
Condivido alcuni dei miei tentativi – nei lemmari pubblicati negli scorsi anni – di rendere accessibile e “mettere in comune” pensieri complessi nati principalmente in ambito accademico decoloniale (cultural studies etc.)…
Si può fare senz’altro meglio!
Resta infatti il problema cruciale della “rappresentazione” indebita – del prendere parola per conto di altri e “rappresentarli” – (sia da punto visivo che politico), problema che Gayatri Spivak aveva messo in luce tanti anni fa nel famoso articolo “can the subaltern speak?” che era stato un primo importante contributo alla comprensione dell’importanza del valore di resistenza e conoscenza di ciò che si definisce “performativo” – anche se per Spivak l’accento sul performativo restava essenzialmente tragico (il suicidio di sua zia).
Oggi vediamo che sempre più i subalterni riescono di fatto a parlare e performare in mille modi spesso più efficaci del discorso accademico – anche se l’interfaccia tra “saperi”, media e azioni dal basso è di per sé complessa. Ma la narrativa, le performance musicali e poetiche, le assemblee dei corpi, le nuove forme di organizzazione dal basso e sopratutto l’interezionalità delle lotte a partire dalle molte forme di razionalizzazione (non solo il colore della pelle), sono un elemento sempre più decisivo nella trasformazione delle percezioni.
La questione della razializzazione del mondo (“il divenir negro del mondo” dice Mbembe) mi sembra cruciale per una visione delle alleanze possibili – ma su questo bisognerà ritornare mentre coltiviamo le nuove forme di narrazione trasformativa: podcast, radio, graphic novels, una carovana performativa BLM di “Vite razzializzate on the road” e quant’altro…
razzismo
Qualche tempo fa in Toscana ho visto due africani fatti scendere in malo modo dal treno, affidati alla polizia ferroviaria. Non avevano il biglietto. Uno di loro gridava disperato – «Ma voi non sapete come stiamo noi africani, da cosa veniamo!» Stava per perdere il lume.
Il treno era fermo, la porta del vagone aperta. Con cortesia ho detto la mia da cittadino, incoraggiando il poliziotto, che pareva restio a trattenerli: «Li hanno fatti scendere, a che serve, lasciateli andare.» Il controllore si è infuriato, perdeva quasi lui il lume. «Lo paga lei il biglietto? Eh lo paga lei?» Domanda retorica perché ormai erano scesi. «Ma sì» – dico – «il biglietto glielo avrei pagato. Da Arezzo a Firenze non costa una cifra spropositata.» Il controllore si è infuriato ancora di più – «E il torto che lei fa a tutti gli altri passeggeri» – urlava – «glie lo chieda, glie lo chieda se son d’accordo…» si rivolgeva infuriato a tutto il vagone, che lo guardava in silenzio. Poco mancava che mi desse del fascista…
L’immunitàrazzista è roba vecchia. Negli anni Sessanta i titoli dei giornali sottolineavano la presunta correlazione tra l’etnicità dei meridionali e un reato: «Siciliano svaligia un appartamento». È la stessa storia che si ripete, come quando agli inizi del novecento gli Italiani emigrati in America venivano indiscriminatamente additati come sporchi, ignoranti, petulanti, violenti e criminosi. Allora (ma in una certa misura ancora oggi, se pensiamo a recenti fatti di cronaca ambientati in Gran Bretagna o Germania) era soprattutto l’emigrazione italianaa suscitare reazioni xenofobe.
A distanza di oltre un secolo la società italiana sembra restare poco consapevole o non attrezzata rispetto ai processi che si sono messi in moto con le migrazioni internazionali. Complice di tutto questo è forse una politica che ha fatto della narrazione razzista e dell’ostilità verso le minoranze etnico-religiose un proprio cavallo di battaglia e una politica, di segno evidentemente opposto, che denunciando astrattamente la xenofobia più bieca (e facendole da cassa di risonanza), raramente entra nel merito delle condizioni di disagio in cui questa si genera.
Il report prodotto nel 2015 dal Pew Research Center e relativo al rapporto tra cittadini europei e minoranze etnico religiose in Europa ha suscitato grande scalpore, lasciando emergere dati allarmanti, che pur semplificano e generalizzano un quadro complesso.
Le statistiche sulla discriminazione in Italia confermano una spiccata percezione di ostilità (ormai di lungo corso) rivolta verso gli zingari, accompagnata da retaggi di antisemitismo e nuove ondate di islamofobia.
Guardando i tarocchi, la carta giusta per commentare l’avventura del migrante in questo quadro sarebbe la prima, quella senza numero, il “Matto”. È un vagabondo nomade che porta il fagotto delle sue cose col bastone in spalla. Il passato, un cane, gli corre appresso. Il cane lo insegue ma non lo trattiene. Il suo impulso vitale è un grande potenziale non ancora dispiegato che va verso il futuro. È l’aspirazione migrante che osa. Se invece osserviamo il viaggio migrante dal punto di vista della doppia assenza,il passato è un lupo che morde, l’eroismo del migrante è velleitario, i suoi sono trucchi da briccone ingenuo. Va incontro all’impotenza, alla vulnerabilità derisa, allo sguardo che disconosce, a un mondo che accoglie escludendo. C’è davvero di che dar fuori di matto.
nijmi edres & fabrice dubosc – da Piccolo Lessico del Grande Esodo – minimum fax 2017
razza e inconscio
Riprendendo Foucault e Deleuze, il pensiero postcoloniale rileva come razza e razzismofacciano parte dei processi fondamentali con cui l’inconscio rappresenta il rapporto con l’alterità.
Achille Mbembe spiega che la specificità dell’idea di razza è sempre di generare un doppio, un simulacro, una maschera volta a nascondere l’umanità di un volto umano. «Per il razzista vedere un negro, significa non vedere che non c’è, che non esiste; che non è che il punto di fissazione patologica di una assenza di relazione (…) il significante razziale è tuttora, a più di un titolo, la lingua non eludibile, anche se a volte negata, del racconto di sé e del mondo, del rapporto con l’Altro, con la memoria e il potere.»
L’elaborazione paranoica della differenza nell’odio per l’altro cela un profondo odio di sé: il razzista si rassicura odiando, maneggiando il terrore, costituendo l’altro come diverso, cioè come doppio perturbante da cui proteggersi o disfarsi.
L’inconscio razziale aveva trovato una narrazione ‘scientifica’ nella primitiva ‘psicologia dei popoli’ e delle emozioni del XIX secolo che a sua volta si nutriva della logica illuminista che aveva rappresentato l’Africa come ferma in un’infanzia da cui gli altri popoli del mondo erano da tempo usciti.
La razza come misura della differenza, dell’immunità e della segregazione è stata la lingua privilegiata del potere sociale. E come dimostrano le pratiche del colonialismofrancese, la discriminazione e il razzismo possono essere del tutto coerenti con un’idea acritica e strumentale di universalità, razionalità, coerenza del soggetto, insomma con alcune delle grandi idee portanti dell’Illuminismo.
Chi è soggetto allo sguardo razzista diventa immediatamente un testimone vivente della violenza del mondo. Testimone della vulnerabilitàe pietra di scandalo. I negri, gli ebrei, gli indios, i palestinesi, gli zingari, i rifugiati e migranti di ogni paese sono testimoni paradossali di ciò che non è visibile, in particolare dei cadaveri assenti, che la mancata sepolturaconsegna a una tomba vuota.
Lanecrofiliaesige sempre la propria sterile ripetizione. E ci aiuta a comprendere perché le pratiche con cui il principio razziale si riproduce devono sempre attaccare il corpo rivelando in fondo un conto in sospeso con la vitain generale.
Per questo Mbembe sostiene ripetutamente che il modo migliore di elaborare il lutto e onorare i morti è con un sovrappiù di vita.
fabrice dubosc – Piccolo Lessico del Grande Esodo, minimum fax 2017
resistenza culturale
L’enfasi sultraumache sovente legittima il discorso di accoglienza tende a cancellare non solo la singolarità di ogni storia ma anche la storia della resistenza culturale da parte dei subalterni.
La nave degli schiavi e poi la schiavitù nelle piantagioni del Nuovo Mondo mettono in luce la nascita di una società solidale basata esclusivamente su una coesistenza involontaria. Paul Gilroy ha raccontato come sulle navi degli schiavi che attraversavano l’Atlantico nacque un corpus alternativo di consapevolezza, fatto di pratiche narrative e performative, una sorta di controcanto alla supposta razionalità del progetto coloniale da cui nacque la modernità.
Nell’esperienza degli schiavi prevale la necessità di escogitare con flessibilità e improvvisazione pratiche di resistenza in una situazione tutt’altro che ideale. La ricombinazione come segno della resilienza culturale di fronte all’egemonia del padrone trova la sua incarnazione nel cantastorie creolo.
Il cantastorie riutilizza i materiali narrativi della tradizione riadattandoli alla nuova situazione in cui si trova.Le storie che racconta, che esse abbiano o meno un “lieto fine” costituiscono una controcultura, che anche se impotente a realizzare la libertà, il Giubileo (come venne chiamato dagli schiavi in Nord America) aspira ad essa ed è determinata a raggiungerla. Malgrado le pratiche crudeli, che imponevano il lavoro e la riproduzione (secondo la modalità dell’allevamento del bestiame), malgrado l’avvilimento e la disumanizzazione (non potevano sposarsi, fare famiglia, educare i figli) gli schiavi restano pur sempre esseri umani. continuano a creare un mondo. tessono relazioni e un universo di significazioni, inventano lingue, religioni, danze e rituali Sono privati di tutto ma non della capacità di simbolizzare.
La decostruzione dell’etnocentrismo culturale proprio nell’esperienza della schiavitù è qualcosa di molto significativo. Il primo elemento decostruito è il fondamentalismo identitariodelle radici.La creolizzazioneè una de-creazione creativa.
Mentre l’etnocentrismo poggia su un immaginario mito di fondazioneescludenteche fa proclamare: «il nostro mito di creazioneci legittima come unico popolo eletto», la sensibilità antillese, punta sulla co-creazione continua di un mondo non escludente. Come ha detto l’antropologo Roger Bastide grande studioso dei culti afro-brasiliani: Il sincretismo è sempre più o meno una forma di resistenza culturale
Un altro elemento cruciale è il rapporto tra lingua e verità. Il monolinguismo sembra direttamente collegato alla produzione di conoscenza totalizzante, in una sorta di equazione inflazionata tra sé culturale e verità. La poetica della relazione non può contemplare l’intransigenza monolinguistica.
Per Gilroy la creolizzazione è innanzitutto una sorta di primaria resistenza e liberazione della cultura, specialmente nel rapporto con la lingua che prende la forma di una sorta di forza sociale auto-generativa in condizioni avverse: mettersi al mondo malgrado tutto.
Ma è anche vero che la negazione del soggetto propria del dominio coloniale non può che generare forme di resistenza ‘opaca’ al consenso forzato. Anche quando questa opacità prende le forme di un’ apparente adesione. O tenta di sfruttare la logica del sistema. Del resto la ribellione (inefficace) alla minorità,alla mancata inclusione, all’impossibilità di agire, al precariato, alla crisi dell’empowerment e dell’agencye il ricorso a uno storytelling vittimario sono sintomi sociali senza frontiere.
fabrice dubosc – Piccolo Lessico del Grande Esodo, minimum fax 2017
creolizzazione
Il concetto di creolizzazione proposto dal poeta e saggista antillese Edouard Glissant si sviluppa dalla riflessione sull’uso della lingua dei colonizzatori da parte dei popoli colonizzati, schiavi o comunque subalterni. Glissant ci racconta che sulle navi per le Antille gli schiavi venivano divisi e ognuno era affiancato a chi parlava una lingua diversa affinché non vi fosse parola condivisa, per cancellare la costruzione di una memoria comune.
La trasmissione in questo caso non può più fondarsi sulla consegna verbale della memoria, e ciò obbliga a un lavorio continuo su ciò che può e deve essere trasmesso anche al di fuori della lingua madre. Il colonizzatore impone per esempio una lingua semplificata che lo schiavo adotta. Ma è come se lo schiavo poi dicesse: «Parlo come mi consenti ma pur aderendo a questa lingua parziale la trasformo e resisto, perché la traccia – non la memoria del trauma collettivo (che è stata cancellata) ma ciò che riesce a resistere al di là di ciò che la diaspora cancella – mi permette di creare qualcosa di nuovo, di inedito.»
Patrick Chamoiseau,un altro autore di origine martinicana, amico e collaboratore di Glissant, nel romanzo Texaco, premio Goncourt nel 1992, dà un esempio delle strategie di resistenza e spostamento linguistico nella creolizzazione. Il genio degli schiavi trasforma esclavagein estravaille [una parola che ricombina esclavage/schiavitù e travail/lavoro].
«Loro dicevanol’esclavage, la schiavitù. Ma noi udivamo l’estravaille,E quando se ne resero conto e cominciarono a dire anche loro l’estravaille,per parlare come noi, avevamo già ridotto la parola a travail,semplicemente il duro lavoro . . . ha ha ha, (…) la parola era affilata come un’arma.»
L’idea di creolizzazione si sviluppa da questa riflessione sull’uso della lingua ma ha una portata più ampia. Questo è uno degli aspetti più interessanti del pensiero di Glissant, di Bernabè e di altri pensatori post-coloniali: concepire la diasporacome luogo dove viene ripensata la dimensione dell’umano.
In questo senso, la creolità è concepita come un inno alla complessità che accomuna l’identità di tutti gli uomini. Scrive per esempio Glissant che se è vero che le fantasticherie dei popoli dominati inseguono sovente i paradisi immaginari delle terre d’emigrazione, è anche vero che la loro capacità immaginale li dis-loca con visioni illuminate e fertili:“Sono i popoli più facilmente o derisoriamente oassolutamente oppressi che concepiscono nel modo più avanzato il superamentonecessario dei particolarismi settari”.
Poiché non vi è un passato cui ritornare, la poetica della tracciariconnette a un’identità affettiva che trascende in parte le narrazioni della doppia assenza. Nella creolizzazione il subalternoriesce a esprimere la propria resilienza e la nostalgia di quanto ha perso, pur riuscendo a includere la nuova realtà e a proiettarsi verso il futuro.
Ci ricorda anche che l’epoca della tratta è stata quella delle prime grandi migrazioni che in qualche modo hanno accompagnato la modernità. Secondo Mbembe questa fu l’epoca del mescolarsi forzato delle popolazioni, della scissione creatrice attorno alla quale sorse il mondo creolo delle grandi culture urbane contemporanee e «il momento in cui alcuni uomini strappati alla terra, al sangue e al suolo, impararono a immaginare delle comunità di là dai legami del suolo…».
Del resto, Glissant sostiene che mentre il meticciato crea forme prevedibili da un incrocio di fattori, la creolizzazione genera sempre l’imprevedibile, e questo imprevedibile ha una qualità estetica che è anche etica e parla a ognuno. Genera per esempio il blues, che poi diventa la musica del mondo. Torniamo per un istante alla creolizzazione linguistica: era come se lo schiavo dicesse «malgrado io debba adottare la tua lingua, e una lingua monca, a partire da questa parzialità io rivendico di essere anche altro.» Oggi, nel contesto della migrazione, la situazione si è rovesciata: i ragazzi delle seconde generazioniparlano un italiano perfetto e fanno da mediatori ai propri genitori. Non si accontentano di dire «rispetta le differenze, cogli le sfumature, io sono anche altro!». Essi dicono contemporaneamente: «Certo! Ma non sono solo altro…!»
fabrice dubosc & nijmi edres Piccolo Lessico del Grande Esodo – minimum fax 2017
radici coloniali della crisi
Come tutte le guerre, le guerre coloniali furono guerre di estrazione e predazione. Dal lato dei vinti come da quello dei vincitori, spiega bene Achille Mbembe – le guerre hanno sempre violentato qualcosa che è difficile nominare – la possibilità di riconoscere nel volto del nemico anche il volto del proprio simile.
La guerra mette contemporaneamente gli umani in contatto con la loro vulnerabilità e con le difese pulsionali più violente e distruttive. La guerra è il circolo vizioso per eccellenza.
Ma la logica coloniale rimane sempre – per parafrasare Fratnz Fanon – una logica di guerra, perché quando una soglia di violenza e crudeltà è stata legittimata la conseguenza non può che essere la giustizia arbitraria, lo stato di eccezione permanente, la difesa strenua del diritto alla sopraffazione.
Del resto la democrazia moderna al suo nascere si struttura a partire da una scissione: coesiste con la schiavitù. In essa si manifestano due ordini – quello quanto meno teorico dei diritti e dell’uguaglianza per la categoria dei simili e un’altro ordine istituito anch’esso legalmente per i dissimili e gli esclusi.
Oggi, per esempio questa scissione originaria si manifesta nella logica discorsiva delle leggi di prevenzione del terrorismo. Terrorismo e antiterrorismo, nella loro differenza hanno aspetti paradossalmente comuni: entrambi mettono in questione lo stato di diritto. Il terrorismo mira ad abbattere proprio l’idea di uno società fondata sul diritto e sui diritti. L’antiterrorismo sostiene che solo misure eccezionali che sospendano diritto e diritti possono garantire la sopravvivenza dei diritti. Il diritto non basterebbe più: per difendere il diritto bisognerebbe uscire dal diritto.
Il rapporto tra diritto e morte ha del resto radici antiche – una delle caratteristiche della sovranità è stato quello di poter calcolare quanti morti fossero necessari – un alto numero del resto calcolato in modo puramente strumentale a partire e da una logica di costi e benefici.
Ogni regime necropolitico – che cioè fa della pulsione di morte il motore della sua politica – in fondo abolisce sempre la distinzione tra mezzi e fini.
Del resto anche il campo di concentramento smette di scandalizzare e ridiventa parte strutturale dell’organizzazione sociale. Mbembe spiega chiaramente come la radice della questione coloniale si situi in questo principio costante di negazione del legame – il colonialista pensa: ‘da un lato c’è il mio corpo vivo dall’altro questi corpi-cose che lo circondano con cui non posso mai avere veramente un rapporto di reciprocità. ‘
Certo la vita umana è sempre stata sprecata, il terrore non è cosa nuova. Ma tra i tentativi di sprecare vite umane al servizio del profitto o del otere deportandole ‘altrove’ e smepre in nome di uno stigma razziale vi sono stati la piantagione, la colonia il campo di concentramento, il ghetto, il compound o come negli Stati Uniti odierni la prigione.
Sovente questa distribuzione del ruolo di frammentazione e distruzione viene assegnato a terzi – il dominio si lava le mani della responsabilità delegando ad autorità private il lavoro sporco di proteggere determinati interessi economici, come nel caso delle compagnie concessionarie all’inizio del periodo coloniale o nella provatizzazione attuale dei centri di detenzione per migranti
Anche la catastrofe climatica ha le sue origini nel rapporto perverso con i viventi e la natura che nell’impresa coloniale trovava la sua ragion d’essere. Mbembe evidenzia bene come:
« il regime della piantagione fu innanzi tutto quello delle foreste e degli alberi che bisognava tagliare, bruciare e radere regolarmente al suolo; del cotone e della canna da zucchero che doveva sostituire la natura pre-esistente, dei paesaggi antichi che bisognava rimodellare, delle formazioni vegetali precedenti che bisognava distruggere di un ecosistema che andava sostituito con un agro sistema. La piantagione non era tuttavia solo un dispositivo economico. Per gli schiavi trapiantati nel Nuovo Mondo era anche la scena dove si giocava un nuovo inizio. Qui iniziava una vita vissuta ormai secondo un principio essenzialmente razziale, la razza rappresentava una sorta di doppio della natura, come capitale potenziale, che si poteva grazie al lavoro trasformare in una sorta di miniera, di risorsa da sfruttare.»
Se la capacità di conquistare una propsettiva di comune vulnerabilità è centrale per evitare le derive paranoidi della guerra come elaborazione paranoica del lutto rimane valida la formulazione di Mbembe che per onorare i morti occorre un sovrappiù di vita, una prospettiva psicosocioambientale sistemica che tuteli il pianeta e il vivente in tutte le sue conflittuali differenze.
fabrice dubosc – Lessico della crisi e del possibile SEB 27, 2019