Elementi di clinica della crisi (1)

Per introdurre qualche iniziale riflessione sulla Clinica della crisi nel tentativo di immaginare le forme possibili di una prospettiva decoloniale ripubblico la mia introduzione a “Lessico della crisi e del possibile” – Seguiranno la postfazione scritta da Gianluca Solla a questo stesso testo e la prefazione sempre di Gianluca al mio “Sognare la terra – il troll nell’antropocene”.

Parliamone insieme!

Muoversi verso misurando le distanze

Il fatto che l’uomo sia capace d’azione significa che da lui ci

si può attendere l’inatteso, che è in grado di compiere ciò che è

infinitamente improbabile

Hannah Arendt

Nel momento in cui le diverse reti associative e le discipline di ricerca si interrogano sulla crisi, affiora sovente la difficoltà di trovare un linguaggio comune a partire da griglie interpretative già strutturate oppure scegliendo la facile soluzione della “linea politica giusta” che finisce per escludere chi non la pensa secondo la legge implicita, il “discorso” e le “parole d’ordine” che nel gruppo si vanno affermando. 

In entrambi i casi è molto facile ricadere in quello che Freud chiamava «narcisismo delle piccole differenze», o in quella forma politica reattiva in cui il progetto viene alimentato – come accade nel caso del populismo – da una logica di risentimento a forte carattere emotivo. Logica che sfocia sovente in un discorso sul “risarcimento” che è di per sé una deformazione di ciò che è “giusto” e che è una delle principali fonti della odierna infelicità italiana. La politica, la resistenza civile, dovrebbe essere capace di tristezza quanto di gioia. Come nel titolo di un volume storico della comunità filosofica femminile Diotima che mi colpì molto: La festa è qui (1)

Per esplorare una diversa logica di “democrazia profonda”, di dibattito aperto, di intersezionalità e tolleranza delle differenze, penso alla necessità di ri-declinare “cromaticamente” nei colori delle diverse differenze/appartenenze l’affermazione di Simone Weil che chiamava “la prima radice”: «il dovere ineludibile verso l’umano» (2)

Su questa base un gruppo di studiose e studiosi, attivisti e attiviste ha aderito sin dall’ottobre 2018 alla proposta di un laboratorio di ricerca sulla clinica della crisi. Altri si sono aggiunti cammin facendo nella costruzione del Lessico. Il tentativo è quello di propiziare un confronto e un passaggio dalla critica alla clinica. Intesa ovviamente nel senso più ampio di cura del possibile. 

Una clinica della crisi deve insomma interrogarsi su cosa significhino oggi “clinica” e “critica”, passando dall’analisi disciplinare alla condivisione di pratiche e saperi nella libertà di pensare per sé, in uno spazio relazionale capace di generare nuovi progetti e iniziative, di ampliare le reti, uscendo dalla logica speculare e auto riferita del risentimento e dell’esclusione. 

Oggi, in particolare si rafforza la consapevolezza che questo «dovere verso l’umano» si sta trasformando in dovere comune verso la sopravvivenza della Terra. La consapevolezza dell’interdipendenza dei fenomeni esige una svolta radicale: – il “dovere” diventa la necessità sentita di co-abitare il mondo a partire dalla comune vulnerabilità di tutti i viventi. 

L’intreccio vitale oggi è costituito dal dialogo tra pensiero post-coloniale, femminismo, ragione eco-sistemica, filosofia, antropologia e psicoanalisi. Senza dimenticare i saperi profondi delle discipline artistiche e dell’intuito performativo che sovente testimonia con forza la resistenza dei subalterni. Intreccio più che mai necessario per esplorare la complessità della crisi. Per trovare risposte all’emergenza ambientale, alla crisi migrante, finanziaria, di relazioni tra culture e tra generi e anche tra specie, bisognerà imparare a rispettare la radicale diversità delle prospettive che pure è in gioco nelle dinamiche di interdipendenza. 

In particolare è cruciale ripensare a fondo i concetti di sovranità e potere. Distinguere la cura del possibile dalle soluzioni inquinate dall’ideologia di una forza cieca che “muoverebbe il sol e le altre stelle”. Come ha argomentato Simone Weil, la forza che prevarica è il nucleo profondo del nazifascismo e una cartina di tornasole sui diversi modi di pensare la giustizia: «Se la forza è assolutamente sovrana, la giustizia è assolutamente irreale. Ma non lo è».

Ciò impone ancora di più la necessità di uscire da quella logica oppositiva del risentimento vittimistico che ha animato tanti discorsi antagonisti. Disobbedienza civile vuol dire costituire un’alternativa forte del sentire, un altro genere di forza che riesce a consistere nel tempo – senza oscillare come un mero campo emotivo di per sé instabile. E la forma del sentire in questione è assai diversa dalla facile reattività che è moneta corrente e strumento di propaganda. 

La manipolazione delle emozioni è una pratica che i sovranisti conoscono molto bene. Il loro doppio messaggio nefasto e profondamente fascista è una proposta di adesione volontaria allo Stato di polizia – la loro è una propaganda a furor di ‘bacioni’ – veri e propri marchi di infamia per esporre alla gogna virtuale gli oppositori – (ci sarebbe da fare tutta una storia del bacio che tradisce, che indica un bersaglio, o che accomuna in un sordido segreto). Insieme ai bacioni sovente si rovescia su chi si oppone l’accusa di essere “rosiconi”, di non accettare la politica del “manganello felice”. Contro tale psicopolitica manipolatoria dobbiamo dimostrare che la più ferma delle opposizioni è radicata in un altro modo del sentire e del dire, accessibile a ognuno.

Praticare il presente ha anche questa accezione. Non essere preda del risentimento, stare con ciò che c’è. “Saper essere” insieme a “saper fare”. Tuttavia, accogliere, abitare o praticare il presente, non significa acquiescere, ma calibrare una miglior risposta, una più efficace resistenza. 

Non è una resa ma il suo contrario.

Lo dice benissimo Chandra Livia Candiani quando parla in questi termini della meditazione, pratica del presente per eccellenza, che non va confusa con il suo scorretto uso a mo’ di anestetico emotivo:

«Non voglio imparare a non arrabbiarmi, voglio sentire il fuoco, circondarlo di trasparenza che illumini quello che gli altri mi stanno facendo e quello 

che posso fare io. […] Non voglio essere buona voglio essere sveglia […]. Non voglio pacificare tutto voglio esplorare la realtà anche quando fa male» (3)

O ancora in una poesia: 

di guerrieri indifesi 

ha bisogno il mondo, 

di sacra ira 

di occhi spalancati. (4)

Una declinazione politica di questa sensibilità del resistere la trovo nella ferma dignità con cui parla la yazidi Nadia Murad, sopravvissuta alle torture dell’Isis. O nell’umanissimo abbraccio alla comunità musulmana della Prima ministra Jacinda Adern dopo la strage di Christchurch. Che poi propone una finanziaria che invece di puntare sulla crescita immagina un “bilancio del benessere” del Paese. O nelle proteste esemplari delle donne che stanno assumendo la guida dei movimenti in Amazzonia e altrove. Donne come l’ecologista indigena Bertha Cáceres, co-fondatrice del Consiglio delle organizzazioni popolari e indigene dell’Honduras che lottava per evitare la costruzione di un impianto idroelettrico sul Río Gualcarque, considerato sacro dai Lenca, a opera della compagnia honduregna Desa, della cinese Sinohydro, e di enti della finanza mondiale a conferma del fatto che l’incremento dei bisogni energetici nel mondo implica un attacco transnazionale alle popolazioni e alle terre indigene, polmone della terra e incalcolabile riserva di biodiversità. Dopo anni di minacce, Bertha Cáceres è stata assassinata nella sua casa da intrusi armati nelle prime ore del 2 marzo 2016. Le sue due figlie proseguono la lotta.

Esempi, non a caso, di donne (ce ne sarebbero molti altri) perché la forma del possibile su cui tentiamo di interrogarci è strettamente legata a un salto di qualità del movimento femminista e transfemminista sia in termini di consapevolezza che di gioioso accento sul “per”.

Questa sensibilità emergente la ritroviamo anche nelle nuove forme di protesta, la musica, le canzoni, le lenzuola sui balconi, gli scioperi globali dei ragazzini per svegliare la politica all’urgenza del far bene.

No, i nuovi movimenti non saranno mossi né dal risentimento né dalla tristezza disanimata. Uno degli assi di una vita non fascista è riassunto molto bene da Foucault nella sua Introduzione a una vita non fascista, quando dice: 

«Non immaginate che sia necessario essere tristi per essere militanti, anche se quello che si combatte è abominevole. È il legame del desiderio con la realtà (e non la sua fuga nelle forme della rappresentazione) che possiede una forza rivoluzionaria» (5)

L’idea di una clinica della crisi nasce anche dalla percezione di una crisi della clinica psicoanalitica che tuttavia appare sempre più consapevole di dover uscire dalla dimensione della sola psicologia individuale per aprirsi alla dimensione psicosociale, psicopolitica, eco-politica.

Sintomi positivi in questo senso ce ne sono, a partire dagli appelli delle principali associazioni e società psicoanalitiche italiane contro la deriva escludente e paranoica in atto nel Paese. Così come l’intreccio disciplinare tra etnopsichiatria critica, antropologia medica, psicoanalisi, filosofia, sociologia, storia, narrativa. O come l’utilizzo sempre più frequente di tecniche come la “social dreaming matrix” volta a esplorare l’inconscio politico emergente anche nei sogni e nei gruppi. Il lavoro sul Sogno può “fissare” una “particella”, descriverla come un prodotto della storia e dell’inconscio personale del sognatore oppure “risuonare” associativamente con un tutto-mondo rispettando la natura collettiva e sociale dei “vasi comunicanti” inconsci, l’interconnessione delle storie, ognuna nella sua diversa unicità. Un modo per far sognare insieme la lingua.

Si tratta insomma di abitare o praticare il presente a partire da ciò che c’è. E vi sono, semplificando, due modi opposti di abitare questo presente. Il primo è alla maniera del troll (vedi voce) il cui motto è «ti basti essere ciò che sei». 

È un modo di praticare il tempo depressivo e rivendicativo dove il gioco dell’identità diventa un «cambiare non si può anzi non si deve», un fare della tradizione o anche solo dei “costumi” e delle “abitudini” il sine qua non che non deve essere in alcun modo messo in discussione, o viceversa un «cambiare sempre e un cambiare tutto affinché nulla si modifichi», insomma, il mantra del neoliberismo: “un altro mondo è impossibile”.

L’altra modalità di vivere il tempo sarebbe di «portare il presente nel presente, il presente nel passato, il presente nel futuro» (Sant’Agostino). Gayatri Spivak, per esempio, parla del presente esteso degli aborigeni e di quello frammentato dei suoi studenti universitari senza memoria storica. Per il filosofo francese Simondon, analogamente, individuazione coincideva dinamicamente con trasformazione. Perché in ognuna delle sue fasi, l’essere dispiega la sua complessità sistemica e sempre con una riserva di divenire. E grazie a questa riserva il presente è deposito di trasformazioni e nuove pratiche e possibilità

Nel rapporto con la possibilità del cambiamento, il nodo della giustizia è centrale. Il cuore di questo rapporto è l’evoluzione del sentire comune. Ma non è Hegel che ha inventato l’idea che l’autocoscienza si produca a partire dallo scarto tra oppressori e oppressi (padroni e schiavi). Ritroviamo sovente una analoga formulazione nella forma originaria delle narrazioni religiose. Cito il Vangelo ma lo stesso concetto si trova in molte altre tradizioni: «Benedetti i perseguitati per amore della giustizia perché di loro è il Regno» (6)

Il Regno significa la possibilità di un punto di vista sovrano (quella che oggi si chiama agency, agentività, possibilità di azione efficace) a partire da uno scarto in cui non si resta impigliati.

La giustizia in questa prospettiva non si declina solo nella misura del “risarcimento” (per altro sovente auspicabile come riconoscimento del torto subito). Ma tale riconoscimento non va così lontano se non è innanzi tutto preceduto dall’auto-riconoscimento intimo (e per certi versi impersonale) di ciò che è giusto a partire dall’esperienza stessa dell’ingiustizia di ciò che non è stato riconosciuto. Questo auto-riconoscimento è la radice profonda dell’andar oltre e dell’autorizzarsi a dire i propri sì e i propri no. Cosa difficilmente possibile per chi perseguita. 

Il rapporto con ciò che manca, con il “senza” è dunque cruciale per inventare o ritrovare il “con”, il possibile. Arendt per esempio, fonda la sua etica sul coraggio di «stare senza», senza cioè quelle stampelle identitarie, dottrinali, ideologiche che riempiono l’etica stessa di a priori pensandola come reazione al male, come un essere “contro” che finisce per svuotare l’etica stessa di ogni positività, di ogni essere “per” se non nella forma della retorica ideologica. (7)

Questa prospettiva etica riapre i giochi, non resta impigliata nei traumi, non è né ideologica né retorica, né una razionalizzazione né un volontarismo.

Tuttavia per ridefinire in senso positivo il lavorio etico bisogna riconoscere che l’immaginazione è un «organo morale». Laura Boella ne riassume bene il modo quando scrive:

«Se è innegabile il legame dell’etica con la processualità che lega scienza, tecnologia, società ed economia, ciò che più conta è quanto nell’etica non è riducibile alla storia, all’economia, alla conoscenza scientifica e riguarda il desiderio di essere umani e di misurarsi con la verità, con la felicità, con l’amore, con l’amicizia, con l’inesorabile» (8)

Questa etica dell’umano ha dunque più a che fare con l’immaginazione che con la ragione:

«Non è mai la ragione legata a se stessa, ma soltanto l’immaginazione a rendere possibile il “pensare mettendosi al posto di ogni altro”, non è la ragione ma l’immaginazione a creare il legame tra gli uomini: al senso di sé della ragione che vive dell’io-penso, si contrappone il senso del mondo, che […] in quanto immaginazione […] vive degli altri» (9)

Dal punto di vista della propaganda politica volta a suscitare consenso è invece pratica nota quella di utilizzare la crisi – il “senza” – come arte di governo, sbandierando il fantasma del “senza” per sdoganare l’inautenticità del “con”. 

Il fantasma del senza (non la sua esperienza, ma la sua rappresentazione psichica) è sostanzialmente paranoico perché rimanda al trauma, al lutto non elaborabile, a una mancanza primaria senza significanti che offrano sponda alla struttura. Il fantasma del senza viene così compensato da un’altra deriva immaginaria, quella dell’identità. Lo diceva molto bene Ernesto De Martino con intuizione profonda ben prima che il mondo anonimo dei social desse una forma evidente alla pseudo socialità dell’isolamento: 

«Il singolo è il mai solo che rischia di essere assolutamente solo, il sempre comunicante che rischia di essere l’assolutamente incomunicabile» (10)

La sfida che abbiamo cercato di raccogliere con questo Lessico è quella di pensare per sé pensando insieme ad altri, in un rapporto inclusivo ma non “adesivo” delle diverse “anime” disposte a ripensare il possibile. Pensare per sé, dunque, ma anche partire da sé (nella duplice accezione del termine come ha insegnato Adriana Cavarero) (11) per sviluppare un’immaginazione etica sono compiti enormi, che rimandano indefinitamente l’idea di una sintesi, a meno che questa che non sia “disgiuntiva”, parziale, tesa più a rivelare cromatismi possibili nella differenza, e persino nel malinteso, che una visione unitaria. 

Il nostro Lessico è in questo senso l’opposto di un tentativo enciclopedico di descrizione e rappresentazione compiuta. D’altronde la crisi stessa rimandando sempre alla complessità ci costringe a fare i conti innanzi tutto con ciò che non sappiamo e non abbiamo capito. E con ciò che riteniamo essenziale. Credo che, in questo cromatismo emergente, i contributi del pensiero delle donne, del pensiero decoloniale, del pensiero queer, dell’antropologia siano cruciali. Pensieri che nelle loro diverse forme ci invitano alla prossimità nella differenza. E all’attenzione costante alla possibilità della partecipazione di ognuno al comune.

Lo ha detto magistralmente John Berger a cui questo volume è idealmente dedicato: approssimarsi vuol dire muoversi verso misurando le distanze (12)

Questo processo dell’approssimarsi (e del farsi prossimo, cercando il comune) significa anche accettare l’approssimazione come necessaria. Non si può mai dire tutto, molti lemmi mancano, ognuno scrive a partire da una prospettiva nata dalla propria esperienza e appartenenza. Chi legge incontrerà lemmi più rigorosamente disciplinari e interpretativi, altri più ibridi e altri ancora narrativi o descrittivi. A volte ciò che non è stato detto, ciò che manca, ciò che chiede più cura conta moltissimo. Come pure ciò che vien detto in modo approssimativo, parziale, tendendo verso e misurando, anche scrivendo, la distanza da un dire compiuto. Idealmente a ogni lemma avremmo voluto far seguire una pagina di commenti, “linee di fuga”, dibattito, ma per questo occorreranno altre forme, in presenza e in dialogo. 

È in questa prospettiva che invito la lettrice, il lettore e le reti a cogliere in questo Lessico un’occasione di partecipazione e costruzione del comune creando concatenazioni, connessioni, moltiplicando le prospettive e le differenze. 

1 Diotima, La festa è qui, Liguori Editore, Napoli 2012..

2 Simone Weil, La prima radice, preludio a una dichiarazione dei doveri verso l’essere umano, Se, Milano 1990 (edizione originale 1943).. Affermazione da applicare oggi a tutto il “vivente” e all’ambiente che lo rende possibile.

3 Chandra Livia Candiani, Il silenzio è cosa viva. L’arte della meditazione, Einaudi, Torino 2018.. 

4 Chandra Livia Candiani, Fatti vivo, Einaudi, Torino 2017.

5 Michel Foucault, Introduzione a una vita non fascista, prefazione a Gilles Deleuze, Felix Guattari, Anti-Edipus, Capitalism and Schizophrenia, University of Minnesota Press, Minneapolis 1983.

6 Matteo 5:10,11.

7 Cfr. Hannah Arendt, Quaderni e diari 1950-1973, Neri Pozza, Vicenza 2007.

8 Laura Boella, Sentire l’altro: conoscere e praticare l’empatia, Raffaello Cortina, Milano 2006.

9 Ibid.

10 Ernesto de Martino, Scritti filosofici, a cura di Roberto Pàstina, il Mulino, Bologna 2005.

11 Adriana Cavarero, Tu che mi guardi tu che mi racconti, filosofia della narrazione, Feltrinelli, Milano 1997

12 John Berger, Qui dove ci incontriamo, Bollati Boringhieri, Torino 2015.. 

Senza Nome

Chandra Livia Candiani

[Inizio qui a condividere alcuni dei testi per certi versi fondanti della prospettiva che abbiamo chiamato “clinica della crisi”. Ragionando dunque di prospettive e dunque della possibile “appartenenza” a una comunità in fieri – inizierò con il lemma che Chandra Livia Candiani ci aveva donato per il Lessico della Crisi e del possibile – (Fab)]

SENZA NOME – Chandra Livia Candiani

Mi sembra di vivere in un tempo profondamente tragico senza alcuna capacità di pensiero tragico.

Intendo un pensiero capace di contenere gli opposti senza mediarli e senza negarli. Un pensiero capace di rispondere. Un pensiero deciso a non appropriarsi. A smantellare le nostre convinzioni rapaci e omicide.

Ma ho una Via. La Via è sempre preceduta da una Visione, eppure la Visione è lungo la Via e si lascia modificare da quello che incontra.

La meditazione per me è un passo dopo l’altro, un respiro dopo l’altro, inoltrarsi nella conoscenza degli automatismi che mi rendono brutale. È disarmo. Puntuale, preciso, millimetrico disarmo.

Quando mi siedo seguo il respiro e gli permetto di portarmi in una zona non discorsiva, in un luogo che certe volte è scendere ma certe volte galleggiare. Un luogo senza parole. Serve per non fare esperienza solo dell’auto-narrazione ma assaporare invece le tracce che le esperienze lasciano in noi, serve per sentire e ascoltare e accedere a una consistenza diversa dell’esperienza, una consistenza fatta di resti, tracce, orme, impronte, periferie.

Mi fa male il mondo. Mi fanno male le parole. La poesia è il linguaggio delle schegge, del dopo catastrofe, toccare il limite e prendere fuoco. Andare a capo. 

Seminare la poesia a scuola tra le bambine e i bambini è incendiarli. Portare a scuola il fuoco, custodirlo, nonostante la desolazione e poi distribuirlo, passarlo di mano in mano mentre in cerchio ci stringiamo le mani e l’alta tensione circola. Diceva Paul Celan: “Non vedo differenza tra una poesia e una stretta di mano.”

Quest’anno in un doposcuola difficile in un quartiere frastornato, nell’impossibilità di lavorare nel silenzio, ho tenuto per buono, per sfondo, il trambusto, gli urli, il caos della stanchezza dei bambini dopo ore di prigione a scuola. Una bambina mi ha premiato così, ha buttato veloce su un foglio queste parole: “Nell’amore i bambini sanno parlare.” Non ho pianto, ho riso forte, tremando. Non avevo parlato di amore, ma di silenzio e lei l’aveva tradotto con relazione. E lei si è accorta di saper parlare, cioè scrivere. 

Quest’anno ho letto in una classe la poesia di un bambino che ha attraversato anni fa il mare e parla di urla nel buio, di voci di antenati che guidano, e termina con questi versi: “…che per fiorire ci vuole un’eternità.” Una bambina, che viene da altre derive, ha ascoltato e si è precipitata a scrivere. 

Ha descritto cosa manca mentre si va alla deriva, ha parlato della sete e del sale nei capelli, ha parlato della paura e della danza, ha scritto così:

Avere paura

La paura di attraversare il mare

l’agitazione di affrontare le onde

il dolore di stare giorno e notte tra le acque

la malinconia della famiglia e dei amici

la paura di sbrigarsi per arrivare prima

la paura della pioggia

la paura di prendersi un raffreddore

la paura se riuscirai ad arrivare nella spiaggia

la tristezza di affogare

la paura se sai nuotare o no

lo spavento di morire

i ricordi degli amici

della casa in cui vivevi

la tensione di arrivare

il temporale con i fulmini

il fastidio di essere sempre bagnato

la voglia di essere già arrivato

la voglia di mangiare e di bere acqua

ma non acqua salata

ma acqua naturale

la voglia di saltare nelle pozzanghere

e non di stare nell’acqua salata

la voglia di asciugare i capelli

e di non averli bagnati d’acqua salata

il dolore di dover ancora attraversare il deserto

nel deserto c’è molto caldo c’è molta sabbia

il caldo che ti entra la sabbia negli occhi

per colpa del vento

il bisogno di aver molta acqua

il desiderio di voler avere l’acqua del mare calma

il desiderio di voler ascoltare la musica

di ballare

e di ridere

il desiderio di essere a casa

nel proprio letto con una coperta e con un cuscino.

Allora non desisto, resto e compio piccoli gesti consapevoli e smonto i miei automatismi e tutto questo non ha nome ma ha tutti i nomi, i nomi del mondo e del senza mondo e del fuori mondo.

Il dolore è fecondo. Se lo ascolti. Se lo interroghi. Ho avuto un’infanzia massacrante e ora posso accogliere i bambini massacrati, ci riconosciamo con uno sguardo. Frequentare i bambini è frequentare un popolo, un grande popolo capace di pensiero e di visione. Sono onorata ogni volta che li incontro e chiedo loro tantissimo e mi arrabbio se non ci sono totalmente.

Quest’anno, un bambino beffardo e cinico, ferito fino alle sue ossa di cane randagio, quando ho detto, toccata dalla mancanza in molti di loro della possibilità che esistano cose sacre: “Sacra è la relazione che ho con voi”, ha scritto come sua poesia-lascito: 

La parola che usiamo

ce l’hai donata 

tu

le cose più importanti

da esprimere

ora

le so io.

Ho fallito un sacco di volte quest’anno ma con lui, nella fierezza di questa poesia, nel suo prendersi la parola e farne quello che vuole farne e nel lanciarmi la sfida di farmi capire che lui sa cosa conta, cosa è sacro, grazie a tutto questo sento che io insisto, non smetto di seminare. Senza nome.