla cacofonia sonora che ci circondava: E poi l’intervista di Loredana Lipperini a Fahrenheit. Grazie a Maria Nadotti per l’intervista a Bayo e la sensibilità intuitiva che ne ha colto da subito il valore. E a Roberta Mazzanti per il sostegno anche nelle avversità.
A Mia e Buck per essersi occupati di Alethea e ancora a Rebecca Rovoletto per il supporto logistico a Torino.
Alethea con Buck
Venerdì 19 a Milano alla Fondazione Feltrinelli Susanna Mati con grande intelligenza e garbo ha risuonato con le implicazioni stilistiche e filosofiche del libro. Grazie a Giulia Frova e Emma Borsani e a Razzismo Brutta Storia per il sostegno dato sia a Verona che a Milano.
La serata conclusiva al cantiere è stata indimenticabile. Grazie a Selam, Ronke e Rahela e Decolonise the City per gli incontri preparatori e il calore con cui Bayo si è sentito accolto e ha potuto risuonare.
Grazie anche a Gaja Ikeagwana a Jerry di Matrika che ha seguito tutti gli incontri e a Francesca Cogni per la instant graphic novel della serata.
Infine grazie per il sostegno e la presenza di EJ, Alethea e Kyah Akomolafe senza i quali non avremmo Bayo Akomolafe: chi di noi ha potuto incontrarli non li dimenticherà.
come ha commentato Ludovica “Benvenuta nelle nostre vite Alethea, grazie al tuo Dada, portaci lontano, qui vicino”…
E non dimentico tutti gli altri che hanno dato un supporto essenziale nel rendere possibile la logistica complessiva del tour: Antonio, Roberta, Rebecca, Diego, Monica, Nijmi, Clotilde, Debora, Kadidia, Marina. Domenico, Rosanna, Gianluca.
E a tutti quelli che forse dimentico e a tutto quello di non visibile è accaduto e ha fatto accadere.
Presto saranno disponibili alcune delle registrazioni.
Riporto di seguito il brano che Bayo Akomolafe dedica a un racconto di Ursula K. Le Guin e che mi sembra cruciale per avvicinare il suo modo di affrontare l’intreccio tra decolonialità, disabilità e la dimensione immaginativa che vivifica i pensieri emergenti.
Freud pensava all’ombelico del sogno come all’elemento cruciale che ci separa dal portato perturbante e rimosso del suo significare. Anche nella storia di Le Guin mi sembra esista un ombelico del testo e vorrei invitarvi a cercare di capire in che modo possa risuonare con i nostri incorporati e con i modi di vedere che ci separano dal mondo perché cercando di garantire una casa ai nostri posteri – dice Bayo – “abbiamo solo accelerato e sottolineato la dissociazione tra noi stessi e il mondo”
Ma ecco il brano, tratto da Queste terre selvagge oltre lo steccato edito da Exòrma.
«Nel racconto di Ursula Le Guin “Quelli che si allontanano da Omelas”, l’autrice immagina una città idilliaca, “dalle torri luminose sul mare”, un luogo così felice da sembrare troppo bello per essere vero. È una città dalla nobile architettura, che coltiva una scienza profonda e una squisita saggezza. Una felicità davvero responsabile permea Omelas. Come mai questa gioia compiuta e integra?
La narratrice non lo dice, o non lo sa, ma chiede al lettore della storia di arrivare da solo alle proprie conclusioni. I dettagli di ciò che li rende così felici “non hanno importanza”, il narratore sa solo che sono felici – e non si tratta di una felicità insipida, vacua,“buonista”, “puritana”, derivativa, stupida o banale, ma di una reale liberazione, incarnata, intellettuale e affettiva. Sebbene la narratrice non conosca tutti i dettagli che contribuiscono alla felicità di questa città, è tuttavia abbastanza certa che essa sia resa possibile dall’assoluta miseria di un bambino piccolo collocato in un seminterrato sporco, insalubre e privo di finestre:
In un seminterrato sotto uno dei bei palazzi pubblici di Omelas, o forse nella cantina di una delle sue spaziose case private, c’è una stanza. Ha una porta chiusa a chiave e nessuna finestra. Un po’ di luce filtra polverosamente tra le fessure dei tavolati, da una finestrella coperta da ragnatele in qualche altra parte nella cantina. In un angolo della stanzetta, vicino a un secchio arrugginito, ci sono un paio di spazzoloni con la testa rigida, raggrumata e maleodorante. Il pavimento è sporco, un po’ umido al tatto, come di solito la sporcizia delle cantine. La stanzaè. lunga circa tre passi e larga due: un semplice ripostiglio per le scope o un deposito di attrezzi in disuso. Nella stanza è seduto un bambino. Potrebbe essere un bambino o una bambina. Sembra avere circa sei anni, ma in realtà ne ha quasi dieci.
Per raccontarti per bene questa storia, tesoro, ho citato a lungo l’autrice, perché lo/la descrive in modo così suggestivo
In Omelas questo bambino/a non vede mai la luce del giorno, l’amore, l’alba, non sente mai il vento che gli soffia sul volto. È “così magro che le gambe non hanno polpacci; ha il ventre gonfio; vive con una mezza ciotola di farina di mais e grasso al giorno. È nudo. Natiche e cosce sono una
massa di piaghe incancrenite poiché siede continuamente sui suoi stessi escrementi”. Non finge di essere miserabile; è davvero miserabile, e la narratrice si preoccupa di dissuadere il lettore dal pensare che questo bambino sia proto-umano o una specie di macchina priva di sentimenti e di desiderio:
Ha paura degli spazzoloni. Li trova orribili. Chiude gli occhi, ma sache sono ancora lì; la porta è chiusa; e nessuno verrà. La porta è sempre chiusa a chiave e non arriva mai nessuno, tranne che, a volte – il bambino non capisce nulla del tempo e dei ritmi – a volte la porta cigola terribilmente e si apre, e una o più persone appaiono. Una di loro può venirgli vicina e dargli un calcio per farlo alzare. Gli altri non si avvicinano mai, ma lo scrutano con occhi spaventati e disgustati. La ciotola del cibo e la brocca dell’acqua vengono frettolosamente riempite, la porta viene chiusa a chiave, gli occhi scompaiono. Le persone alla porta non dicono mai nulla, ma il bambino, che non ha sempre vissuto nella stanza degli attrezzi e ricorda la luce del sole e la voce della madre, a volte parla. “Farò il bravo”, dice. “Per favore, fatemi uscire. Farò il bravo!”. Non rispondonomai.
Gli abitanti di Omelas non sanno che il bambino è lì? “Lo sanno tutti, tutti gli abitanti di Omelas”. Il narratore spiega che a volte vengono a trovarlo, non per consolare o offrire una parola gentile o portare coperte, ma per guardarlo per un po’ e poi allontanarsi. Sanno che deve stare lì. “Tutti capiscono che la loro felicità, la bellezza della loro città, la tenerezza delle loro amicizie, la salute dei loro figli, la saggezza dei loro studiosi, l’abilità dei loro costruttori, persino l’abbondanza del loro raccolto e il tempo clemente dei loro cieli, dipendono interamente dall’abominevole miseria di questo bambino”. I genitori lo spiegano ai figli, ma per quanto lo facciano bene, tutti quelli che vanno a fargli visita restano sconvolti.
Alcuni capiscono, altri vogliono fare qualcosa, tranne che, nel momento in cui offrissero anche solo un sorriso, “in quel giorno e in quell’ora tutta la prosperità, la bellezza e la gioia di Omelas appassirebbero e verrebbero distrutte. Le condizioni sono queste. Barattare la bontà e la grazia di ogni vita di Omelas per quell’unico, piccolo miglioramento: buttare via la felicità di migliaia di persone per la possibilità della felicità di una sola”.
Queste sono condizioni assolute. La pregnanza, la potenza e la vitalità della cultura di Omelas – quelle mura galanti, quella conoscenza autentica di molte arti, quella entusiastica e reciproca benevolenza e quell’ospitalità condivisa – tutte queste cose derivano dalla consapevolezza che quel bambino viene tenuto così. Gli abitanti di Omelas sanno di “non essere liberi”; possono mostrare compassione ed essere gentili solo perché è lì. Alla fine, molti imparano a mollare il senso di colpa dopo aver covato a lungo la “rabbia” per le condizioni del bambino.
Possono scervellarsi per settimane o anni. Ma con il passare del tempo cominciano a rendersi conto che, anche se il bambino potesse essere liberato, non otterrebbe molto dalla sua libertà: un po’ di vago piacere da calore e cibo, senza dubbio, ma poco più.… Le loro lacrime per l’amara ingiustizia si asciugano quando cominciano a percepire la terribile giustiziadella realtà, e ad accettarla.
Il narratore trova poi incredibile il fatto che alcuni di coloro che vanno a osservare il bambino non tornino mai a casa piangendo; passano oltre i campi coltivati, oltre le nobili corti e le buone strade di Omelas, e lasciano la città per sempre. Il narratore non può dire se sappiano dove stiano andando, ma se ne vanno, si allontanano chissà dove.
In retrospettiva, la storia di Le Guin sarebbe stata un’eccellente esemplificazione dei temi che ho esplorato nella lettera precedente sai, quella che parla di una parte della vita psichica irrimediabilmente oscura e della nostra necessità di trovare un modo per farci i conti. Quell’oscurità non può essere risolta. Ma se provi una certa rabbia nel contemplare le disgrazie del bambino, e giuri di essere uno di quelli che si armeranno per fare qualcosa, sono solidale con te, cara. Mi sono sentito così leggendo la storia.
L’intuizione magistrale di Le Guin, tuttavia, consiste nel non imporre giudizi morali. Non conclude dicendo che le persone sono malvagie; non le descrive in modo poco lusinghiero.
Leggendo, non si sente una colonna sonora minacciosa e sinistra celata dietro l’apparente gioia degli abitanti della città. Ed è così: uno dei motivi che Omelas rende evidente è che nulla si manifesta “completamente”… le cose appaiono diffratte, generate da ciò che abilita e da ciò che disabilita, da ciò che viene supportato e da ciò che viene occultato, simultaneamente.
Non è possibile trovare una posizione o un atteggiamento esente da tensioni generate da mondi e possibilità dimenticate. Le nostre realtà materiali, socio-politiche, economiche ed etiche vengono forgiate in un continuo patto faustiano; persino i concetti di bene e male sono spettralmente abitati da un bambino in una stanza senza finestre, chiuso a chiave, fuori campo.
Se ci chiediamo come rispondere alla crisi, la storia di Le Guin ci propone una lezione più sottile – una lezione che parla di intrecci, diffrazioni e intra-azioni: insegna che questa particolare domanda su “come rispondere alla crisi” ha un suo modo di agire che spesso ci impedisce di vedere che “stiamo già rispondendo”. Un altro modo per dirlo potrebbe essere che stiamo facendo la domanda sbagliata quando ci chiediamo cosa fare, come tornare a casa, come lasciare un bel mondo ai nostri figli: con questo tipo di pennello si dipinge male.
Quello che qui ci fa riflettere è che l’etica non è una cosa che viene “dopo”. Non osserviamo i fatti e solo dopo decidiamo di fare qualcosa. L’etica non è esterna al materiale farsi e disfarsi del mondo, ma emerge con esso – tanto che i nostri stessi corpi sono risposte etiche del mondo alla propria complessità.
Chiedere “come rispondiamo alle crisi?” può dare l’idea che le azioni siano questioni umane e che esista un posto esterno al mondo dove contemplare il modo migliore e più appropriato per rispondere. Ma non è così. Non possiamo rispondere al mondo se siamo il mondo.»
Marx has had the great merit of emphasising the importance of the material and economic basis of human life: that is, the way wealth and inequality are framed by the modes of production. Which depend on who controls the means of production… So the dialectics of ‘class’ relations between “master/owners” and “Labourers/ Slaves” is crucial in bringing forth the consciousness of inequality. Insomuch that Historical materialism, or the ‘materialist conception of history’, placed the relations of production at the core of a potential evolutionary human process.
Today, it however possible to amplify and find new meanings in Marx’s following phrase: “the production of ideas and of representations (…) is directly intertwined with the materiality of life“. At the time this coincided with the perception that the quality of life – and of consciousness as well – depended on a different distribution of the material goods produced by human labour and its transformation of natural “resources”. It was never questioned whether matter itself might be something other than the material availability of ‘things’ and ‘objects’ . Work and its fruition were re-claimed as the “right” of thinking “subjects” towards the goal of an equalitarian improvement of life for all humans. The aspiration to a generous rebalancing in the ruins of capitalism should not be discarded.
Today, we also know that thoughts and representations are intertwined not only with a better income but with the biome, with the climate, with viruses, with a kicking back nature which is no longer perceived as the mechanical and inanimate ‘thing’ that Descartes considered to be a free gift to the supposed superior performative and cognitive status of humans.It was inconceivable that subalterns (if so defined only from material wealth) had resources, sensibilities, sensorialities, forms of solidarity and implicit rights even where the Enlightenment’s normative and universalising architecture had not reached them or where the word ‘rights’ did not even exist. From a number of different sources today emerges evidence of the systemic complexity, the interweaving, the bio-intelligence of an interdependen trelational ecosystem, right down to the innermost fibres of matter (as witnessed by the astonishing philosophical reflections of physicists dealing with the infinitesimal fractals of reality.
Today, neomaterialism can read Marx’s phrase on how feeling and thinking are intwined with life and matter but in a much wider sense, bringing attention to the materiality of life from the standpoint of a different relationship with the biological and sociological metabolism of the planet beyond our arrogant hubris of species.
This is not to deny the aspirations of equality and justice of the old materialism (beyond the illusion of an intrinsic evolutionary certainty). I remember as I revisited my teenage infatuation for Mao Tse Tung that the “Great Leap Forward” of the industrialising campaign in China had as its own mantra “War on Nature!”
Neo-materialism brings matter and things back into an animated and entgangled field that critically interrogates the mono-sensoriality and epistemologies of the West. Contemporary philosophical and ecosystemic thinkers, posthuman feminisms, attention to indigenous worlding, animistic non binary perspectives recover a different idea and practice of power in the margins. It’s the emerging contemporary challenge on how to find “home” on this planet.
Walter Benjamin had an inkling of this in this limpid passage from a 1935 letter quoted by Hannah Arendt in her collection of benjaminian ntexts ‘L’angelo della storia’ (Giuntina, 2017):
“For the rest, I do not feel any need to find after all an explanation for this condition of the world: many cultures and civilisations have already disappeared amidst bloodshed and horrors. Of course one must hope that this planet will host one day a civilisation that has abandoned blood and horrors – indeed I tend (…) to think that our planet is awaiting this. But it is terribly problematic to know whether we will be able to present it this gift on its one hundred millionth or four hundred millionth birthday. Because if not, the planet itself will bring us the Last Judgment, as punishment for only absent-mindedly wishing it well.”
Of this absentminded wishful-thinking care we will discuss (and of much else) with Bayo Akomolafe in his “These Wilds” Italian tour. In person and where possible online. Details soon…
Materialismo e neomaterialismo.
Marx ha avuto il grande merito di sottolineare l’importanza delle basi materiali ed economiche della vita degli umani: il modo cioè in cui ricchezza e la disuguaglianza vengono generati a partire dai modi di produzione. Che dipendono ovviamente da chi controlla i mezzi di produzione in una dialettica di rapporti di “classe” tra padroni e lavoratori che genera consapevolezza della disuguaglianza. Il materialismo storico, o “concezione materialista della storia”, poneva dunque al centro delle possibilità evolutive degli umani i rapporti di produzione.
Oggi però è possibile amplificare e trovare nuovi significati nella frase di Marx: “la produzione delle idee e delle rappresentazioni (…) è direttamente intrecciata con la vita materiale” All’epoca ciò coincideva con la percezione che la qualità della vita dipendesse da una diversa distribuzione dei beni risultanti dalla trasformazione delle “risorse” naturali, ma non veniva mai messo in discussione che la natura stessa non rappresentasse altro se non la possibilità che le “cose” materiali gli “oggetti” fossero a disposizione dei “soggetti“ umani se solo lavoro e fruizione si fossero intrecciate equamente per migliorare la qualità della vita di tutti gli umani. E oggi resta vivo il desiderio di generare diversi e più generosi equilibri nelle crescenti rovine del capitalismo.
Oggi sappiamo anche che i pensieri e le rappresentazioni sono intrecciati non solo con il reddito ma con il bioma, con il clima, con i virus, e che una natura che batte un colpo non è più quella “cosa” meccanica e inanimata che Cartesio riteneva donata alla supposta superiorità performativo-cognitiva dell’umano. Non era concepibile che i subalterni (se così definiti solo a partire dalla ricchezza materiale) avessero risorse, sensibilità, sensorialità, forme di esistenza solidali e impliciti diritti anche là dove l’architettura normativa e universalizzante illuminista non erarrivata o dove la parola “diritti non esisteva nemmeno. Da ogni dove arrivano oggi testimonianze della complessità sistemica, dell’intreccio, della bio-intelligenza di un’ecosistema interdipendente, relazionale fin nelle più intime fibre della materia (come testimoniano le sorprendenti riflessioni filosofiche dei fisici che occupano dei frattali infinitesimali della realtà.
Oggi il neomaterialismo rilegge diversamente la frase di Marx su come il sentire e il pensare siano intrecciati con la vita e la materia, perché riporta attenzione sulla materialità della vita a partire da una diversa relazione con il limite – con il metabolismo biologico e sociologico del pianeta al di là della nostra arrogante hubris di specie.
Non si tratta di negare le aspirazioni di uguaglianza e giustizia del vecchio materialismo (al di là di ogni illusione di un’intrinseca meccanica evolutiva). Ma ricordo rivisitando la mia fascinazione di quattordicenne per Mao che nel “grande balzo in avanti” della campagna di industrializzazione cinese lo slogan era “guerra alla natura”.
Il neomaterialismo riporta in campo la materia e le cose in un campo animato e intrecciato che interroga criticamente la mono-sensorialità e le epistemologie dell’occidente. Il pensiero filosofico ed ecosistemico contemporaneo, i femminismi postumani, l’attenzione ai saperi indigeni, il recupero post-binario dell’animismo come una diversa forma di potere dai margini rappresentano il campo emergente della sfida contemporanea su come abitare il pianeta.
Del rischio di epistemicidio legato a un’insensibilità ecologica aveva avuto sentore Walter Benjamin in questo limpido pasaggio da una lettera del 1935 citata da Hannah Arendt nella raccolta di testi “l’angelo della storia” (Giuntina, 2017):
“Per il resto non avverto tutto sommato nessun bisogno di trovare una spiegazione per questa condizione del mondo: sono già scomparse moltissime culture e civiltà tra sangue e orrori. Naturalmente bisogna augurarsi che un giorno questo pianeta ospiti una civiltà che abbia abbandonato sangue e orrori – anzi propendo (…) a pensare che il nostro pianeta stia aspettando questo. Ma è terribilmente problematico sapere se noi saremo capaci di presentargli questo regalo per il suo centomilionesimo o quattrocentomilionesimo compleanno. Perché altrimenti sarà lui a portarci il giudizio universale, come punizione per avergli fatto solo distrattamente gli auguri.”
Di questa cura distratta per il pianeta discuteremo con Bayo Akomolafe durante il suo tour italiano di presentazione di “Queste terre selvagge oltre lo steccato”. Dettagli a breve!
Da un post di Bayo sulle politiche “periferiche” (o peri-ferali) dell’altrimenti per ripensare il modo con cui consideriamo neurodiversità, identità e in fondo l’idea di razza come una dimensione stabile e non come una postura legata a dimensioni socio-materiali (che include il modo con cui la società considera e si relaziona con le “cose”).
CENTO NOMI PER L’AUTISMO
“In una recente conversazione con la favolosa autrice Katherine May nel suo podcast, How We Live Now, abbiamo ipotizzato che ci potrebbero essere centinaia di nomi diversi da “autismo”, tutti preferibili al problematico termine adottato da Eugene Bleuler.
Naturalmente, quando nel 1908 lo psichiatra svizzero Eugene Bleuler, noto per aver coniato un numero significativo di termini alle nostre moderne narrazioni sulle malattie mentali, diede il nome di “autismo” a una curiosa condizione prevalentemente caratterizzata da un ritiro in se stessi, non poteva prevedere che quel nome sarebbe avrebbe attecchito a tal punto.
Bleuler scrisse in “Dementia Praecox” di una condizione schizofrenica definita da un “distacco dalla realtà” e da una “predominanza della vita interiore”. Il nome “autismo”, da “autos”, cioè sé, concretizzava lo sguardo di Bleuler su questa condizione: la “persona” autistica sarebbe stata incapace di connettersi con il mondo e avrebbe dimostrato un’incapacità a diventare un vero e proprio sé. Il soggetto autistico veniva considerato un automa insensibile e senz’anima, caratterizzato da una forma di auto-riferimento scollegato dalla realtà.
Oggi, le immagini popolari dell’autismo promuovono la figura di un legnoso automa, insensibile e intrappolato nella sua fredda bolla. May, che si considera autistica, ricorda di aver sentito il mondo intensamente da bambina, chiedendosi perché tutti gli altri le sembrassero morti.
Mio figlio, Kyah, non si sente affatto “distaccato” dalla realtà; anzi, in confronto a lui, sembrerebbe che lo siano tutti gli altri. Kyah conosce intensità affettive esotiche e troppo sfumate perché la mia postura neurotipica possa rilevarle. Kyah sente… e sente intensamente. Per Eugene Bleuler, l’ ”anima” andava cercata dentro il corpo. Per Kyah e Katherine, l’ “anima” è ovunque, è una forza desiderante preindividuale che rimodella, convoca, si muove e si intreccia attraverso confini porosi, creando sulla sua scia la realtà. Forse è per questo che Kyah manifesta una visualità queer, preferisce guardare lateralmente dall’angolo degli occhi, in modalità peri-ferica, piuttosto che nella comoda frontalità della “vista bianca”.
Così, quando Katherine e io abbiamo iniziato a pensare a termini alternativi e depatologizzanti per rinominare l’autismo, abbiamo giocato con nomi come “micelismo” e “rizomismo”, tentativi un po’ impoacciati di collegare alle menti umane la vita delle piante, le iniziative dei funghi e le attività ecologiche. Dopo l’intervista, molti altri termini hanno bussato alla mia porta per candidarsi: c’era il politicamente potente “dis/umano”; “granchiesco” – che sarebbe piaciuto a Enyd Blyton e che celebra il modo in cui mio figlio cammina spesso “di traverso” in pubblico; i giocosi “coddiwomplism” [sbalzarellismo] e “tippie-toes” [detto di chi balla sulla punta dei piedi] , così come il termine caro a Deligny, “aracneo”.
Poi c’era il lovecraftiano “Cthulhu”, l’archetipico “Ercolismo” (dal nome di Ercole, che in alcuni ambienti incarna simbolicamente l’autismo, dato che Ercole nasce come improbabile amalgama di divino e mondano) e l’Ecatonchirismo, oltre a molti altri nomi che mi venivano proposti da quel corteo di parole che si accalcava alla porta.
Ma il mio preferito è stato il silenzio che è venuto dopo, alla fine di quella febbrile processione. Non un silenzio vuoto: un silenzio che applaudiva dolcemente, ma che pure mi ricordava che nessuno di quei nomi funzionava del tutto. Ogni nome è un rischio, un’immagine che taglia fuori qualcos’altro. Nello spazio di quel silenzio, posso riconoscere che anche la patologia ha i suoi usi e che, nel tentativo strategico di rinominare e ripensare il termine di Bleuler, rischiamo di romanticizzare l'”autismo”, di decontestualizzarlo o di inserirlo in una narrazione eroica soffocante e a sua volta violentemente normativa.
Forse cento nomi non sono sufficienti. Forse un nome solo basta e avanza. Ma dobbiamo continuare a navigare in queste tensioni senza sperare in approdi definitivi Resto vulnerabilmente convinto che “qui” stia accadendo qualcos’altro, e che questo Dio sconosciuto che immortaliamo con il nome di “autismo” segnali un punto critico, un’oscillazione ad alta densità nella città che si condensa in quel luogo sottile dove qualcosa di eccezionale preme sulla membrana che lo separa dal familiare. Credo che qui ci sia una politica, una pedagogia, una prassi che non può essere ricondotta a termini come riabilitazione, patologia e spicciola concretezza – così come le sostanze psichedeliche che introducono individui pixelati nei loro più vasti corpi, nella loro anima diasporica, non desiderano essere strumentalizzate sul piano strettamente medico o ricondotte alla grammatica del trauma.
In ogni caso, sto scrivendo la storia di un giardiniere che si arrabbia nel tentativo di dare un nome a una pianta che non rientra nel suo sistema classificatorio. L’ho intitolato “Il manicomio dei sani di mente”.
Bayo Akomolafe
[da un post su fb]
***
L’identità Nera non è una strategia di emancipazione. Semmai è stata una utile strategia di compromesso. Ci riuniamo attorno a tracce melaniniche ed esperienze eterogenee per tessere una narrazione unificata e prescrittiva che imponga le nostre rivendicazioni allo Stato, e poi speriamo in riforme abbastanza generose da includerci in quelle libertà che lo Stato stesso sponsorizza. Il problema è che – ancora una volta – le libertà che cerchiamo sembrano ironiche ricapitolazioni della nostra sottomissione. Avremmo bisogno di un’altra nozione di nerezza, una nozione non identitaria che includa campi più ampi, che colga i modi ecologicamente vibranti in cui i corpi sono mediati e modulati e orientati e attivati al di là dell’identità.
Questa linea di fuga è un diventare neri. Non un diventare “Neri” [la maiuscola come rivendicazione identitaria], ma un diventare “neri”. Un diventare-mostri. La licenza di potersi smarrire, di deviare dalla rotta. Di diventare impercettibili. Qualcosa che va oltre la necessità di costruire nuove istituzioni, di ottenere vittorie legislative, di ricevere risarcimenti o ottenere maggiore rappresentanza e visibilità. Il diventare nero di cui parlo è una sperimentazione di nuove affinità sensoriali, di nuove soggettività, di nuove intelligenze. È una soglia verso nuove posture a cui alcuni corpi, identificati come neri o meno, possono avvicinarsi a partire da specifiche condizioni sociomateriali.
La nerezza di cui parlo è una neuro-indeterminazione (che precede sia la neurodiversità che la neurotipicità). E questo diventare neri cristallizza anche una diversa relazione con la neurodiversità, invita a una politica di sperimentazione, di accompagnamento, di animalità periferica (o meglio, peri-ferale) – non di adattamento forzato. Questa nerezza non ha altro. Non è un modo di essere, un’identità, una fase, un punto stabile da raggiungere. È piuttosto la continuità delle cose che ci libera drammaticamente dal peso del piglio colonizzatore bianco e dal suo bisogno di nominare tutto. È una virtualità immanente che scardina la prigione individuale.
[Estratti dal saggio ‘Black Lives Matter, But to Whom?’ (“Le vite nere contano, ma per chi?”)].
Il contributo Yoruba a una esperienza decoloniale e postumana del Sé
Bayo Akomolafe
Wifredo Lam — Sombre Malembo, Dieu du carrefour -1943
In molte cosmologie africane, una dinamica di chiamata-e-risposta dialogica fa parte del modo in cui guardiamo il mondo. Nella musica yoruba, per esempio, è molto probabile che il cantante intoni i suoi versi all’interno di un’ecologia di molte altre voci che sostengono il suo canto, rispondono alle sue domande o enfatizzano una traccia o un testo che il cantante sta tentando di sviluppare. È qualcosa di molto diverso dal rapporto di dipendenza che una band ha con il suo cantante. L’agire musicale poggia su questa continua mediazione, particolarmente evidente nella musica juju e nell’highlife. A volte l’accompagnamento musicale sottostante passa in primo piano, in un rovesciamento della prospettiva che esprime un fluido rifiuto dei ruoli statici. Questo è il ritmo che impregna il nostro mondo.
Non è presente solo nella musica, ma anche nel modo in cui balliamo e nel modo in cui comunichiamo. (…) Mi sono spesso accorto di essere più portato e più capace di eloquenza poetica quando parlo davanti a un pubblico che può mugolare la sua approvazione, o vocalizzare la sua presenza in un qualche modo.
Quando gli Yoruba rispondono con asé [ashé]… aderiscono a questa modalità di chiamata-e-risposta ma includendo le cose stesse. Asé. solitamente parafrasato come il cristiano “Amen” o il “Così sia” dell’etimologia ebraica, è qualcosa di più di un assertivo voto di assenso. Nella tradizione Ifá è una filosofia che informa ogni cosa, che propizia il cambiamento, che motiva la terra a respirare e i cieli a vomitare pioggia.
Alcuni studiosi definiscono l’asé come “un dar forma; una legge; un comando; un’autorità; un’ingiunzione; un’imposizione; un potere; un precetto; una disciplina; un’istruzione; un canone; un vincolo; un documento; una virtù; un effetto; una conseguenza; un’imprecazione”. Imhotep scrive che asé è una parola straordinariamente complessa, una parola polisemica che “non significa nulla di particolare, eppure investe tutte le cose, esiste ovunque come garanzia di ogni attività creativa”, e suggerisce che il suo tema di fondo sia il “potere”.
In altre parole, asé è il suono dell’euforica “dimensione partecipativa” di tutte le cose. La tonalità dell’incontro. La premessa del cambiamento e la firma della speranza. È la cosmologia della via di mezzo, quella che suggerisce che il potere non sta né in questo né in quello, non si nasconde nelle forme della lingua e nemmeno in un lontano altrove. Il divino è disseminato in ogni cosa. Asé potrebbe benissimo allinearsi con la forza performativa della polvere.
Vale la pena di ricordare che asé è considerato la forza vitale custodita da Èsù, la divinità-trickster del pantheon Yoruba, che nell’abracadabra delle forzate e superficiali interpretazioni coloniali venne rapidamente equiparato a Satana, forma diabolica funzionale alla sete cristiana di dualità. Ma Èsù è qualcosa di più del diavolo e non deve essere sostituito da quel fantasma che infesta le nozioni cristiane di male incarnato, come dice bene Funso Aiyejina:
La definizione di Èsù rimasta nell’immaginario popolare euro-cristiana lo accusa di essere il diavolo/Satana. Questa definizione è stata elaborata dal vescovo Samuel Ajaiyi Crowther (1806-1891) che, nella sua pionieristica traduzione della Bibbia in yoruba, aveva scelto Èsù come equivalente yoruba del Satana cristiano. In A Dictionary of the Yoruba Language, pubblicato nel 1913 dalla Church Missionary Society Bookshop di Lagos, in Nigeria, Èsù è stato tradotto con la parola diavolo, una definizione che verrà ripetuta, anche se accanto ad altre definizioni yoruba più tradizionali, nel Dictionary of Modern Yoruba della London University del 1958.
Aiyejina prosegue elencando l’incredibile lista di successi di Èsù, il suo curriculum cosmico.
Nella filosofia yoruba, Èsù emerge come trickster divino, artista del travestimento,mistificatore, un ribelle che sfida l’ortodossia, un mutaforma e una divinità esecutrice.Èsù, il custode dell’asé divina con cui Olodumare ha creato l’universo; una forzaneutrale che gestisce l’equilibrio tra poteri soprannaturali benevoli e malevoli; ilcustode dei responsi oracolari di Orunmila. Se Èsù non aprisse i portali del passato edel futuro, Orunmila, la divinità responsabile della divinazione, resterebbe cieca. Inquanto forza neutrale, si colloca a cavallo di tutti i regni e agisce come fattoreessenziale in ogni tentativo di risolvere i conflitti tra forze contrastanti e tuttaviacontigue. Anche se a volte viene rappresentato come capriccioso, Èsù non si fatrascinare da alcuna emozione. Sostiene solo chi compie i sacrifici prescritti e dunqueagisce in conformità con le leggi morali dell’universo stabilite da Olodumare. In quantodivinità dell’orita – una parola che viene spesso tradotta con crocevia, ma che in realtà èun termine più complesso che si riferisce anche al cortile di una casa, o al portale deivari orifizi corporei – Èsù ha il compito di consegnare i sacrifici alle divinità a cui sondestinati. Gli Yoruba ritengono che, senza il suo intervento, nessun sacrificio, perquanto sontuoso, potrà essere efficace. Filosoficamente parlando, Èsù è la divinità dellascelta e del libero arbitrio. Così, se Ogun è la divinità della guerra e della creatività. E Orunmila quella della saggezza. Èsù è la divinità della chiaroveggenza, dell’immaginazione e della critica – letteraria e non. Èsù, nel ruolo di trickster che scombina i fili del ripiglino da cui tutto emerge, è la personificazionedi asé. Èsù il Messaggero Divino tra Dio e l’uomo. Èsù siede al Crocevia. Èsù l’Orisha che offre scelte e possibilità, Èsù. il guardiano, il guardiano della soglia. Èsù salvaguarda il principio del libero arbitrio. Èsù il custode di asé.
Sono particolarmente felice di sapere che Èsù siede al crocevia, e dove altro potrebbe sedersi, in realtà? Se asé si articola come risposta, nell’enigmatico mezzo della realtà, nel frattempo che connette, allora il suo custode non potrà che essere un fenomeno del crocevia. E il fatto che Èsù si trovi proprio lì, al crocevia, mi sembra evocare un giocoso compagno concettuale: la nozione di diffrazione – quel fenomeno ottico che “perturba la nozione stessa di dicho-tomia – di ciò che resterebbe scisso– grazie a quel presunto atto singolare di differenziazione assoluta, che vorrebbe fratturare questo da quello, ora da allora”, come suggerisce Karen Barad. Questo concetto di diffrazione corrisponde a una nozione decoloniale di sé e di identità che Barad riprende citando Trinh Minh-ha:
l’identità così come viene intesa da una certa ideologia del dominio è stata a lungo una nozione fondata sull’idea di un nucleo essenziale e autentico nascosto alla coscienza, che richiede l’eliminazione di tutto ciò che viene considerato estraneo o non fedele al sé cioè non-io, altro. In tale concezione l’altro, quasi inevitabilmente opposto all’io, sottomesso al dominio dell’io, è sempre condannato a restare la sua ombra, proprio mentre tenta di diventare suo pari. L’identità, così intesa, suppone che si possa tracciare una linea di demarcazione netta tra io e non-io, tra lui e lei; tra profondità e superficie, o tra identità verticali e orizzontali; tra noi qui e quegli altri laggiù.
Questo brano è tratto da Queste terre selvagge di là dallo steccato di Bayo Akomolafe, a maggio in libreria per i tipi di Exòrma