Come in uno specchio oscuro

Riflessioni sull’inconscio pandemico

Fabrice Olivier Dubosc

La distanza non è una misura ma un ritmo

D.G. 

Vorrei esplorare la logica simbolica e discorsiva che sottende le prese di posizioni a favore e contro vaccino e green pass e evidenziare il riferimento costante alla teologia politica – in particolare nell’intreccio di posizionamenti, immagini, incorporati culturali, archetipi immaginativi, credenze nelle loro variazioni e inversioni – dimensioni che sottendono non solo i riferimenti apocalittici sul versante “complottista” ma che informano anche la derisione di ogni prospettiva critica da parte del campo piùacceso di quella che potremmo definire “governance anti-apocalittica.”  

Soprattutto, in questa scissione a tratti virulenta, svanisce la percezione di una grande occasione nel prendere atto del disastro della modernità capitalista, generato da una modalità di vivere, produrre, consumare. Per un tempo, durante il primo lock down, a molti era parso possibile che l’improvviso totale stop ci obbligasse a immaginare un rinnovamento profondo delle modalità di produzione, relazione, pensiero del bene e dei beni comuni. A volte parrebbe che la travolgente questione vaccinale abbia preso il sopravvento su ogni altra riflessione.

La situazione attuale di fatto mi ricorda un po’ quello che dice Carlo Ginzburg in Storia Notturna, il suo saggio seminale sul ripetersi storico della caccia ai supposti mostruosi untori (di volta in volta lebbrosi, musulmani, ebrei, streghe)  a proposito delle «tremende potenzialità di purificazione sociale racchiuse nello schema del complotto: ogni complotto fantasmatico tende a generarne uno reale di segno contrario[1]». Nel caso della pandemia abbiamo a che fare con due fantasmi di complotto: quello che nell’emergenza sanitaria vede solo un vero e proprio esplicito progetto politico-mediatico-epidemiologico volto a creare un controllo totalitario e quello speculare che demonizza come complottista ogni possibile spunto critico, ogni istanza di soggettivazione, differenziazione, problematizzazione che aspiri a un dibattito ampio che colga la costellazione complessiva della crisi. 

Molti i titoli mediatici esemplari che tentano di alimentare il rapporto tra potere e consenso facendo appello alla credenza in una sorta di fobo-estrattivismo in cui la paura serve a alimentare la credenza. Non è il contenuto ma la tonalità affettiva a rivelare che molto spesso il nucleo della credenza nasce dall’urgenza di un “complesso”, dall’angoscia stessa che lo struttura in modo totalizzante. Leggevo spesso il blog di una giovane donna ricco di spunti e riflessioni critiche e poetiche – oggi ogni post è dedicato a una strenua difesa delle politiche vaccinali o a ripostare articoli contrari ad ogni sua problematizzazione.

È comprensibile che le politiche della governance pandemica ritengano di  dover alimentare una credenza nella scienza attraverso la propaganda anche se sembra a prima vista del tutto paradossale.  Si dà per scontato che il “senso comune” plebeo non abbia gli strumenti per reggere l’incertezza che la ricerca tecno-scientifica genera e aderire ugualmente alle sue prescrizioni.  Al di fuori della propaganda scientista, strutturalmente, il corpo scientifico non può parlare con una voce univoca dato che la scienza stessa conferma le sue ipotesi in un processo  dialettico graduale e complesso – non esente da bias e condizionamenti –  di validazione di ipotesi che per lungo tempo restano provvisorie.  La porta si spalanca proprio sulle controversie delle dichiarazioni dei ricercatori: le mascherine chirugiche sono efficaci o no? L’origine del virus è la zoonosi o il laboratorio di Wuhan? Il coprifuoco e il lockdown sono più o meno efficaci del vaccino? Meglio la cura a base di plasma autoimmune o quella con anticorpi monoclonali? I protocolli per gli studi sono stati pienamente rispettati? Sono ancora in corso? Sono stati sospesi? Un vaccino è stato raccomandato prima agli over poi agli under, in alcuni Paesi sospeso per principio di precauzione (e dopo la sospensione la Francia ha inviato centinaia di dosi ridondanti in Africa.) l’opinione pubblica scopre così che la scienza è un campo di battaglia e la risposta all’incertezza si sposta sul piano della credenza che rassicura.

Di fatto gli enunciati scientifici non rispondono a una logica binaria (vero/falso) e la scienza è lungi dall’essere un dispositivo meccanico, neutro,  imparziale di produzione della verità. Bruno Latour, antropologo e sociologo della scienza con le sue ricerche sul campo su come funzionano davvero i laboratori di ricerca ha dimostrato la rilevanza delle reti di mobilitazione di capitali e di alleanze strategiche che indirizzano la direzione di una ricerca. Il processo scientifico si definisce del resto a partire da controversie generative tra scienziati non estranee all’intreccio con altre controversie, con altri interessi. ideologici, politici, economici, etici, religiosei artistici : ha dunque senso parlare di interessi « puramente scientifici »? Una linea di demarcazione così netta è impossibile. E’ particolarmente forte il legame con l’ingegneria informatica e bisogna pur ricordre che simulare un processo non implica e neppure consente necessariamente di comporenderlo

Come scrive Patrice Maniglier[2]  «Le scienze costituiscono un regime di verità accanto ad altri regimi di verità.» Ogni prospettiva è animata da un’aspirazione al vero propria di quella prospettiva e la storia umana non può essere ridotta a un freddo rapporto di correlazioni numeriche ma deve includere la pluralità di prospettive con cui cerchiamo di dar senso al caos a partire dalla realtà biologica, psicologica, socio-economia, spirtuale e politica in cui siamo immersi e che struttura il nostro rapporto con la vita e la storia.

Art by Michal Karcz

La propaganda come risposta alla supposta povertà del senso comune

Ed è evidente che la percezione più o meno conscia di questa complessità, di queste controversie costitutive del processo scientifico aumenta l’incertezza e il bisogno di schierarsi, di far diventare certezze asdolute le ipotesi provvisorie, i tentativi, le biforcazioni e le smentite che il reale sempre genera obbligando la scienza a una revisione e rimessa a fuoco dei suoi paradigmi. Nella misura in cui la governance politica teme il calderone delle opinioni, su cui per altro essa stessa si appoggia per ottenere  consenso, trascura però completamente il desiderio nascosto, l’aspirazione alla giusto sentire che si cela anche nel profondo di ciò che chiamiamo senso comune e che forse è la base di qualsiasi possibilità evolutiva dei sistemi umani. 

Una certa idea di Stato e di bene comune – quando non anima visioni che nascono da riconoscimento – e dal lutto per ciò che è perdita e distruzione – non fa che perpetuare le rovine tornando a presentarsi come un baluardo vontro la Rovina –– come l’indispensabile Stato-Leviatano di Hobbes e Schmitt, baluardo conto l’anarchia e le più basse pulsioni distruttive dell’umano. Quante volte nella storia il monopolio statale della violenza è stato rivendicato in nome del bene comune!

L’idea stessa di “baluardo” contro il male è del resto intrisa di quella teologia politica che viene oggi ridicolizzata in nome di una supposta più evoluta “razionalità computazionale” volta a garantire “realisticamente i “salvati” di fronte alle possibili catastrofi e alle moltitudini di sommersi. Come altrimenti interpretare la esplicita dichiarazione del ministro italiano per la transizione [tecno-]ecologica Cingolani, che aggiunge ad altri nel dire: «il mondo è progettato per 3 miliardi di persone.»

La Costituzione e la “mala intesa tutela di interessi collettivi”

C’è una idea non retorica di cosa possa costituire la democrazia stessa se il “senso comune” implicito nel concetto di persona (che intreccia diritti individuali e collettivi) viene invalidato, ritenuto  incompetente nel, in quanto incapace di prendere decisioni sufficientemente informate sui processi in atto? 

Mi chiedo se non si arriverà a proporre la revisione dell’articolo 32 della costituzione, in particolare la frase che dice che il legislatore “non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana” – un rispetto che rimanda al famoso habeas corpus – “che tu abbia un corpo!” –– pietra miliare dei dispositivi giuridici volti a temperare l’arbitrio assoluto di dare la morte con giudizio sommario o senza giudizio alcuno da parte del sovrano. 

Se lo Stato mette in questione l’integrità corporea, cioé il diritto dei corpi di muoversi, imponendo di fatto la revisione di un principio giuridico fondamentale – senza per altro confrontarsi con il senso di ciò che la Costituzione voleva significare – questa non è cosa da poco, da far passare come scontata conseguenza di uno stato di emergenza. Il diritto (sinora extra-giuridico) dello Stato di spostare e segregare alcuni in nome della salute mette dunque in questione un principio giuridico in nome della pubblica utilità, ma senza entrare nel merito di cosa implichi questa revisione.  Non si immagina nemmeno che un discorso politico sul bene comune potrebbe strutturarsi su una diversa più ampia visione di ciò che ci costituisce.  La storia dell’articolo 32 è interessante. Alcuni medici dell’Assemblea Costituente  si erano rivolti ad Aldo Moro chiedendo di introdurre delle limitazioni al potere del legislatore di disporre trattamenti sanitari coattivi. [3]  Di fronte a una proposta che contemplava la possibilità di perseguire politiche eugenetiche di sterilizzazione (proposta dal deputato del PCI Umberto Nobile) la Costituente approvò la formulazione proposta da Moro e cioè che ikl legislatore “non può violare i limiti del rispetto della persona umana”. Era una norma di sbarramento, come precisò bene lo stesso Moro in Commissione, «per evitare che la legge per considerazioni di carattere generale e di mala intesa tutela di interessi collettivi disponga trattamenti del genere.»

Fermiamoci un momento sulla possibilità così evocata che sia possibile intendere malamente la difesa degli interessi collettivi. 

Dal piano istituzionale è la magistratura a nutrire qualche ldubbio sulla costituzionalità della limitazione della libertà di movimento e anche di variazione della distanza tra i corpi, (che è un “ritmo” relazionale necessario). Trovo sintomatico che destra e sinistra appaiono diversamente uniti da una visione condivisa: la necessità di non far deragliare una certa idea di gestione politico-sanitaria del virus (e dell’economia).. Il 14 agosto 2021 il “Giornale” titolava così in prima pagina “Golpe della magistratura contro il green pass” (a commento della presa di posizione sull’incostituzionalità del Green Pass da parte di Magistratura Democratica). L’idea di una cittadinanza biologica si accompagna a quella di una governance epidemiologica permanente che mette in discussione i fondamenti giuridici e psicologici su cui ci siamo formati. L’enfasi crescente su localizzazione e tracciamento tolgono diversamente il respiro in forme che ridefiniscono in modo radicale la nostra quotidianità relazionale con un serio impatto psicologico e progettuale soprattutto sulle nuove generazioni che già faticano a immaginare orizzonti di sostenibilità immaginativa.

Teologia politica

Sto tentando di suggerire che apocalittici e anti-apocalittici appartengono psicologicamente alla medesima costellazione. Nuotano nelle stesse acque. Anzi, il fatto che alcuni degli attacchi più virulenti suscitati dalle posizioni di Agamben vengano ora estesi alle scienze umane nel loro insieme, al pensiero critico, alla filosofia giuridica sembra indicare che almeno alcune delle sue “sparate” hanno forse colto nel segno, se non altro di un mitema (apocalittico) comune al nostro inconscio culturale, e che la tecno-teologia politica continua ad animare. 

Le categorie della teologia politica sono per altro molteplici: sovranità, ordine gerarchico, una dialettica della storia votata al progresso, il sole radioso dell’avvenire, ma anche l’irruzione di un’alterità che rovescia le carte in tavola. Tutte queste sfere ideali e concettuali sarebbero radicate nei mitemi della nostra tradizione religiosa di una soluzione/redenzione a venire, come pure  l’idea di un risolutivo controllo mondiale dei processi sociali ed economici.[4]

Se è vero che i tentativi di descrivere una continuità assoluta tra un sistema di diritti liberaldemocratici e un regime totalitario restano problematici, bisogna pur ricordare la coerenza con cui Agamben da anni esplora le forme in cui le democrazie moderne con le loro politiche concentrazionarie ridefiniscono in forma meno cruda (almeno per chi non le subisce!) le pratiche escludenti del nazismo[5]

Alcuni sogni raccolti all’inizio della pandemia testimoniano del resto un radicale timore della ripetizione––su un’ ottava diversa––di una persecuzione escludente e totalitaria. La dimensione onirica tenta sovente di risvegliarci alle costellazioni traumatiche della storia che continuano a interpellarci nelle eredità che si celano nelle architetture sociali contemporanee [6]. Qualche forma di apocalisse non ha mai messo di aver luogo. In una recente raccolta americana di sogni sulla pandemia un sognatore racconta:

«Eravamo obbligati a lasciare le nostre case e sapevamo che il COVID era un’arma biologica che volta a creare una dittatura. Gruppi di persone si muovevano per le strade e venivano obbligati a entrare in grandi edifici. I gruppi ammassati sembravano rifugiati in riga – come ebrei diretti ai campi di concentramento.»

La teologia politica degli “anti-apocalittici.”

Chi attacca il complottismo apocalittico lo fa sovente a partire da una idea di digitalizzazione della natura come forma di razionalizzazione estrema necessaria alla governance biotecnologica di un nuovo ordine mondiale emergente. Un ordine che contempla esplicitamente l’“intervento governativo artificiale sulla condizione biologicadella società umana” come dice testualmente Benjamin Bratton, autore di un “Agamben WTF” cioè “Agamben che c…. dici” che è circolato nei social come risposta alla lettera di Agamben e Cacciari. [7]

In gioco dunque è proprio lo statuto del corpo biologico e insieme ad esso quello del corpo immaginale/relazionale che costituisce uno dei fondamenti del desiderio.

Bratton, per esempio  sostiene apertamente una visione epidemiologica della società come baluardo della ragione pubblica. La cosa più interessante (e inquietante) è che lo fa appelandosi alla  visione cyborg transumanista, in una visione mainstream di come intendere il non-binario del tutto funzionale al suo esplicito progetto biopolitico di “razionalità computazionale”.

Vediamo qui in nuce due forme emergenti di pensiero post-binario 

1 Il pluralismo ontologico post-umanista o new materialism o prospettivismo–– che presuppone «la moltiplicazione dei punti di vista,» quella ricombinazione cromatica generativa che implica l’agentività di ogni prospettiva e che viene espressa per esempio nella tradizione iniziatica Yoruba dalle gesta di trickster di Exu/Legba, il dio dei crocevia.[8]

2. Il post-dualismo cosiddetto transumanista che sembra invece risolversi nell’ennesimo elogio del Leviatano – l’unica analogia con la materialità del mondo (di cui per altro si nega la performatività o la si riduce sempre a qualcosa da controllare/sfruttare) è la materialità dello Stato o quella delle risorse cognitivo-computazionali – dal silicio ai biocomputer futuri – che la tecnoscienza può offrire.

Qui non posso non ricordare le considerazioni di Amitav Gosh ne la Grande Cecità sulla consapevolezza istituzionale del futuro impatto della crisi climatica come qualcosa di intrinsecamente incontrollabile a partire dalle logiche di produzione e organizzazione sociale capitalista. Che ci sia qualcosa di vero nell’idea logica e coerente di un piano B, un piano in grado di costruire una tecnosfera chiusa di sostenibilità per i “salvati” perché si considera ineluttabile il destino di sommersi, banditi, esclusi – insomma dei non cittadini, di chi meno degno di una supposta “buona vita” o escluso da essa per nascita o disgrazia, resta fuori dalle alte mura della Nuova tecno-Gersulamme? Molte delle derive istituzionali post-pandemiche e degli attacchi diretti o indiretti all’habeas corpus sembrano andare in questa direzione[9].

Amazzonia

Non si può ignorare che la crisi pandemica sia da questo punto di vista un banco di prova importante per l’idea emergente di democrazia o post-democrazia – per lo meno in relazione all’idea che lo stato di eccezione o di emergenza possa fluidificare la riorganizzazione della governance. La prospettiva anti-apocalittica e anti-complottista presentata come ragion pubblica rientra dunque pienamente in quel mitema apocalittico [nessuno può vendere o comprare al di fuori di un ordine numerico collettivo] che informa questa particolare versione della teologia politica binaria.

Vi è una sostanziale continuità di questa visione con il progetto della modernità coloniale: la promessa di un futuro radioso. Il linguaggio cambia:  al posto della bandiera c’è una piattaforma digitale ma il progetto di governance delle appartenenze e nella razionalizzazione dei consumi, non muta lo sguardo colonial-specista con cui l’umano legittima il suo potere di controllo.

Nessun bisogno di vedere in tutto questo un “complotto” piuttosto la logica inerente al tardo tecno-capitalismo, il tentativo di sopravvivere all’estinzione creando un nuovo millenario reich, una tecnosfera senza fratture o crepe basata sul riconoscimento biometrico applicato a tutto il vivente e destinato anche a tener fuori campo gli scarti e la polvere. Il fatto che l’algoritmo sia un’intelligenza binaria e superficiale lo rende ancor più pericoloso.

Di fatto la governance algoritmica si prefigura come “soluzione finale”, fine della storia, trionfo di un neo-progressismo del bene comune, che porrebbe fine a ogni conflitto e a ogni antagonismo (e non vi è nulla più radicalmente teologico-politico di una prospettiva che annuncia la fine della politica.)

E’ proprio questa teologia del controllo che tanti pensatori decoloniali hanno lavorato per decostruire in una prospettiva che non è né apocalittica né anti-apocalittica ma post-apocalittica. 

art by Vladimir Manyuhin

Trans-apocalisse: metamorfosi di un mitema

C’è una canzone di Bob Dylan “Blind Willie McTell” che descrive l’ethos sofferto dell’eredità schiavista nel sud razzializato degli Stati Uniti. In una prima versione il verso iniziale diceva «C’è una freccia sul montante della porta, dice che questa terra è condannata, da New Orleans a Gerusalemme» – Il riferimento al montante della porta ha radici ebraiche. Secondo la Torah l’angelo della morte vedendo sui montanti il sangue degli agnelli di quella che sarebbe diventata la Peshac – la Pasqua ebraica che celebra la fuga dall’Egitto– risparmiò il popolo eletto sterminando invece i primogeniti degli egiziani. Inoltre segnare le porte è sempre stato anche un modo di indicare segretamente i nemici da far fuori. 

La condanna – nella canzone – è inclusiva – il segno della condanna non risparmia più nessuno da New Orleans a Gerusalemme. Nelle versioni successive il verso viene però modificato così “da New Orleans alla Nuova Gerusalemme» – non riuscivo bene a capire il senso di questa seconda versione dylaniana che sembrava includere nella condanna dell’esclusione razziale persino la Città Celeste dell’Apocalisse!  

Fino a quando non ho letto “Queste terre selvagge di là dagli steccati» del filosofo e poeta postumanista nigeriano Bayo Akomolafe che descrive ironicamente l’opulenta città doro che scende sulla terra con tutti i suoi edifici di vetro trasparente, di diaspro circondata da altissime mura – esattamente centoquarantaquattro cubiti – numeri simbolici finché si vuole ma anche possibile immagine di “un dispositivo di controllo dell’immigrazione elevato alla potenza dell’infinito”  in cui solo gli eletti possono entrare!

La reazione alle persecuzioni e l’immagine stessa del ferreo dominio romano evocava probabilmente per certi versi già nella visione apocalittica una politica dell’identità reattiva; un’idea di riparazione escludente e di scissione definitiva e tra i degni e gli indegni. 

Eppure nella stessa Apocalisse vi sono tracce di una successiva possibile visione di riparazione che nasce dal rapporto profondamente rinnovato con la natura vivente nel suo insieme. Nel centro della città celeste, di fianco al fiume della vita, cresce un albero da cui nascono dodici frutti diversi, un albero arcobaleno, per così dire, e le foglie di questo albero servono per la “guarigione die popoli” [altrove tradotto con guarigione delle (o dalle?) nazioni].

Quello che sto provando a dire è che essere post-apocalittici non significa negare l’apocalalisse, le sue paure, i suoi mitemi di controllo sociale o di ribellione di una marginalità sacrificale ed elitaria. Non si tratta di negare  il dsiastro e le rovine – per certi versi l’Apocalisse è ongoing da sempre, in ogni atto di dominio, abuso, distruzione, genocidio, ingiustiza, razializzazione, riduzione in schiavitù e colonizzazione. Per riparare occorre fermarsi, scriveva Walter Benjamin, perché lo storico dovrebbe essere un profeta rivolto al passato che rifugge la tentazione ideologica di fuga verso un luminoso futuro ideale che spesso i monoteismi descrivono come soluzione finale a venire. In tal caso la Nuova Gerusalemme è già condannata.

AFTER 2089 by miguel membreño, El Salvador

[1] C. Ginzburg – Storia notturna, Adelphi, Milano, 2017, p.27

[2] Cfr. Patrice Maniglier Tout ce que vous avez voulu savoir sur Bruno Latour sans jamais oser le demander au SARS-CoV-2 – un moment latourien  su AOC on line

[3]  Cfr l’intervista a  Alessandro Mangia ordinario di diritto costituzionale nell’Università Cattolica di Milano https://www.ilsussidiario.net/news/obbligo-vaccinale-e-green-pass-moro-contro-draghi-leuropa-sta-con-lex-dc/2205455/amp/%5D

[4] Si veda per esempio in Apocalisse 13  “Le fu anche concesso di animare la statua [Imago] della bestia sicché quella statua perfino parlasse e potesse far mettere a morte tutti coloro che non adorassero la statua della bestia.  Faceva sì che tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi ricevessero un marchio sulla mano destra e sulla fronte; e che nessuno potesse comprare o vendere senza avere tale marchio, cioè il nome della bestia o il numero del suo nome.” [Bestia in ebraico è Behemoth che Schmitt interpreta come il caos anarchico da cui lo Stato Leviatano dovrebbe difenderci ma che l’Apocalisse sembra descrivere come un dispositivo economico mediatico di controllo globale generatore di funeste scissioni socio-politico-religiose, che già si annunciavano delle politiche della forza e del dominio della Roma impoeriale. Anche se l’interpretazione letterale e fondamentalista di questo testo può dar vita alle più deliranti identificazioni come nel caso di Qanon e dei fondamentalisti delle destre cristiane esso evidenzia un potente sedimento nel nostro inconscio culturale  La sua stessa forclusione alimenta il desiderio che la profezia si autoavveri e probabilmente evidenzia una crescente angoscia di estinzione che sarebbe pericoloso per l’integrità della coscienza ignorare. 

[5] Gilles Deleuze  già anni fa scriveva: “Stiamo preparandoci a un regime, a una ‘intesa mondiale per la sicurezza’ alla gestione di una ‘pace’ fondata sulle paure, le angosce, le frustrazioni di tutti noi, individui ansiosi di soffocare ogni dubbio, ogni interrogazione, ogni pensiero critico”.

[7] Si veda per esempio l’intervista a Benjamin Bratton direttore del progetto Terraforming  per lo Strelka Instituite di Mosca finanziato dall’oligarca russo Alexander Mamut: https://palladiummag.com/2021/01/11/benjamin-h-bratton-on-terraforming-the-world-order/

[8] Eshu, dal berretto multicolore che tiene insieme gli opposti, nero e rosso (o nero e bianco). Un racconto spiega come Eshu sul suo cavallo passa davanti alle fattorie di due contadini che si erano promessi amicizia eterna ma cominciano a discutere del colore del suo cappello, così come viene percepito dal loro vertice di osservazione e iniziano a litigare furiosamente . Eshu torna e spiega chei entrambi avevano ragione ed entrambi avevano torto. E li esorta a diffidare di voti eterni che non tengano in considerazione Eshu il dio che ama le provocazioni, specialmente quelle che aprono alla complessità ineffabile del reale. (Cosentino 262).

[9] Questa sembra una versione tecnocratica dell’idea Schmittiana di Großraum “grande spazio terrestre” “sovranità estesa” [che per altro era ispirata anche alla dottrina americana di Monroe sulle ‘sfere di influenza’] e che si confuse per parecchio tempo con l’analogo concetto nazista di un “necessario spazio vitale di espansione.” Del resto dopo la “Notte dei lunghi coltelli” Schmitt plaudiva alla creazione del diritto grazie a quello che definiva  un “atto sovrano”, quando un Führer « nell’istante del pericolo in virtù della sua dittatura, crea immediatamente diritto in quanto giudice supremo[9]». Come è noto la cartina di tornasole della sovranità è secondo Schmitt proprio quella di poter sospendere i diritti e proclamare uno stato di eccezione. 

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