Lavorio del lutto e Ethos della Terra

Una paziente che si sta iscrivendo a un master in death studies mi racconta un sogno (e mi accorda il permesso di raccontarlo)-

“sto andando a iscrivermi al primo anno di università…il luogo è immenso come se connettesse due atenei diversi… mi accolgono delle bidelle vestite di blu molto gentili… nessun accademico in vista – una delle bidelle mi accompagna – c’è un lunghissimo corridoio e una sorta di situazione notturna circense-punk un po’ dark nelle varie aule che si aprono – poi  è di nuovo giorno e la bidella vuole che mi metta una tuta per l’esercitazione introduttiva nel prato –  solo in questo momento mi rendo conto che in realtà nel sogno mi sto iscrivendo al mio corso in death studies. L’esercitazione consiste nel tagliare l’erba e mi chiedo se sia l’erba di un camposanto….

Poi il sogno passa all’esercitazione successiva che va fatta con i delfini (associazione – quando muore un piccolo delfino le madri li spingono verso la superficie – non si è ancora capito se per tentare di rianimarli o come forma già rituale di lutto). Nel sogno i delfini prendono dei bambini piccoli (di 14 mesi) e prima li impastano di argilla lasciando fuori solo bocca e occhi – perché seccando grazie all’argilla che ingrigisce i bambini assumono l’aspetto di piccoli delfini –  Dopo averli buttati in acqua i delfini li spingono verso l’alto forse in una simulazione del lutto).”

Non aggiungo molto e lascio a ognuno le sue risonanze. Mi limito a sottolineare l’intreccio nel viaggio di formazione che include le subalternità amiche (le bidelle), lo show queer notturno, il taglio del prato e soprattutto la scena finale. Il tutto nel contesto di un tema che tocca il lutto ma anche la continuità e l’intreccio di vitamorte in una dimensione che mi sembra emerga da un inconscio quasi “prospettivista”

Di questa ultima scena sottolineo solo quanto significativa sia la prospettiva dei delfini, l’idea di un loro punto di vista e di una loro performatività, così come l’inconscio della sognatrice lo propone – il loro accomunare rivestendo di argilla i cuccioli d’uomo per sottolineare l’analogia con i cuccioli di delfino nel rituale del lutto. Entrambi terreni, con un’argilla che accomuna. In ebraico il primo uomo Adam, l’umano, creato dalla terra “a immagine e somioglianza del divino”(!) deriva dalla parola femminile “Adamah” che significa argilla rossa o argilla di sangue…

A me sembra molto significativo che in un corso onirico sulla morte e quindi sul lutto l’accento si sposti sull’insieme del vivente, sulla sua comune origine terricola, chtulucenica – come se l’ethos oggi emergente, la sensibilità affettiva condivisa che porta all’azione, co-generasse l’ethos della terra, dentro e a prescindere dalle differenze nelle prospettive e nelle lotte per il riconoscimento e l’identità…

Ho sentito recentemente parti di un webinar con Rosi Braidotti – che ora è stato tolto dall’etere (e anche questa mi sembra una scelta interessante – che sottolinea, in un’epoca di riciclo continuo di immagini pixellate, l’importanza e la possibilità della presenza anche di quella virtuale). Braidotti citava Viveiros de Castro e De Scola sottolineando che pur non essendo nelle sue corde anche la prospettiva post-secolare  emergente – specialmente nelle culture della resistenza indigena e nell’intreccio vitale dell’entanglement animista – è un aspetto che va ascoltato nella costruzione di una prospettiva di alleanza radicale includent, decoloniale e senza pretesa di “sintesi”.  

Parlando di etica affermativa aggiungeva che una delle parole in voga che iniziano ad andar strette è “vulnerabilità”, una parola che può facilmente diventare materia retorica per quelle tante “fragilità” che alimentano i discorsi populisti,  razzisti e sessisti.  Si tratta invece di fermarsi di ascoltare e imparare dal dolore e dal lutto, di coglierne la portata e il potenziale trasformativo e relazionale.

questo proposito segnalo un link a un articolo molto interessante https://atmos.earth/rest-resistance-colonization-black-liberation/?mc_cid=305a498737&mc_eid=b40fae9603&fbclid=IwAR3C_V2zja6ruWWYriMypTdDjmdFH_9JGQl3dBgVGagwe4KrFsndkDyBma8

L’articolo in questione segnala come le dinamiche performative del capitalismo tolgano insieme al riposo uno spazio onirico e immaginativo cruciale per i processi di decolonizzazione

Aggiungo che una psicologia decente ha imparato a diffidare dall’estrattivismo, anche da quello psicologico. Ciò che agisce lo fa nell’intreccio delle relazioni e delle prospettive. La psiche non è “dentro” e non è “dentro” che va curata ma “tra”…

Se la capacità di attraversare consapevolmente i lutti  è la premessa per acquisire questa qualità relazionale, forse solo da un lutto post-umanista può nascere un ethos della terra… e per post umanista non si intende la negazione dell’umano ma la ridefinizione di un concetto del tutto insufficiente nella sua declinazione storica.

Oggi ho visto Nomadland e a me è sembrato il riconoscimento emergente – persino nel mainstream cinematografico – che la comprensione di ciò che accade nel mondo non possa che nascere dalle crepe, dalle fratture, dalla vita ai margini, dentro e malgrado le rovine del capitalismo. Sarà che ho sempre pensato (e sperimentato) che “per un’anima affamata anche un’erba amara è dolce”, e che l’immaginazione affettiva trova di che nutrirsi,  anche se il capitalismo poi tenta di “sussumere”, di trasformare tutto in merce, ethos della Terra, nomadlanyd, prospettivismoallo stesso tempo la sua logica intrinseca non fa che moltiplicare le crepe. Dentro e fuori.  E non c’è algoritmo che tenga….