A febbraio torna Báyò !

Politiche dell’altrimenti come linee di fuga

Il nuovo tour italiano di Báyò Akómoláfé

sarà un festival para-pedagogico, una libagione nelle crepe, una pragmatica dell’inutile, una opportunità per pensare insieme politiche dell’altrimenti anche là dove ogni linea di fuga sembrerebbe preclusa… 

Un festival itinerante con 4 tappe –  1 febbraio: Black History Month a Torino, 2 febbraio: Uni Bicocca a Milano,  3 febbraio: Scuola Etno-sistemico-narrativa a Roma, 4 febbraio: Terzo Paesaggio a Milano

Ogni incontro una variazione sul tema per declinare un’ecologia delle pratiche e  per ricordare cosa possa significare “casa” fuori dall’illibertà sovrana mentre piangiamo e ridiamo con i nostri parenti umani e non umani in questa terra desolata.

La preposizione greca παρά ha molti significati: simile, oltre, al di là, contro.  Come prefisso para- è spesso usato come contrappunto al significato consolidato di una parola, di una pratica, di una disciplina. Come in paramedico (qualcosa che si aggiunge ma non sostituisce la medicina) paranormale (decisamente al di là del normale) paradossale (contrario all’opinione comune). Il para-pedagogico si riferisce ai contesti, ai paesaggi percettivi, alle dimensioni relazionali che aprono a un pensiero nel-mentre, a un pensiero in fuga, a un pensiero emergente sempre a partire da pratiche che attraversano i corpi e le menti al di là dei confini e delle categorie date.

Dettagli

1 febbraio Torino

Due eventi : Bayo inaugura  il BHM di Torino alle 16.30 al Museo Reale in piazzetta Relae 1, con una conversazione che intreccia la riflessione su quali eredità e quali appartenenze  lasceremo  a figli e nipoti con il tema della nerezza come risorsa transrazziale, riccheza eccedente le architetture della modernità coloniale.

Alle 20.30 alla libreria Trebisonda  via Sant’Anselmo 32 rprenderemo la conversazione con la presetazionedi “Queste terre selvagge oltre lo steccato”  coadiuvati dalle lettura di Vesna Scepanovic

Non sono necessarie prenotazioni

2 febbraio Milano

Ore 14 Università  Bicocca edificio U6  IV piano  stanza 4152

Per le Bell Hooks lectures del Dipartimento per le scienze umane della formazione conversaziione aperta, non è necessario iscriversi

Pensieri diasporici

La storia della schiavitú è ricca di lezioni di resistenza, creolizzazione e fuga dall’ingiustizia – dai quilombo brasiliani all’undeground railroad 

La “nerezza” (blackness) prima ancora che un paradigma identitario è sempre stata un eccesso relazionale  che la neuro-tipicità coloniale non è mai riuscita a domare. Ma che fare quando non c’è via di fuga, quando  le geopolitiche e la violenza di stati e imperi normalizano la distruzione e si rifiutano di disarmare il lutto? Come aggiornare le lezioni della “nerezza” immaginando un’ecologia di pratiche senza cedere a facili politiche identitarie né accettare l‘anestesia delle coscienze?

Come prendere posizione trovando linee di fuga da un’architettura sociale in cui le crepe diventano sempre più evidenti?

<https://www.facebook.com/events/941883860637038/>

Possibile accedere on line al link https://unimib.webex.com/wbxmjs/joinservice/sites/unimib/meeting/download/606958E16DDCD506E0531AA2FD0AFEBA

3 febbraio Roma Roma dalle 10 alle 18 via Cesare Balbo 4 a

«Il feticcio supremo della modernità è forse la nozione di individuo. Avulso da relazioni ecologiche, pixelato all’interno di uno spaziosensoriale e cognitivo funzionale ai ritmi imposti da una forma di economia divorante e cieca. Ma il feticcio non funziona più e lesoluzioni proposte continuano a far parte del problema. La salute non può fondarsi sul diniego dell’intreccio ferito con un pianetavivente, né l’idea di cura ridursi alla ricerca di rimedi palliativi per la crisi di una modernità che nessuna “soluzione finale” può“guarire” con una delirante formattazione di ciò che dev’essere normalizzato.»

È invece nelle crepe della crisi che qualcosa di diverso può emergere.

Aggiungendo il prefisso ab (che indica il muoversi “da”) Báyò Akómoláfé  propone un pensiero “in fuga” dallapsicologia adattiva verso ecologie della salute e della cura in continua tensione verso un “altrimenti” fertile e animato.

La sessione mattutina proporrà un workshop  esperienziale,  quella pomeridiana elementi di riflessione e confronto.

E’ necessario iscriversi scrivendo  a  info@etnopsi.it (Tel.) +39 3317149736 

Il seminario ha un costo di 80€ (50€ per ex alliev* e partecipanti al gruppo   “Clinica della    crisi”).

Alcune borse di studio sono disponibili per facilitare l’accesso a persone fortemente motivate ma impossibilitatea seguire la giornata seminariale per difficoltà economiche.

I

Infine 4 febbraio Milano, Terzo Paesaggio, Padiglione Chiaravale, via San Bernardo 17

dalle 11 alle 17 


 

Per un’ecologia delle pratiche

(piccolo festival para-pedagogico) 

Una intera giornata di piccole sperimentazioni e conversazioni per imparare e disimparare insieme. Terzo Paesaggio e Clinica della Crisi sono felici di ospitare nuovamente Báyò Akómoláfé a Chiaravalle.

E’ necessario iscriversi a questo link:

https://www.eventbrite.it/e/biglietti-per-unecologia-delle-pratiche-bayo-akomolafe-795361647097?fbclid=IwAR1N-NYQ2ABIRSaU_2P9zRFG6vTH7iZcSGhMaNiC2udiPNrSfAer8_6qDsA

A seguire alle 18 incontro ristretto per Clinica della Crisi, Vunja! e per chi ha seguito Bayo nelle varie tappe di questo e del suo tour precedente. Chi è interessato  a quest’ultimo evento mi scriva a fabrice.olivier.dubosc@gmail.com

Báyò Akómoláfé  intreccia il pensiero critico contemporaneo con le intuizioni della tradizione Yoruba. Pur avendoprivilegiato la libertà del pensiero nomade alla carriera universitaria è in dialogo continuo con gli ambiti di ricerca più creativi in molteplici contesti. Ha fondato The Emergence Network. Nel 2022, è stato  nominatoprimo Global Senior Fellow (o “provocatore residente”) dell’Othering and Belonging Institutedell’Università di Berkeley (California).  In italiano è uscito il suo “Queste terre selvagge oltre lo steccato -lettere a mia figlia per far casa sul pianeta ”  (Exòrma 2023).

Se appena riuscite, non perdetevi Bayo che è uno dei trickster più gentilmente animati e capace di spiazzare intrecciando visioni che abbia mai conosciuto. 

Un invito

“Fate spazio all’intoppo, alle crepe. Alle fratture in ciò che parrebbe famigliare.”

Questo è uno dei momenti più eccitanti dell’anno. Sto per incrociare amici, sconosciuti, persone che non conosco e che non ho mai incontrato in un rituale di ricerca volto a connettere e a inseguire qualcosa di prezioso, cose non dette e specialmente cose non dicibili… Speciale è poterlo fare insieme per qualche mese, ponendo domande che la maggior parte delle persone non si pongono, eludendo e facendo da inciampo alla logica di ciò che ci appare familiare e sconfermndo le solite modalità con cui concepiamo, esprimiamo e articoliamo la “realtà”. 

Ne ho discusso qualche tempo fa con un’amica, una cara sorella in un posto che si chiama Sandpoint nell’Idaho e si parlava di perché insegno, di perché sono così impegnato e coinvolto, specialmente in questo periodo dell’anno in cui parte il corso….con gente da ogni angolo del pianeta. E una delle cose su cui concordavamo quasi estaticamente è che il mio lavoro e il mio insegnamento – ammesso che si possa parlarne in questi termini, di un “mio” lavoro o di “miei” insegnamenti – non ha a nulla a che vedere con un desiderio di “evangelizzazione”…. Forse la cosa più orrida per me sarebbe duplicarmi –  vedere i mei pensieri o i miei concetti letteralmente “replicati” e assunti come una sorta di verità letterale…  Non si tratta di copiare una rappresentazione, di  far proliferare sé stessi o le proprie idee … in gioco, semmai, c’è un altro desiderio. 

Forse è più chiaro se vi racconto brevemente una storia, o meglio i suoi tratti essenziali, il genere di storia con cui sono cresciuto da ragazzino in Nigeria, una di quelle storie che parlano di come frequentare il perturbante… pensate a una tartaruga in una foresta e di come venga sollecitata a relazionarsi con il briccone “trickster” una creatura altrimenti ignobile e   abominevole.

Oppure di come un bambino, un orfanello, venga invitato nel corso della storia a far spazio a una vecchia e ad ascoltare le sue ingiunzioni quando la cosa più facile sarebbe scappar via. 

Sono cresciuto in culture molto prolifiche nel proporre l’idea di un’ ospitalità radicale, culture che raccomandavano una grande apertura a ciò che ci è  estraneo. Anche nella mia educazione cristiana si parlava della possibilità di intrattenere inconsapevolmente quegli angeli che potevano manifestarsi all’improvviso. 

Non si può mai sapere come ciò che è straordinario si nasconda tra le pieghe di ciò che è ordinario…e dunque l’invito di aprire la porta all’angelo era un invito ad aprire la porta a ciò che è ordinario, che ne è il contenitore… perché non si può mai sapere a priori se ciò che è ordinario non possa far da contenitore a qualcosa di divino, per così dire. 

E in un cero senso proprio quell’idea, quel topos, quella metafora guida e motiva il mio lavoro. Mi porta a chiedere quali altre cose possa fare la cultura, in quali altri modi possiamo parlare e quali altri colori non siano ancora visibili… 

Quali altre forme di percezione, quali altre sensibilità e quali forme affettive e capacità e immaginazioni e sentimenti, quali futuri tentacolari potrebbero nascondersi ed essere intessuti in ciò che è ordinario, e che sono temporalmente esclusi dai nostri modi di parlare e dai nostri difettosi abituali paradigmi abituali? 

Cos’altro può fare la cultura? O se preferite cos’altro eccede la cultura? Che cosa eccede la cultura stessa? Oper citare le parole quasi estatiche di questa sorella con cui parlavo: “Non c’è nulla di nuovo? Nulla di sorprendente? Nient’altro?” We Will Dance With Mountains è stata ed è una una vocazione a restare nella pausa, a restare con ciò che chiamerei “selah” – quello spazio in cui il testo non basta più,  dove il linguaggio non serve più allo scopo per cui vorremmo utilizzarlo, dove trovare un significato implica la capacità di smarrirsi, dove la chiarezza appanna la comprensione e dove la confusione potrebbe essere più funzionale al genere di progetti che tanno emergendo con urgenza e necessità in questi tempi piuttosto che con la vocazione di arrivare per capi sommari a una soluzione. E’ per questo che io inisto su questa strada.

Ma più che un io è un villaggio. E questo è un villaggio di bricconi trickster, di insegnanti e professori, di accademici e intellettuali, di poeti e di artisti, di nonne e bambini, di pittori e cantanti e ballerini. E tutti insieme ci muoviamo con questa musica, con questo impensato flusso di suoni, con questo controtempo che sconferma il solco della marcia imperiale della continuità…è di questo che si tratta.

Così vorrei invitarvi a unirvi a noi. Le iscrizioni sono ancora aperte e il nostro primo festival, sessione, lezione, non so bene come chiamarlo sarà il 3 settembre, ma tra pochi giorni dovremo chiudere il portale… e stendere una coperta di cura e pausa e selvatica esplorazione  dove nuove forme di logica e pensiero potrebbero radicarsi…

Se vi sembra di aver già frequentato questi territori potrebbe non essere così. Ma se vi sembra che questo potrebbe essere il momento per ribaltare i progetti politici contemporanei che paiono co-costituirsi per non giungere a nulla di nuovo, per non contemplare l’esilio, né ciò che di prezioso si nasconde in questo tempo, ciò che è in fuga, ciò che pare impossibile, e non per amore dell’impossibile ma per il desiderio di affrontare le sfide del presente, allora potreste essere al posto giusto in questa esplorazione, potreste essere la persona a cui vorremmo offrire una tazza di tè…

Questo è il semplice invito a questo corso, a questo festival,a questo quilombola, a questa spedizione,a questo rito di passaggio… per essere serviti e dislocati e aperti.

Vi do il benvenutio e vi invito a We Will Dance With Mountains. Grazie

“la critica fa il doppio gioco, da un lato ci offre le risorse per condannare un regime oppressivo, mentre simultaneamente consolida la logica che rende quel regime intelleggibile”.

Bayo Akomolafe

Grazie!


Un primo ringraziamento con le poche foto che ho raccolto che non restituiscono quanto è accaduto ma ne restituiscono uno scorcio.

Ringrazio tutti quelli che hanno reso possibile il tour di Bayo Akomolafe in Italia per la presentazione del suo libro “Queste terre selvagge oltre lo steccato” un tour che è diventato un workshop itinerante di politiche dell’altrimenti, di pedagogie sensoriali e concettuali, di nuove frequenze di soglia nelle crepe di questa crisi permanente di cui troppo spesso sembrano far parte anche le nostre supposte “soluzioni” e certezze.

A Exòrma per aver avuto il coraggio di pubblicarlo: a Claudia Mejia e Rebecca Rovoletto per l’accoglienza veneta,

a Gianluca Solla e Rosanna Cima per aver offerto generosamente ospitalità e supporto costante a Suranga e Judith Katugampala per aver colto l’opportunità di immaginare il possibile coinvolgendo martedì 16 il Laboratorio autogestito Paratodos di Verona. Grazie a Lahcen, a tutto il collettivo e al laboratorio di ricerca partecipata Saperi Situati dell’Uni di Verona. A Wissal Houbabi per la performance poetica oltre la monolingua. A Rosie Heinrich per lo scambio generativo e il sostegno nella stanchezza.

Bisogna aggiungere che Suranga aveva allertato Andrea Perini che ha immediatamente colto la visione per Terzo Paesaggio e MadreProject e invitando Bayo a Milano non solo a ragionare mercoledì 17 di ecosofie ed ecologia profonda (in un progetto che coinvolge anche Tim Ingold e Timothy Morton) ma a proporre un workshop multisensoriale di Bayo al Padiglione Chiaravalle.

Il sostegno di Terzo Paesaggio ha reso il viaggio possibile e questo dice molto. Grazie anche al Centro Internazionale di Quartiere che ha ospitato la serata Grazie a Ronke Oluwadare a sostegno in tutti gli eventi milanesi e al collettivo genealogie del Fuuro che è intevenuto sintonizzandosi con grande sensibilità. E a Ludovica Amat così attenta nel coordinarsi e seguire il lavoro prezioso con la stampa di Maia Terrinoni. A Telmo Pievani per il bellissimo articolo su La Lettura, a Francesca Giommi per l’intervista sul Manifesto e a Eugenio Giannetta per quello sull’Avvenire.

Giovedì 18 Bayo ha parlato all’Uni di Torino in un incontro con Diego di Masi che lo ha ospitato insieme a Carmen Concilio e Roberto Beneduce in un emozionante dialogo a più voci. Con un nutrito drappello di Clinica della crisi presente.

Il pomeriggio al Salone del Libro la lettura di brani del libro da parte di Gabriele Vacis e i commenti di Akomolafe hanno resistito con flemma alla cacofonia sonora che ci circondava: E poi l’intervista di Loredana Lipperini a Fahrenheit. Grazie a Maria Nadotti per l’intervista a Bayo e la sensibilità intuitiva che ne ha colto da subito il valore. E a Roberta Mazzanti per il sostegno anche nelle avversità.

A Mia e Buck per essersi occupati di Alethea e ancora a Rebecca Rovoletto per il supporto logistico a Torino.

Alethea con Buck

Venerdì 19 a Milano alla Fondazione Feltrinelli Susanna Mati con grande intelligenza e garbo ha risuonato con le implicazioni stilistiche e filosofiche del libro. Grazie a Giulia Frova e Emma Borsani e a Razzismo Brutta Storia per il sostegno dato sia a Verona che a Milano.

La serata conclusiva al cantiere è stata indimenticabile. Grazie a Selam, Ronke e Rahela e Decolonise the City per gli incontri preparatori e il calore con cui Bayo si è sentito accolto e ha potuto risuonare.

Grazie anche a Gaja Ikeagwana a Jerry di Matrika che ha seguito tutti gli incontri e a Francesca Cogni per la instant graphic novel della serata.

Infine grazie per il sostegno e la presenza di EJ, Alethea e Kyah Akomolafe senza i quali non avremmo Bayo Akomolafe: chi di noi ha potuto incontrarli non li dimenticherà.

come ha commentato Ludovica “Benvenuta nelle nostre vite Alethea, grazie al tuo Dada, portaci lontano, qui vicino”…

E non dimentico tutti gli altri che hanno dato un supporto essenziale nel rendere possibile la logistica complessiva del tour: Antonio, Roberta, Rebecca, Diego, Monica, Nijmi, Clotilde, Debora, Kadidia, Marina. Domenico, Rosanna, Gianluca.

E a tutti quelli che forse dimentico e a tutto quello di non visibile è accaduto e ha fatto accadere.

Presto saranno disponibili alcune delle registrazioni.


L’ombelico del testo

Riporto di seguito il brano che Bayo Akomolafe dedica a un racconto di Ursula K. Le Guin e che mi sembra cruciale per avvicinare il suo modo  di affrontare l’intreccio tra decolonialità, disabilità e la dimensione immaginativa che vivifica i pensieri emergenti.

Freud pensava all’ombelico del sogno come all’elemento cruciale che ci separa dal portato perturbante e rimosso del suo significare. Anche nella storia di Le Guin mi sembra esista un ombelico del testo e vorrei invitarvi a cercare di capire in che modo possa risuonare con i nostri incorporati e con i modi di vedere che ci separano dal mondo perché cercando di garantire una casa ai nostri posteri – dice Bayo – “abbiamo solo accelerato e sottolineato la dissociazione tra noi stessi e il mondo”

Ma ecco il brano, tratto da Queste terre selvagge oltre lo steccato edito da Exòrma.

«Nel racconto di Ursula Le Guin “Quelli che si allontanano da Omelas”, l’autrice immagina una città idilliaca, “dalle torri luminose sul mare”, un luogo così felice da sembrare troppo bello per essere vero. È una città dalla nobile architettura, che coltiva una scienza profonda e una squisita saggezza. Una felicità davvero responsabile permea Omelas. Come mai questa gioia compiuta e integra? 

La narratrice non lo dice, o non lo sa, ma chiede al lettore della storia di arrivare da solo alle proprie conclusioni. I dettagli di ciò che li rende così felici “non hanno importanza”, il narratore sa solo che sono felici – e non si tratta di una felicità insipida, vacua,“buonista”, “puritana”, derivativa, stupida o banale, ma di una reale liberazione, incarnata, intellettuale e affettiva. Sebbene la narratrice non conosca tutti i dettagli che contribuiscono alla felicità di questa città, è tuttavia abbastanza certa che essa sia resa possibile dall’assoluta miseria di un bambino piccolo collocato in un seminterrato sporco, insalubre e privo di finestre:

In un seminterrato sotto uno dei bei palazzi pubblici di Omelas, o forse nella cantina di una delle sue spaziose case private, c’è una stanza. Ha una porta chiusa a chiave e nessuna finestra. Un po’ di luce filtra polverosamente tra le fessure dei tavolati, da una finestrella coperta da ragnatele in qualche altra parte nella cantina. In un angolo della stanzetta, vicino a un secchio arrugginito, ci sono un paio di spazzoloni con la testa rigida, raggrumata e maleodorante. Il pavimento è sporco, un po’ umido al tatto, come di solito la sporcizia delle cantine. La stanzaè. lunga circa tre passi e larga due: un semplice ripostiglio per le scope o un deposito di attrezzi in disuso. Nella stanza è seduto un bambino. Potrebbe essere un bambino o una bambina. Sembra avere circa sei anni, ma in realtà ne ha quasi dieci.

Per raccontarti per bene questa storia, tesoro, ho citato a lungo l’autrice, perché lo/la descrive in modo così suggestivo

In Omelas questo bambino/a non vede mai la luce del giorno, l’amore, l’alba, non sente mai il vento che gli soffia sul volto. È “così magro che le gambe non hanno polpacci; ha il ventre gonfio; vive con una mezza ciotola di farina di mais e grasso al giorno. È nudo. Natiche e cosce sono una

massa di piaghe incancrenite poiché siede continuamente sui suoi stessi escrementi”. Non finge di essere miserabile; è davvero miserabile, e la narratrice si preoccupa di dissuadere il lettore dal pensare che questo bambino sia proto-umano o una specie di macchina priva di sentimenti e di desiderio:

Ha paura degli spazzoloni. Li trova orribili. Chiude gli occhi, ma sache sono ancora lì; la porta  è chiusa; e nessuno verrà. La porta è sempre chiusa a chiave e non arriva mai nessuno, tranne che, a volte – il bambino non capisce nulla del tempo e dei ritmi – a volte la porta cigola terribilmente e si apre, e una o più persone appaiono. Una di loro può venirgli vicina e dargli un calcio per farlo alzare. Gli altri non si avvicinano mai, ma lo scrutano con occhi spaventati e disgustati. La ciotola del cibo e la brocca dell’acqua vengono frettolosamente riempite, la porta viene chiusa a chiave, gli occhi scompaiono. Le persone alla porta non dicono mai nulla, ma il bambino, che non ha sempre vissuto nella stanza degli attrezzi e ricorda la luce del sole e la voce della madre, a volte parla. “Farò il bravo”, dice. “Per favore, fatemi uscire. Farò il bravo!”. Non rispondono mai.

Gli abitanti di Omelas non sanno che il bambino è lì? “Lo sanno tutti, tutti gli abitanti di Omelas”. Il narratore spiega che a volte vengono a trovarlo, non per consolare o offrire una parola gentile o portare coperte, ma per guardarlo per un po’ e poi allontanarsi. Sanno che deve stare lì. “Tutti capiscono che la loro felicità, la bellezza della loro città, la tenerezza delle loro amicizie, la salute dei loro figli, la saggezza dei loro studiosi, l’abilità dei loro costruttori, persino l’abbondanza del loro raccolto e il tempo clemente dei loro cieli, dipendono interamente dall’abominevole miseria di questo bambino”. I genitori lo spiegano ai figli, ma per quanto lo facciano bene, tutti quelli che vanno a fargli visita restano sconvolti. 

Alcuni capiscono, altri vogliono fare qualcosa, tranne che, nel momento in cui offrissero anche solo un sorriso, “in quel giorno e in quell’ora tutta la prosperità, la bellezza e la gioia di Omelas appassirebbero e verrebbero distrutte. Le condizioni sono queste. Barattare la bontà e la grazia di ogni vita di Omelas per quell’unico, piccolo miglioramento: buttare via la felicità di migliaia di persone per la possibilità della felicità di una sola”. 

Queste sono condizioni assolute. La pregnanza, la potenza e la vitalità della cultura di Omelas – quelle mura galanti, quella conoscenza autentica di molte arti, quella entusiastica e reciproca benevolenza e quell’ospitalità condivisa – tutte queste cose derivano dalla consapevolezza che quel bambino viene tenuto così. Gli abitanti di Omelas sanno di “non essere liberi”; possono mostrare compassione ed essere gentili solo perché è lì. Alla fine, molti imparano a mollare il senso di colpa dopo aver covato a lungo la “rabbia” per le condizioni del bambino.

Possono scervellarsi per settimane o anni. Ma con il passare del tempo cominciano a rendersi conto che, anche se il bambino potesse essere liberato, non otterrebbe molto dalla sua libertà: un po’ di vago piacere da calore e cibo, senza dubbio, ma poco più.… Le loro lacrime per l’amara ingiustizia si asciugano quando cominciano a percepire la terribile giustiziadella realtà, e ad accettarla.

Il narratore trova poi incredibile il fatto che alcuni di coloro che vanno a osservare il bambino non tornino mai a casa piangendo; passano oltre i campi coltivati, oltre le nobili corti e le buone strade di Omelas, e lasciano la città per sempre. Il narratore non può dire se sappiano dove stiano andando, ma se ne vanno, si allontanano chissà dove.

In retrospettiva, la storia di Le Guin sarebbe stata un’eccellente esemplificazione dei temi che ho esplorato nella lettera precedente sai, quella che parla di una parte della vita psichica irrimediabilmente oscura e della nostra necessità di trovare un modo per farci i conti. Quell’oscurità non può essere risolta. Ma se provi una certa rabbia nel contemplare le disgrazie del bambino, e giuri di essere uno di quelli che si armeranno per fare qualcosa, sono solidale con te, cara. Mi sono sentito così leggendo la storia.

L’intuizione magistrale di Le Guin, tuttavia, consiste nel non imporre giudizi morali. Non conclude dicendo che le persone sono malvagie; non le descrive in modo poco lusinghiero.

Leggendo, non si sente una colonna sonora minacciosa e sinistra celata dietro l’apparente gioia degli abitanti della città. Ed è così: uno dei motivi che Omelas rende evidente è che nulla si manifesta “completamente”… le cose appaiono diffratte, generate da ciò che abilita e da ciò che disabilita, da ciò che viene supportato e da ciò che viene occultato, simultaneamente.

Non è possibile trovare una posizione o un atteggiamento esente da tensioni generate da mondi e possibilità dimenticate. Le nostre realtà materiali, socio-politiche, economiche ed etiche vengono forgiate in un continuo patto faustiano; persino i concetti di bene e male sono spettralmente abitati da un bambino in una stanza senza finestre, chiuso a chiave, fuori campo.

Se ci chiediamo come rispondere alla crisi, la storia di Le Guin ci propone una lezione più sottile – una lezione che parla di intrecci, diffrazioni e intra-azioni: insegna che questa particolare domanda su “come rispondere alla crisi” ha un suo modo di agire che spesso ci impedisce di vedere che “stiamo già rispondendo”. Un altro modo per dirlo potrebbe essere che stiamo facendo la domanda sbagliata quando ci chiediamo cosa fare, come tornare a casa, come lasciare un bel mondo ai nostri figli: con questo tipo di pennello si dipinge male. 

Quello che qui ci fa riflettere è che l’etica non è una cosa che viene “dopo”. Non osserviamo i fatti e solo dopo decidiamo di fare qualcosa. L’etica non è esterna al materiale farsi e disfarsi del mondo, ma emerge con esso – tanto che i nostri stessi corpi sono risposte etiche del mondo alla propria complessità.

Chiedere “come rispondiamo alle crisi?” può dare l’idea che le azioni siano questioni umane e che esista un posto esterno al mondo dove contemplare il modo migliore e più appropriato per rispondere. Ma non è così. Non possiamo rispondere al mondo se siamo il mondo.»

Neomaterialism

Neomaterialism vs materialism

Neomaterialismo e materialismo storico

Materialism and neomaterialism.

 Marx has had the great merit of emphasising the importance of the material and economic basis of human life: that is, the way wealth and inequality are framed by the modes of production. Which depend on who controls the means of production… So the dialectics of ‘class’ relations between “master/owners” and “Labourers/ Slaves” is crucial in bringing forth the consciousness of inequality. Insomuch that Historical materialism, or the ‘materialist conception of history’, placed the relations of production at the core of a potential evolutionary human process.

Today, it however possible to amplify and find new meanings in Marx’s following phrase: “the production of ideas and of representations (…) is directly intertwined with the materiality of life“. At the time this coincided with the perception that the quality of life – and of consciousness as well – depended on a different distribution of the material goods produced by human labour and its transformation of natural “resources”. It was never questioned whether matter itself might be something other than the material availability of ‘things’ and ‘objects’ . Work and its fruition were re-claimed as the “right” of thinking “subjects” towards the goal of an equalitarian improvement of life for all humans. The aspiration to a generous rebalancing in the ruins of capitalism should not be discarded.

Today, we also know that thoughts and representations are intertwined not only with a better income but with the biome, with the climate, with viruses, with a kicking back nature which is no longer perceived as the mechanical and inanimate ‘thing’ that Descartes considered to be a free gift to the supposed superior performative and cognitive status of humans.It was inconceivable that subalterns (if so defined only from material wealth) had resources, sensibilities, sensorialities, forms of solidarity and implicit rights even where the Enlightenment’s normative and universalising architecture had not reached them or where the word ‘rights’ did not even exist. From a number of different sources today emerges evidence of the systemic complexity, the interweaving, the bio-intelligence of an interdependen trelational ecosystem, right down to the innermost fibres of matter (as witnessed by the astonishing philosophical reflections of physicists dealing with the infinitesimal fractals of reality.

Today, neomaterialism can read Marx’s phrase on how feeling and thinking are intwined with life and matter but in a much wider sense, bringing attention to the materiality of life from the standpoint of  a different relationship with the biological and sociological metabolism of the planet beyond our arrogant hubris of species.  

This is not to deny the aspirations of equality and justice of the old materialism (beyond the illusion of an intrinsic evolutionary certainty). I remember as I revisited my teenage infatuation for Mao Tse Tung that the  “Great Leap Forward” of the industrialising campaign in China had as its own mantra “War on Nature!”

Neo-materialism brings matter and things back into an animated and entgangled field that critically interrogates the mono-sensoriality and epistemologies of the West. Contemporary philosophical and ecosystemic thinkers, posthuman feminisms, attention to indigenous worlding, animistic non binary perspectives recover a different idea and practice of power in the margins. It’s the emerging contemporary challenge on how to find “home” on this planet.

Walter Benjamin had an inkling of this in this limpid passage from a 1935 letter quoted by Hannah Arendt in her collection of benjaminian ntexts ‘L’angelo della storia’ (Giuntina, 2017):

“For the rest, I do not feel any need to find after all an explanation for this condition of the world: many cultures and civilisations have already disappeared amidst bloodshed and horrors. Of course one must hope that this planet will host one day a civilisation that has abandoned blood and horrors – indeed I tend (…) to think that our planet is awaiting this. But it is terribly problematic to know whether we will be able to present it this gift on its one hundred millionth or four hundred millionth birthday. Because if not, the planet itself will bring us the Last Judgment, as punishment for only absent-mindedly wishing it well.” 

Of this absentminded wishful-thinking care we will discuss (and of much else) with Bayo Akomolafe in his “These Wilds” Italian tour. In person and where possible online.  Details soon…

Materialismo e neomaterialismo.

 Marx ha avuto il grande merito di sottolineare l’importanza delle basi materiali ed economiche della vita degli umani: il modo cioè in cui ricchezza e la disuguaglianza vengono generati a partire dai modi di produzione. Che dipendono ovviamente da chi controlla i mezzi di produzione in una dialettica di rapporti di “classe” tra padroni e lavoratori che genera consapevolezza della disuguaglianza. Il materialismo storico, o “concezione materialista della storia”,  poneva dunque al centro delle possibilità evolutive degli umani i rapporti di produzione.


Oggi però è possibile amplificare e trovare nuovi significati nella frase di Marx:  la produzione delle idee e delle rappresentazioni (…) è direttamente intrecciata con la vita materiale All’epoca ciò coincideva con la percezione che la qualità della vita dipendesse da una diversa distribuzione dei beni risultanti dalla trasformazione delle “risorse” naturali, ma non veniva mai messo in discussione che la natura stessa non rappresentasse altro se non la possibilità che le “cose” materiali gli “oggetti”  fossero a disposizione dei “soggetti“ umani se solo lavoro e fruizione si fossero intrecciate equamente per migliorare la qualità della vita di tutti gli umani. E oggi resta vivo il desiderio di generare diversi e più generosi equilibri nelle crescenti rovine del capitalismo.

Oggi sappiamo anche che i pensieri e le rappresentazioni sono intrecciati non solo con il reddito ma con il bioma, con il clima, con i virus, e che una natura che batte un colpo non è più quella “cosa” meccanica e inanimata che Cartesio riteneva donata alla supposta superiorità performativo-cognitiva dell’umano. Non era concepibile che i subalterni (se così definiti solo a partire dalla ricchezza materiale) avessero risorse, sensibilità, sensorialità, forme di esistenza solidali  e impliciti diritti anche là dove l’architettura normativa e universalizzante illuminista non erarrivata o dove la parola “diritti non esisteva nemmeno.  Da ogni dove arrivano oggi testimonianze della complessità sistemica, dell’intreccio, della bio-intelligenza di un’ecosistema interdipendente, relazionale fin nelle più intime fibre della materia (come testimoniano le sorprendenti riflessioni filosofiche dei fisici che occupano dei frattali infinitesimali della realtà.

Oggi il neomaterialismo rilegge diversamente la frase di Marx su come il sentire e il pensare siano intrecciati con la vita e la materia, perché riporta attenzione sulla materialità della vita a partire da una diversa relazione con il limite – con il metabolismo biologico e sociologico del pianeta al di là della nostra arrogante hubris di specie.

Non si tratta di negare le aspirazioni di uguaglianza e giustizia del vecchio materialismo (al di là di ogni illusione di un’intrinseca meccanica evolutiva). Ma ricordo rivisitando la mia fascinazione di quattordicenne per Mao che nel “grande balzo in avanti” della campagna di industrializzazione cinese lo slogan era “guerra alla natura”.

Il neomaterialismo riporta in campo la materia e le cose in un campo animato e intrecciato che interroga criticamente la mono-sensorialità e le epistemologie dell’occidente. Il pensiero filosofico ed ecosistemico contemporaneo, i femminismi postumani, l’attenzione ai saperi indigeni, il recupero post-binario dell’animismo come una diversa forma di potere dai margini rappresentano il campo emergente della sfida contemporanea su come abitare il pianeta.

Del rischio di epistemicidio legato a un’insensibilità ecologica aveva avuto sentore Walter Benjamin in questo limpido pasaggio da una lettera del 1935 citata da Hannah Arendt nella raccolta di testi “l’angelo della storia” (Giuntina, 2017):

“Per il resto non avverto tutto sommato nessun bisogno di trovare una spiegazione per questa condizione del mondo: sono già scomparse moltissime culture e civiltà tra sangue e orrori. Naturalmente bisogna augurarsi che un giorno questo pianeta ospiti una civiltà che abbia abbandonato sangue e orrori – anzi propendo (…) a pensare che il nostro pianeta stia aspettando questo. Ma è terribilmente problematico sapere se noi saremo capaci di presentargli questo regalo per il suo centomilionesimo o quattrocentomilionesimo compleanno. Perché altrimenti sarà lui a portarci il giudizio universale, come punizione per avergli fatto solo distrattamente gli auguri.” 

Di questa cura distratta per il pianeta discuteremo con Bayo Akomolafe durante il suo tour italiano di presentazione di “Queste terre selvagge oltre lo steccato”. Dettagli a breve!