Elementi di clinica della crisi (1)

Per introdurre qualche iniziale riflessione sulla Clinica della crisi nel tentativo di immaginare le forme possibili di una prospettiva decoloniale ripubblico la mia introduzione a “Lessico della crisi e del possibile” – Seguiranno la postfazione scritta da Gianluca Solla a questo stesso testo e la prefazione sempre di Gianluca al mio “Sognare la terra – il troll nell’antropocene”.

Parliamone insieme!

Muoversi verso misurando le distanze

Il fatto che l’uomo sia capace d’azione significa che da lui ci

si può attendere l’inatteso, che è in grado di compiere ciò che è

infinitamente improbabile

Hannah Arendt

Nel momento in cui le diverse reti associative e le discipline di ricerca si interrogano sulla crisi, affiora sovente la difficoltà di trovare un linguaggio comune a partire da griglie interpretative già strutturate oppure scegliendo la facile soluzione della “linea politica giusta” che finisce per escludere chi non la pensa secondo la legge implicita, il “discorso” e le “parole d’ordine” che nel gruppo si vanno affermando. 

In entrambi i casi è molto facile ricadere in quello che Freud chiamava «narcisismo delle piccole differenze», o in quella forma politica reattiva in cui il progetto viene alimentato – come accade nel caso del populismo – da una logica di risentimento a forte carattere emotivo. Logica che sfocia sovente in un discorso sul “risarcimento” che è di per sé una deformazione di ciò che è “giusto” e che è una delle principali fonti della odierna infelicità italiana. La politica, la resistenza civile, dovrebbe essere capace di tristezza quanto di gioia. Come nel titolo di un volume storico della comunità filosofica femminile Diotima che mi colpì molto: La festa è qui (1)

Per esplorare una diversa logica di “democrazia profonda”, di dibattito aperto, di intersezionalità e tolleranza delle differenze, penso alla necessità di ri-declinare “cromaticamente” nei colori delle diverse differenze/appartenenze l’affermazione di Simone Weil che chiamava “la prima radice”: «il dovere ineludibile verso l’umano» (2)

Su questa base un gruppo di studiose e studiosi, attivisti e attiviste ha aderito sin dall’ottobre 2018 alla proposta di un laboratorio di ricerca sulla clinica della crisi. Altri si sono aggiunti cammin facendo nella costruzione del Lessico. Il tentativo è quello di propiziare un confronto e un passaggio dalla critica alla clinica. Intesa ovviamente nel senso più ampio di cura del possibile. 

Una clinica della crisi deve insomma interrogarsi su cosa significhino oggi “clinica” e “critica”, passando dall’analisi disciplinare alla condivisione di pratiche e saperi nella libertà di pensare per sé, in uno spazio relazionale capace di generare nuovi progetti e iniziative, di ampliare le reti, uscendo dalla logica speculare e auto riferita del risentimento e dell’esclusione. 

Oggi, in particolare si rafforza la consapevolezza che questo «dovere verso l’umano» si sta trasformando in dovere comune verso la sopravvivenza della Terra. La consapevolezza dell’interdipendenza dei fenomeni esige una svolta radicale: – il “dovere” diventa la necessità sentita di co-abitare il mondo a partire dalla comune vulnerabilità di tutti i viventi. 

L’intreccio vitale oggi è costituito dal dialogo tra pensiero post-coloniale, femminismo, ragione eco-sistemica, filosofia, antropologia e psicoanalisi. Senza dimenticare i saperi profondi delle discipline artistiche e dell’intuito performativo che sovente testimonia con forza la resistenza dei subalterni. Intreccio più che mai necessario per esplorare la complessità della crisi. Per trovare risposte all’emergenza ambientale, alla crisi migrante, finanziaria, di relazioni tra culture e tra generi e anche tra specie, bisognerà imparare a rispettare la radicale diversità delle prospettive che pure è in gioco nelle dinamiche di interdipendenza. 

In particolare è cruciale ripensare a fondo i concetti di sovranità e potere. Distinguere la cura del possibile dalle soluzioni inquinate dall’ideologia di una forza cieca che “muoverebbe il sol e le altre stelle”. Come ha argomentato Simone Weil, la forza che prevarica è il nucleo profondo del nazifascismo e una cartina di tornasole sui diversi modi di pensare la giustizia: «Se la forza è assolutamente sovrana, la giustizia è assolutamente irreale. Ma non lo è».

Ciò impone ancora di più la necessità di uscire da quella logica oppositiva del risentimento vittimistico che ha animato tanti discorsi antagonisti. Disobbedienza civile vuol dire costituire un’alternativa forte del sentire, un altro genere di forza che riesce a consistere nel tempo – senza oscillare come un mero campo emotivo di per sé instabile. E la forma del sentire in questione è assai diversa dalla facile reattività che è moneta corrente e strumento di propaganda. 

La manipolazione delle emozioni è una pratica che i sovranisti conoscono molto bene. Il loro doppio messaggio nefasto e profondamente fascista è una proposta di adesione volontaria allo Stato di polizia – la loro è una propaganda a furor di ‘bacioni’ – veri e propri marchi di infamia per esporre alla gogna virtuale gli oppositori – (ci sarebbe da fare tutta una storia del bacio che tradisce, che indica un bersaglio, o che accomuna in un sordido segreto). Insieme ai bacioni sovente si rovescia su chi si oppone l’accusa di essere “rosiconi”, di non accettare la politica del “manganello felice”. Contro tale psicopolitica manipolatoria dobbiamo dimostrare che la più ferma delle opposizioni è radicata in un altro modo del sentire e del dire, accessibile a ognuno.

Praticare il presente ha anche questa accezione. Non essere preda del risentimento, stare con ciò che c’è. “Saper essere” insieme a “saper fare”. Tuttavia, accogliere, abitare o praticare il presente, non significa acquiescere, ma calibrare una miglior risposta, una più efficace resistenza. 

Non è una resa ma il suo contrario.

Lo dice benissimo Chandra Livia Candiani quando parla in questi termini della meditazione, pratica del presente per eccellenza, che non va confusa con il suo scorretto uso a mo’ di anestetico emotivo:

«Non voglio imparare a non arrabbiarmi, voglio sentire il fuoco, circondarlo di trasparenza che illumini quello che gli altri mi stanno facendo e quello 

che posso fare io. […] Non voglio essere buona voglio essere sveglia […]. Non voglio pacificare tutto voglio esplorare la realtà anche quando fa male» (3)

O ancora in una poesia: 

di guerrieri indifesi 

ha bisogno il mondo, 

di sacra ira 

di occhi spalancati. (4)

Una declinazione politica di questa sensibilità del resistere la trovo nella ferma dignità con cui parla la yazidi Nadia Murad, sopravvissuta alle torture dell’Isis. O nell’umanissimo abbraccio alla comunità musulmana della Prima ministra Jacinda Adern dopo la strage di Christchurch. Che poi propone una finanziaria che invece di puntare sulla crescita immagina un “bilancio del benessere” del Paese. O nelle proteste esemplari delle donne che stanno assumendo la guida dei movimenti in Amazzonia e altrove. Donne come l’ecologista indigena Bertha Cáceres, co-fondatrice del Consiglio delle organizzazioni popolari e indigene dell’Honduras che lottava per evitare la costruzione di un impianto idroelettrico sul Río Gualcarque, considerato sacro dai Lenca, a opera della compagnia honduregna Desa, della cinese Sinohydro, e di enti della finanza mondiale a conferma del fatto che l’incremento dei bisogni energetici nel mondo implica un attacco transnazionale alle popolazioni e alle terre indigene, polmone della terra e incalcolabile riserva di biodiversità. Dopo anni di minacce, Bertha Cáceres è stata assassinata nella sua casa da intrusi armati nelle prime ore del 2 marzo 2016. Le sue due figlie proseguono la lotta.

Esempi, non a caso, di donne (ce ne sarebbero molti altri) perché la forma del possibile su cui tentiamo di interrogarci è strettamente legata a un salto di qualità del movimento femminista e transfemminista sia in termini di consapevolezza che di gioioso accento sul “per”.

Questa sensibilità emergente la ritroviamo anche nelle nuove forme di protesta, la musica, le canzoni, le lenzuola sui balconi, gli scioperi globali dei ragazzini per svegliare la politica all’urgenza del far bene.

No, i nuovi movimenti non saranno mossi né dal risentimento né dalla tristezza disanimata. Uno degli assi di una vita non fascista è riassunto molto bene da Foucault nella sua Introduzione a una vita non fascista, quando dice: 

«Non immaginate che sia necessario essere tristi per essere militanti, anche se quello che si combatte è abominevole. È il legame del desiderio con la realtà (e non la sua fuga nelle forme della rappresentazione) che possiede una forza rivoluzionaria» (5)

L’idea di una clinica della crisi nasce anche dalla percezione di una crisi della clinica psicoanalitica che tuttavia appare sempre più consapevole di dover uscire dalla dimensione della sola psicologia individuale per aprirsi alla dimensione psicosociale, psicopolitica, eco-politica.

Sintomi positivi in questo senso ce ne sono, a partire dagli appelli delle principali associazioni e società psicoanalitiche italiane contro la deriva escludente e paranoica in atto nel Paese. Così come l’intreccio disciplinare tra etnopsichiatria critica, antropologia medica, psicoanalisi, filosofia, sociologia, storia, narrativa. O come l’utilizzo sempre più frequente di tecniche come la “social dreaming matrix” volta a esplorare l’inconscio politico emergente anche nei sogni e nei gruppi. Il lavoro sul Sogno può “fissare” una “particella”, descriverla come un prodotto della storia e dell’inconscio personale del sognatore oppure “risuonare” associativamente con un tutto-mondo rispettando la natura collettiva e sociale dei “vasi comunicanti” inconsci, l’interconnessione delle storie, ognuna nella sua diversa unicità. Un modo per far sognare insieme la lingua.

Si tratta insomma di abitare o praticare il presente a partire da ciò che c’è. E vi sono, semplificando, due modi opposti di abitare questo presente. Il primo è alla maniera del troll (vedi voce) il cui motto è «ti basti essere ciò che sei». 

È un modo di praticare il tempo depressivo e rivendicativo dove il gioco dell’identità diventa un «cambiare non si può anzi non si deve», un fare della tradizione o anche solo dei “costumi” e delle “abitudini” il sine qua non che non deve essere in alcun modo messo in discussione, o viceversa un «cambiare sempre e un cambiare tutto affinché nulla si modifichi», insomma, il mantra del neoliberismo: “un altro mondo è impossibile”.

L’altra modalità di vivere il tempo sarebbe di «portare il presente nel presente, il presente nel passato, il presente nel futuro» (Sant’Agostino). Gayatri Spivak, per esempio, parla del presente esteso degli aborigeni e di quello frammentato dei suoi studenti universitari senza memoria storica. Per il filosofo francese Simondon, analogamente, individuazione coincideva dinamicamente con trasformazione. Perché in ognuna delle sue fasi, l’essere dispiega la sua complessità sistemica e sempre con una riserva di divenire. E grazie a questa riserva il presente è deposito di trasformazioni e nuove pratiche e possibilità

Nel rapporto con la possibilità del cambiamento, il nodo della giustizia è centrale. Il cuore di questo rapporto è l’evoluzione del sentire comune. Ma non è Hegel che ha inventato l’idea che l’autocoscienza si produca a partire dallo scarto tra oppressori e oppressi (padroni e schiavi). Ritroviamo sovente una analoga formulazione nella forma originaria delle narrazioni religiose. Cito il Vangelo ma lo stesso concetto si trova in molte altre tradizioni: «Benedetti i perseguitati per amore della giustizia perché di loro è il Regno» (6)

Il Regno significa la possibilità di un punto di vista sovrano (quella che oggi si chiama agency, agentività, possibilità di azione efficace) a partire da uno scarto in cui non si resta impigliati.

La giustizia in questa prospettiva non si declina solo nella misura del “risarcimento” (per altro sovente auspicabile come riconoscimento del torto subito). Ma tale riconoscimento non va così lontano se non è innanzi tutto preceduto dall’auto-riconoscimento intimo (e per certi versi impersonale) di ciò che è giusto a partire dall’esperienza stessa dell’ingiustizia di ciò che non è stato riconosciuto. Questo auto-riconoscimento è la radice profonda dell’andar oltre e dell’autorizzarsi a dire i propri sì e i propri no. Cosa difficilmente possibile per chi perseguita. 

Il rapporto con ciò che manca, con il “senza” è dunque cruciale per inventare o ritrovare il “con”, il possibile. Arendt per esempio, fonda la sua etica sul coraggio di «stare senza», senza cioè quelle stampelle identitarie, dottrinali, ideologiche che riempiono l’etica stessa di a priori pensandola come reazione al male, come un essere “contro” che finisce per svuotare l’etica stessa di ogni positività, di ogni essere “per” se non nella forma della retorica ideologica. (7)

Questa prospettiva etica riapre i giochi, non resta impigliata nei traumi, non è né ideologica né retorica, né una razionalizzazione né un volontarismo.

Tuttavia per ridefinire in senso positivo il lavorio etico bisogna riconoscere che l’immaginazione è un «organo morale». Laura Boella ne riassume bene il modo quando scrive:

«Se è innegabile il legame dell’etica con la processualità che lega scienza, tecnologia, società ed economia, ciò che più conta è quanto nell’etica non è riducibile alla storia, all’economia, alla conoscenza scientifica e riguarda il desiderio di essere umani e di misurarsi con la verità, con la felicità, con l’amore, con l’amicizia, con l’inesorabile» (8)

Questa etica dell’umano ha dunque più a che fare con l’immaginazione che con la ragione:

«Non è mai la ragione legata a se stessa, ma soltanto l’immaginazione a rendere possibile il “pensare mettendosi al posto di ogni altro”, non è la ragione ma l’immaginazione a creare il legame tra gli uomini: al senso di sé della ragione che vive dell’io-penso, si contrappone il senso del mondo, che […] in quanto immaginazione […] vive degli altri» (9)

Dal punto di vista della propaganda politica volta a suscitare consenso è invece pratica nota quella di utilizzare la crisi – il “senza” – come arte di governo, sbandierando il fantasma del “senza” per sdoganare l’inautenticità del “con”. 

Il fantasma del senza (non la sua esperienza, ma la sua rappresentazione psichica) è sostanzialmente paranoico perché rimanda al trauma, al lutto non elaborabile, a una mancanza primaria senza significanti che offrano sponda alla struttura. Il fantasma del senza viene così compensato da un’altra deriva immaginaria, quella dell’identità. Lo diceva molto bene Ernesto De Martino con intuizione profonda ben prima che il mondo anonimo dei social desse una forma evidente alla pseudo socialità dell’isolamento: 

«Il singolo è il mai solo che rischia di essere assolutamente solo, il sempre comunicante che rischia di essere l’assolutamente incomunicabile» (10)

La sfida che abbiamo cercato di raccogliere con questo Lessico è quella di pensare per sé pensando insieme ad altri, in un rapporto inclusivo ma non “adesivo” delle diverse “anime” disposte a ripensare il possibile. Pensare per sé, dunque, ma anche partire da sé (nella duplice accezione del termine come ha insegnato Adriana Cavarero) (11) per sviluppare un’immaginazione etica sono compiti enormi, che rimandano indefinitamente l’idea di una sintesi, a meno che questa che non sia “disgiuntiva”, parziale, tesa più a rivelare cromatismi possibili nella differenza, e persino nel malinteso, che una visione unitaria. 

Il nostro Lessico è in questo senso l’opposto di un tentativo enciclopedico di descrizione e rappresentazione compiuta. D’altronde la crisi stessa rimandando sempre alla complessità ci costringe a fare i conti innanzi tutto con ciò che non sappiamo e non abbiamo capito. E con ciò che riteniamo essenziale. Credo che, in questo cromatismo emergente, i contributi del pensiero delle donne, del pensiero decoloniale, del pensiero queer, dell’antropologia siano cruciali. Pensieri che nelle loro diverse forme ci invitano alla prossimità nella differenza. E all’attenzione costante alla possibilità della partecipazione di ognuno al comune.

Lo ha detto magistralmente John Berger a cui questo volume è idealmente dedicato: approssimarsi vuol dire muoversi verso misurando le distanze (12)

Questo processo dell’approssimarsi (e del farsi prossimo, cercando il comune) significa anche accettare l’approssimazione come necessaria. Non si può mai dire tutto, molti lemmi mancano, ognuno scrive a partire da una prospettiva nata dalla propria esperienza e appartenenza. Chi legge incontrerà lemmi più rigorosamente disciplinari e interpretativi, altri più ibridi e altri ancora narrativi o descrittivi. A volte ciò che non è stato detto, ciò che manca, ciò che chiede più cura conta moltissimo. Come pure ciò che vien detto in modo approssimativo, parziale, tendendo verso e misurando, anche scrivendo, la distanza da un dire compiuto. Idealmente a ogni lemma avremmo voluto far seguire una pagina di commenti, “linee di fuga”, dibattito, ma per questo occorreranno altre forme, in presenza e in dialogo. 

È in questa prospettiva che invito la lettrice, il lettore e le reti a cogliere in questo Lessico un’occasione di partecipazione e costruzione del comune creando concatenazioni, connessioni, moltiplicando le prospettive e le differenze. 

1 Diotima, La festa è qui, Liguori Editore, Napoli 2012..

2 Simone Weil, La prima radice, preludio a una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano, Se, Milano 1990 (edizione originale 1943).. Affermazione da applicare oggi a tutto il “vivente” e all’ambiente che lo rende possibile.

3 Chandra Livia Candiani, Il silenzio è cosa viva. L’arte della meditazione, Einaudi, Torino 2018.. 

4 Chandra Livia Candiani, Fatti vivo, Einaudi, Torino 2017.

5 Michel Foucault, Introduzione a una vita non fascista, prefazione a Gilles Deleuze, Felix Guattari, Anti-Edipus, Capitalism and Schizophrenia, University of Minnesota Press, Minneapolis 1983.

6 Matteo 5:10,11.

7 Cfr. Hannah Arendt, Quaderni e diari 1950-1973, Neri Pozza, Vicenza 2007.

8 Laura Boella, Sentire l’altro: conoscere e praticare l’empatia, Raffaello Cortina, Milano 2006.

9 Ibid.

10 Ernesto de Martino, Scritti filosofici, a cura di Roberto Pàstina, il Mulino, Bologna 2005.

11 Adriana Cavarero, Tu che mi guardi tu che mi racconti, filosofia della narrazione, Feltrinelli, Milano 1997

12 John Berger, Qui dove ci incontriamo, Bollati Boringhieri, Torino 2015.. 

Qualche pezzo facile (?) su razzismo e colonialismo

Condivido alcuni dei miei tentativi – nei lemmari pubblicati negli scorsi anni – di rendere accessibile e “mettere in comune” pensieri complessi nati principalmente in ambito accademico decoloniale (cultural studies etc.)…

Si può fare senz’altro meglio!

Resta infatti il problema cruciale della “rappresentazione” indebita – del prendere parola per conto di altri e “rappresentarli” – (sia da punto visivo che politico), problema che Gayatri Spivak aveva messo in luce tanti anni fa nel famoso articolo “can the subaltern speak?” che era stato un primo importante contributo alla comprensione dell’importanza del valore di resistenza e conoscenza di ciò che si definisce “performativo” – anche se per Spivak l’accento sul performativo restava essenzialmente tragico (il suicidio di sua zia).

Oggi vediamo che sempre più i subalterni riescono di fatto a parlare e performare in mille modi spesso più efficaci del discorso accademico – anche se l’interfaccia tra “saperi”, media e azioni dal basso è di per sé complessa. Ma la narrativa, le performance musicali e poetiche, le assemblee dei corpi, le nuove forme di organizzazione dal basso e sopratutto l’interezionalità delle lotte a partire dalle molte forme di razionalizzazione (non solo il colore della pelle), sono un elemento sempre più decisivo nella trasformazione delle percezioni.

La questione della razializzazione del mondo (“il divenir negro del mondo” dice Mbembe) mi sembra cruciale per una visione delle alleanze possibili – ma su questo bisognerà ritornare mentre coltiviamo le nuove forme di narrazione trasformativa: podcast, radio, graphic novels, una carovana performativa BLM di “Vite razzializzate on the road” e quant’altro…

razzismo

Qualche tempo fa in Toscana ho visto due africani fatti scendere in malo modo dal treno, affidati alla polizia ferroviaria. Non avevano il biglietto. Uno di loro gridava disperato – «Ma voi non sapete come stiamo noi africani, da cosa veniamo!» Stava per perdere il lume.  

Il treno era fermo, la porta del vagone aperta. Con cortesia ho detto la mia da cittadino, incoraggiando il poliziotto, che pareva restio a trattenerli: «Li hanno fatti scendere, a che serve, lasciateli andare.» Il controllore si è infuriato, perdeva quasi lui il lume. «Lo paga lei il biglietto? Eh lo paga lei?» Domanda retorica perché ormai erano scesi. «Ma sì» – dico – «il biglietto glielo avrei pagato. Da Arezzo a Firenze non costa una cifra spropositata.» Il controllore si è infuriato ancora di più – «E il torto che lei fa a tutti gli altri passeggeri» – urlava – «glie lo chieda, glie lo chieda se son d’accordo…» si rivolgeva infuriato a tutto il vagone, che lo guardava in silenzio. Poco mancava che mi desse del fascista… 

L’immunitàrazzista è roba vecchia. Negli anni Sessanta i titoli dei giornali sottolineavano la presunta correlazione tra l’etnicità dei meridionali e un reato: «Siciliano svaligia un appartamento». È la stessa storia che si ripete, come quando agli inizi del novecento gli Italiani emigrati in America venivano indiscriminatamente additati come sporchi, ignoranti, petulanti, violenti e criminosi. Allora (ma in una certa misura ancora oggi, se pensiamo a recenti fatti di cronaca ambientati in Gran Bretagna o Germania) era soprattutto l’emigrazione italianaa suscitare reazioni xenofobe. 

A distanza di oltre un secolo la società italiana sembra restare poco consapevole o non attrezzata rispetto ai processi che si sono messi in moto con le migrazioni internazionali. Complice di tutto questo è forse una politica che ha fatto della narrazione razzista e dell’ostilità verso le minoranze etnico-religiose un proprio cavallo di battaglia e una politica, di segno evidentemente opposto, che denunciando astrattamente la xenofobia più bieca (e facendole da cassa di risonanza), raramente entra nel merito delle condizioni di disagio in cui questa si genera. 

Il report prodotto nel 2015 dal Pew Research Center e relativo al rapporto tra cittadini europei e minoranze etnico religiose in Europa ha suscitato grande scalpore, lasciando emergere dati allarmanti, che pur semplificano e generalizzano un quadro complesso. 

Le statistiche sulla discriminazione in Italia confermano una spiccata percezione di ostilità (ormai di lungo corso) rivolta verso gli zingari, accompagnata da retaggi di antisemitismo e nuove ondate di islamofobia. 

Guardando i tarocchi, la carta giusta per commentare l’avventura del migrante in questo quadro sarebbe la prima, quella senza numero, il “Matto”. È un vagabondo nomade che porta il fagotto delle sue cose col bastone in spalla. Il passato, un cane, gli corre appresso. Il cane lo insegue ma non lo trattiene. Il suo impulso vitale è un grande potenziale non ancora dispiegato che va verso il futuro. È l’aspirazione migrante che osa. Se invece osserviamo il viaggio migrante dal punto di vista della doppia assenza,il passato è un lupo che morde, l’eroismo del migrante è velleitario, i suoi sono trucchi da briccone ingenuo. Va incontro all’impotenza, alla vulnerabilità derisa, allo sguardo che disconosce, a un mondo che accoglie escludendo. C’è davvero di che dar fuori di matto. 

nijmi edres & fabrice dubosc – da Piccolo Lessico del Grande Esodo – minimum fax 2017

razza e inconscio

Riprendendo Foucault e Deleuze, il pensiero postcoloniale rileva come razza e razzismofacciano parte dei processi fondamentali con cui l’inconscio rappresenta il rapporto con l’alterità.  

            Achille Mbembe spiega che la specificità dell’idea di razza è sempre di generare un doppio, un simulacro, una maschera volta a nascondere l’umanità di un volto umano. «Per il razzista vedere un negro, significa non vedere che non c’è, che non esiste; che non è che il punto di fissazione patologica di una assenza di relazione (…) il significante razziale è tuttora, a più di un titolo, la lingua non eludibile, anche se a volte negata, del racconto di sé e del mondo, del rapporto con l’Altro, con la memoria e il potere.»  

            L’elaborazione paranoica della differenza nell’odio per l’altro cela un profondo odio di sé: il razzista si rassicura odiando, maneggiando il terrore, costituendo l’altro come diverso, cioè come doppio perturbante da cui proteggersi o disfarsi. 

            L’inconscio razziale aveva trovato una narrazione ‘scientifica’ nella primitiva ‘psicologia dei popoli’ e delle emozioni del XIX secolo che a sua volta si nutriva della logica illuminista che aveva rappresentato l’Africa come ferma in un’infanzia da cui gli altri popoli del mondo erano da tempo usciti. 

            La razza come misura della differenza, dell’immunità e della segregazione è stata la lingua privilegiata del potere sociale. E come dimostrano le pratiche del colonialismofrancese, la discriminazione e il razzismo possono essere del tutto coerenti con un’idea acriticastrumentale di universalità, razionalità, coerenza del soggetto, insomma con alcune delle grandi idee portanti dell’Illuminismo.  

            Chi è soggetto allo sguardo razzista diventa immediatamente un testimone vivente della violenza del mondo. Testimone della vulnerabilitàe pietra di scandalo. I negri, gli ebrei, gli indios, i palestinesi, gli zingari, i rifugiati e migranti di ogni paese sono testimoni paradossali di ciò che non è visibile, in particolare dei cadaveri assenti, che la mancata sepolturaconsegna a una tomba vuota.  

            Lanecrofiliaesige sempre la propria sterile ripetizione. E ci aiuta a comprendere perché le pratiche con cui il principio razziale si riproduce devono sempre attaccare il corpo rivelando in fondo un conto in sospeso con la vitain generale.  

            Per questo Mbembe sostiene ripetutamente che il modo migliore di elaborare il lutto e onorare i morti è con un sovrappiù di vita.  

fabrice dubosc – Piccolo Lessico del Grande Esodo, minimum fax 2017

resistenza culturale

L’enfasi sultraumache sovente legittima il discorso di accoglienza tende a cancellare non solo la singolarità di ogni storia ma anche la storia della resistenza culturale da parte dei subalterni. 

La nave degli schiavi e poi la schiavitù nelle piantagioni del Nuovo Mondo mettono in luce la nascita di una società solidale basata esclusivamente su una coesistenza involontaria. Paul Gilroy ha raccontato come sulle navi degli schiavi che attraversavano l’Atlantico nacque un corpus alternativo di consapevolezza, fatto di pratiche narrative e performative, una sorta di controcanto alla supposta razionalità del progetto coloniale da cui nacque la modernità.  

Nell’esperienza degli schiavi prevale la necessità di escogitare con flessibilità e improvvisazione pratiche di resistenza in una situazione tutt’altro che ideale. La ricombinazione come segno della resilienza culturale di fronte all’egemonia del padrone trova la sua incarnazione nel cantastorie creolo. 

Il cantastorie riutilizza i materiali narrativi della tradizione riadattandoli alla nuova situazione in cui si trova.Le storie che racconta, che esse abbiano o meno un “lieto fine” costituiscono una controcultura, che anche se impotente a realizzare la libertà, il Giubileo (come venne chiamato dagli schiavi in Nord America) aspira ad essa ed è determinata a raggiungerla. Malgrado le pratiche crudeli, che imponevano il lavoro e la riproduzione (secondo la modalità dell’allevamento del bestiame), malgrado l’avvilimento e la disumanizzazione (non potevano sposarsi, fare famiglia, educare i figli) gli schiavi restano pur sempre  esseri umani. continuano a creare un mondo. tessono relazioni e un universo di significazioni, inventano lingue, religioni, danze e rituali Sono privati di tutto ma non della capacità di simbolizzare.  

La decostruzione dell’etnocentrismo culturale proprio nell’esperienza della schiavitù è qualcosa di molto significativo. Il primo elemento decostruito è il fondamentalismo identitariodelle radici.La creolizzazioneè una de-creazione creativa.  

Mentre l’etnocentrismo poggia su un immaginario mito di fondazioneescludenteche fa proclamare: «il nostro mito di creazioneci legittima come unico popolo eletto», la sensibilità antillese, punta sulla co-creazione continua di un mondo non escludente. Come ha detto l’antropologo Roger Bastide grande studioso dei culti afro-brasiliani: Il sincretismo è sempre più o meno una forma di resistenza culturale 

Un altro elemento cruciale è il rapporto tra lingua e verità. Il monolinguismo sembra direttamente collegato alla produzione di conoscenza totalizzante, in una sorta di equazione inflazionata tra sé culturale e verità. La poetica della relazione non può contemplare l’intransigenza monolinguistica. 

Per Gilroy la creolizzazione è innanzitutto una sorta di primaria resistenza e liberazione della cultura, specialmente nel rapporto con la lingua che prende la forma di una sorta di forza sociale auto-generativa in condizioni avverse: mettersi al mondo malgrado tutto

Ma è anche vero che la negazione del soggetto propria del dominio coloniale non può che generare forme di resistenza ‘opaca’ al consenso forzato. Anche quando questa opacità prende le forme di un’ apparente adesione. O tenta di sfruttare la logica del sistema. Del resto la ribellione (inefficace) alla minorità,alla mancata inclusione, all’impossibilità di agire, al precariato, alla crisi dell’empowerment e dell’agencye il ricorso a uno storytelling vittimario sono sintomi sociali senza frontiere.

fabrice dubosc – Piccolo Lessico del Grande Esodo, minimum fax 2017

creolizzazione

Il concetto di creolizzazione proposto dal poeta e saggista antillese Edouard Glissant si sviluppa dalla riflessione sull’uso della lingua dei colonizzatori da parte dei popoli colonizzati, schiavi o comunque subalterni. Glissant ci racconta che sulle navi per le Antille gli schiavi venivano divisi e ognuno era affiancato a chi parlava una lingua diversa affinché non vi fosse parola condivisa, per cancellare la costruzione di una memoria comune.

            La trasmissione in questo caso non può più fondarsi sulla consegna verbale della memoria, e ciò obbliga a un lavorio continuo su ciò che può e deve essere trasmesso anche al di fuori della lingua madre. Il colonizzatore impone per esempio una lingua semplificata che lo schiavo adotta. Ma è come se lo schiavo poi dicesse: «Parlo come mi consenti ma pur aderendo a questa lingua parziale la trasformo e resisto, perché la traccia – non la memoria del trauma collettivo (che è stata cancellata) ma ciò che riesce a resistere al di là di ciò che la diaspora cancella – mi permette di creare qualcosa di nuovo, di inedito.»

            Patrick Chamoiseau,un altro autore di origine martinicana, amico e collaboratore di Glissant, nel romanzo Texaco, premio Goncourt nel 1992, dà un esempio delle strategie di resistenza e spostamento linguistico nella creolizzazione. Il genio degli schiavi  trasforma esclavagein estravaille [una parola che ricombina esclavage/schiavitù e travail/lavoro].

            «Loro dicevanol’esclavage, la schiavitù. Ma noi udivamo l’estravaille,E quando se ne resero conto e cominciarono a dire anche loro l’estravaille,per parlare come noi, avevamo già ridotto la parola a travail,semplicemente il duro lavoro  . . . ha ha ha, (…) la parola era affilata come un’arma.»

            L’idea di creolizzazione si sviluppa da questa riflessione sull’uso della lingua ma ha una portata più ampia. Questo è uno degli aspetti più interessanti del pensiero di Glissant, di Bernabè e di altri pensatori post-coloniali: concepire la diasporacome luogo dove viene ripensata la dimensione dell’umano. 

            In questo senso, la creolità è concepita come un inno alla complessità che accomuna l’identità di tutti gli uomini. Scrive per esempio Glissant che se è vero che le fantasticherie dei popoli dominati inseguono sovente i paradisi immaginari delle terre d’emigrazione, è anche vero che la loro capacità immaginale li dis-loca con visioni illuminate e fertili:“Sono i popoli più facilmente o derisoriamente oassolutamente oppressi che concepiscono nel modo più avanzato il superamentonecessario dei particolarismi settari”.

            Poiché non vi è un passato cui ritornare, la poetica della tracciariconnette a un’identità affettiva che trascende in parte le narrazioni della doppia assenza. Nella creolizzazione il subalternoriesce a esprimere la propria resilienza e la nostalgia di quanto ha perso, pur riuscendo a includere la nuova realtà e a proiettarsi verso il futuro. 

             Ci ricorda anche che l’epoca della tratta è stata quella delle prime grandi migrazioni che in qualche modo hanno accompagnato la modernità.          Secondo Mbembe questa fu l’epoca del mescolarsi forzato delle popolazioni, della scissione creatrice attorno alla quale sorse il mondo creolo delle grandi culture urbane contemporanee e «il momento in cui alcuni uomini strappati alla terra, al sangue e al suolo, impararono a immaginare delle comunità di là dai legami del suolo…».

            Del resto, Glissant sostiene che mentre il meticciato crea forme prevedibili da un incrocio di fattori, la creolizzazione genera sempre l’imprevedibile, e questo imprevedibile ha una qualità estetica che è anche etica e parla a ognuno. Genera per esempio il blues, che poi diventa la musica del mondo. Torniamo per un istante alla creolizzazione linguistica: era come se lo schiavo dicesse «malgrado io debba adottare la tua lingua, e una lingua monca, a partire da questa parzialità io rivendico di essere anche altro.» Oggi, nel contesto della migrazione, la situazione si è rovesciata: i ragazzi delle seconde generazioniparlano un italiano perfetto e fanno da mediatori ai propri genitori. Non si accontentano di dire «rispetta le differenze, cogli le sfumature, io sono anche altro!». Essi dicono contemporaneamente: «Certo! Ma non sono solo altro…!»

fabrice dubosc &  nijmi edres Piccolo Lessico del Grande Esodo – minimum fax 2017

radici coloniali della crisi

Come tutte le guerre, le guerre coloniali furono guerre di estrazione e predazione. Dal lato dei vinti come da quello dei vincitori, spiega bene Achille Mbembe – le guerre hanno sempre violentato qualcosa che è difficile nominare – la possibilità di riconoscere nel volto del nemico anche il volto del proprio simile.

La guerra mette contemporaneamente gli umani in contatto con la loro vulnerabilità e con le difese pulsionali più violente e distruttive. La guerra è il circolo vizioso per eccellenza.

Ma la logica coloniale rimane sempre – per parafrasare Fratnz Fanon – una logica di guerra, perché quando una soglia di violenza e crudeltà è stata legittimata la conseguenza non può che essere la giustizia arbitraria, lo stato di eccezione permanente, la difesa strenua del diritto alla sopraffazione.

Del resto la democrazia moderna al suo nascere si struttura a partire da una scissione: coesiste con la schiavitù. In essa si manifestano due ordini – quello quanto meno teorico dei diritti e dell’uguaglianza per la categoria dei simili e un’altro ordine istituito anch’esso legalmente per i  dissimili e gli esclusi. 

Oggi, per esempio questa scissione originaria si manifesta nella logica discorsiva delle leggi di prevenzione del terrorismo. Terrorismo e antiterrorismo, nella loro differenza hanno aspetti paradossalmente comuni: entrambi mettono in questione lo stato di diritto. Il terrorismo mira ad abbattere proprio l’idea di uno società fondata sul diritto e sui diritti. L’antiterrorismo sostiene che solo misure eccezionali che sospendano diritto e diritti possono garantire la sopravvivenza dei diritti. Il diritto non basterebbe più: per difendere il diritto bisognerebbe uscire dal diritto. 

Il rapporto tra diritto e morte ha del resto radici antiche –  una delle caratteristiche della sovranità è stato quello di poter calcolare quanti morti fossero necessari – un alto numero del resto calcolato in modo puramente strumentale a partire e da una logica di costi e benefici.

Ogni regime necropolitico – che cioè fa della pulsione di morte il motore della sua politica – in fondo abolisce sempre la distinzione tra mezzi e fini.

Del resto anche il campo di concentramento smette di scandalizzare e ridiventa parte strutturale dell’organizzazione sociale. Mbembe spiega chiaramente come la  radice della questione coloniale si situi in questo principio costante di negazione del legame – il colonialista pensa: ‘da un lato c’è il mio corpo vivo dall’altro questi corpi-cose che lo circondano con cui non posso mai avere veramente un rapporto di reciprocità. ‘

Certo la vita umana è sempre stata sprecata, il terrore non è cosa nuova. Ma tra i tentativi di sprecare vite umane al servizio del profitto o del otere deportandole ‘altrove’ e smepre in nome di uno stigma razziale vi sono stati la piantagione, la colonia il campo di concentramento, il ghetto, il compound o come negli Stati Uniti odierni la prigione. 

Sovente questa distribuzione del ruolo di frammentazione e distruzione viene assegnato a terzi – il dominio si lava le mani della responsabilità delegando ad autorità private il lavoro sporco di proteggere determinati interessi economici, come nel caso delle compagnie concessionarie all’inizio del periodo coloniale o nella provatizzazione attuale dei centri di detenzione per migranti

Anche la catastrofe climatica ha le sue origini nel rapporto perverso con i viventi e la natura che nell’impresa coloniale trovava la sua ragion d’essere. Mbembe evidenzia bene come:

 « il regime della piantagione fu innanzi tutto quello delle foreste e degli alberi che bisognava tagliare, bruciare e radere regolarmente al suolo; del cotone e della canna da zucchero che doveva sostituire la natura pre-esistente, dei paesaggi antichi che bisognava rimodellare, delle formazioni vegetali precedenti che bisognava distruggere di un ecosistema che andava sostituito con un agro sistema. La piantagione non era tuttavia solo  un dispositivo economico. Per gli schiavi trapiantati nel Nuovo Mondo era anche la scena dove si giocava un nuovo inizio. Qui iniziava una vita vissuta ormai secondo un principio essenzialmente razziale, la razza rappresentava una sorta di doppio della natura,  come capitale potenziale, che si poteva grazie al lavoro trasformare in una sorta di miniera, di risorsa da sfruttare.»

Se la capacità di conquistare una propsettiva di comune vulnerabilità  è centrale per evitare le derive paranoidi della guerra come elaborazione paranoica del lutto rimane valida la formulazione di Mbembe che per onorare i morti occorre un sovrappiù di vita, una prospettiva psicosocioambientale sistemica che tuteli il pianeta e il vivente in tutte le sue conflittuali differenze.

fabrice dubosc – Lessico della crisi e del possibile SEB 27, 2019