Venezia all’alba

W. Turner Campo Santo Venezia 1874

Oggi ho improvvisamente ricordato il testo teatrale incompiuto di Simone Weil “Venezia salva” – in cui Javier salva la città non per un tornaconto, ma perché, per la prima volta, la vede veramente nella sua bellezza e capisce che, come tutte le cose belle, non va distrutta ma preservata. Alla irrealtà velenosa della “forza” come motore di ogni cosa, che era il mantra nazista, Weil contrappone quella forma di attenzione e percezione delle cose che ha la sua radice nella mortalità. La mortalità come consapevolezza estrema e necessaria ad ogni generatività –che nutre l’attenzione alla bellezza di ciò che esiste nella contemplazione della transitorietà che genera l’amore e la cura. Quello che Weil/Violetta vede al sorgere del sole su Venezia si applica oggi al nostro rapporto con la trama indivisibile del vivente e del pianeta tutto. Oggi più che mai quando la catastrofe ecologica globale si allinea con la possibilità inedita nella storia della possibile distruzione atomica di ogni vita. E forse è proprio la rimozione costante della mortalità che alimenta la “normale malattia” paranoide della condizione umana e chiede un mutamento radicale dello sguardo.

Giorno che sorgi puro, sorridere sospeso sulla città d’un tratto e i suoi mille canali,

Quanto agli umani che accolgono la tua pace vedere il giorno è soave!

Il sonno mai mi aveva colmato
Come stanotte e dissetato il cuore.
Ma il giorno dolce ai miei occhi è venuto, Dolce più del mio sonno!

Ecco, il richiamo del giorno tanto atteso tocca la città tra le acque e la pietra.

Un fremito nell’aria ancora muta
Sorge per ogni dove.

Vieni e vedi, città, la tua gioia ti attende, Sposa dei mari, vedi, lontano e più vicino, tanti flutti rigonfi di sussurri felici

Benedirti al risveglio.

Non trovo il teso nella libreria allora apro a caso un altro testo di Weil: “Non ricominciamo la guerra di Troia” e leggo:

“In ogni ambito sembriamo aver perduto le nozioni essenziali dell’intelletto, quelle di limite, misura, grado, popolazione, relazione, rapporto, condizione, legame necessario, connessione tra mezzi risultati. Per limitarci alle questioni umane, il nostro universo politico è popolato esclusivamente da miti e mostri. Conosciamo solo entità, assoluti, come dimostrano tutti i termini del vocabolario politico e sociale. Nazione, sicurezza, capitalismo, comunismo, fascismo, ordine, autorità, proprietà, democrazie: potremmo citarli tutti, uno dopo l’altro. Non lli inseriamo mai in formule come: “c’è democrazia nella misura in cui…” O “C’è capitalismo a condizione che…”. L’uso di espressioni come “nella misura in cui” va al di là delle nostre facoltà intellettive. Ognuna di queste parole sembra rappresentare una realtà assoluta, indipendente da qualsivoglia condizione, oppure un fine assoluto, indipendente da qualsivoglia modo d’azione, o ancora un male assoluto; E allo stesso tempo sotto ognuna di queste parole noi mettiamo a turno, o anche simultaneamente, qualsiasi cosa. Viviamo in mezzo a realtà cangianti, varie, determinate dal gioco mobile delle necessità esterne, che si trasformano a seconda delle condizioni ed entro certi limiti; ma agiamo, lottiamo, sacrifichiamo noi stessi e gli altri in virtù di astrazioni cristallizzate, isolate, impossibili da mettere in rapporto tra loro o con le cose concrete. La nostra epoca sedicente tecnica non fa che lottare contro i mulini a vento. Basta guardarsi intorno per trovare esempi di assurdità criminali. Il caso più emblematico è quello degli antagonismi tra nazioni. Spesso pensiamo di spiegarli dicendo che nascondono semplicemente degli antagonismi capitalistici; ma dimentichiamo un fatto lampante, ovvero che la rete di rivalità, complessità, di lotte, alleanze capitalistiche esistenti a livello mondiale non corrisponde affatto alla divisione del mondo in nazioni. (…) considerata la circolazione internazionale il capitale, non si capisce richiamo capitalista dovrebbe essere interessato alla protezione del proprio stato più che a quella di uno Stato straniero(…) l’interesse nazionale non può definirsi attraverso l’interesse comune delle grandi imprese industriali, commerciali o bancarie di un paese, poiché quest’interesse comune non esiste, né attraverso la vita, la libertà e il benessere dei cittadini poiché non si fa altro che implorare questi ultimi a sacrificare il loro benessere, la loro libertà e la loro vita per l’interesse nazionale. In fin dei conti, se si esamina la storia moderna, si arriva alla conclusione che per ogni Stato interesse nazionale è la capacità stessa di fare la guerra… (…) ciò che un paese chiama interesse economico vitale non è ciò che consente i suoi cittadini di vivere bensì ciò che permette al paese di fare la guerra; Il petrolio è ben più adatto a innescare conflitti internazionali rispetto al grano. In definitiva si fa la guerra per preservare la crescita dei mezzi per fare la guerra. Tutta la politica internazionale gira intorno a questo circolo vizioso. Il cosiddetto prestigio nazionale consiste nell’agire in modo da dare sempre agli altri paesi impressione di essere sicuri di sconfiggerli, in modo da scoraggiare. La cosiddetta sicurezza nazionale è uno stato di cose illusorio in cui si conserva la possibilità di fare la guerra privandone tutti gli altri paesi. In fondo una nazione che si rispetti è pronta tutto compresa la guerra, pur di non rinunciare a fare la guerra se necessario. Ma perché bisogna poter fare la guerra? Non si sa, non più di quanto i Troiani sapessero perché dovevano tenere prigioniera Elena… Ma quando gli interessi economici politici hanno senso solo in vista della guerra come è possibile conciliarli in maniera pacifica? Bisognerebbe sopprimere il concetto stesso di nazione. O piuttosto l’uso di questo termine, dal momento che la parola nazionale e le espressioni che la contengono sono prive di significato hanno come unico contenuto milioni di cadaveri, orfani, mutilati, disperazione e lacrime.”

Uno spettro si aggira per la Terra

Edo Ferrini

Edo Ferrini


Uno spettro si aggira tra i risentiti e gli esclusi della Globalizzazione. Marx sotto mentite spoglie? Una rivendicazione postcoloniale? Un nuovo sciame di “vite di scarto” (come diceva Zygmunt Bauman)?

Anche ma non solo –  perché secondo la riflessione di Fabrice Dubosc portata avanti in Sognare la terra. Il troll nell’ Antropocene (in uscita da Exòrma a fine maggio 2020) – il confine tra  rivendicazione e risentimento è esile e sovente trasforma il diritto alla critica in odio gratuito.  L’energia dello  spettro anima hater e  troll, emblemi di un nichilismo piccino, nella sua odierna forma digitalizzata che si manifesta nei blog, nelle chat, nei dibattiti televisivi.

L’autore traccia un percorso che intreccia la coscienza sociale di matrice decoloniale (con riferimenti a Fanon e Mbembe) con i temi legati alle “ecologie degli altri” (efficace il ricorso all’epistemologia amerindiana  per cui le “foreste pensano”).

Percorso complesso ma ricco di tracce che invitano a seguirlo, percorso reso ancora più urgente alla luce del recente Covid-19 che cortocircuita la “vicinanza” globale mentre evidenzia il conflitto tra uomo predatore e ambiente, tale da rendere l’animale selvatico “untore originario”.

Come ogni riflessione rilevante il testo di Dubosc, moltiplica le prospettive, ha a cuore le domande  più che le ricette pronte. L’antidoto al facile odio del troll passa per un lavorio sotterraneo di consapevolezza dell’ingiustizia e dei privilegi insiti nei rapporti di dominio ma da percepire in quanto tali, prima ancora di rivendicare la loro evacuazione in una simmetrica logica di esclusione.

La parte centrale del testo mette a fuoco l’importanza del discorso sulla vulnerabilità,  collegando le riflessioni sulla non violenza di Judith Butler come antidoto alla rabbia che ogni lutto genera, con quelle sulla partecipazione attiva alla costruzione del mondo di Simone Weil.  

La riflessione di Fabrice Dubosc delinea un’alternativa a un tempo politica e “clinica” (di cura e attenzione) che appare lontana dalla vis distruttrice che soventa anima la critica fine a sé stessa.

Il Troll  nelle fiabe e nelle raffigurazioni antiche è un mostro di aspetto sgradevole, oltretutto non molto intelligente, è una macchina da guerra abbastanza incapace di colpi di scena, a differenza di altre creature mostruose più intelligenti e ammirabili quali draghi, o goblin, mostruosi ma non stupidi. Ciò che il troll mostra di sé è per esempio la parolaccia o l’offesa gratuita e reiterata. Il troll è un uomo contro o contrario, un pesce fuor d’acqua che confonde la rivendicazione sociale con il bisogno di identificare un nemico da combattere. A volte diventa un trickster, un troll intelligente o sofisticato, ma pur sempre un fondamentalista dell’individualismo.

Il messaggio più importante nel testo di Fabrice Dubosc sulle conseguenze dell’ odio e del risentimento individuale e collettivo dell’era comunemente definita Antropocene, è che nella società non esistono fenomeni innocenti o superficiali solo perché agiti dalla stupidità. Sarebbe troppo facile analizzare i cambiamenti sociali tramite l’alta letteratura, tralasciando il linguaggio dell’ignoranza. Anche perché il populismo è l’apoteosi del linguaggio ignorante. Il troll infatti non è solo una porcheria digitale, nasconde  sentimenti come l’autoghettizzazione, il vittimismo, e la paura per le utopie. Colpisce poi la contrapposizione tra il trionfo dell’uomo nella terminologia Antropocene, e l’emergere della bruttezza disumana o sovrumana del troll. L’ambiente deturpato come nel caso della foresta amazzonica mette l’uomo di fronte allo spettro del troll che probabilmente in origine era emblema di una connessione possibile tra noto e ignoto, visibile e invisibile.

Il problema dell’hater però è che non conosce la soglia che separa le ingiustizie subite e quelle temute. E soprattutto, il suo e nostro problema, è che parla anche a nome nostro. Da questo punto di vista lo spettro del troll sopravvive pienamente nei populismi assimilando nel risentimento contestatori e conservatori dello status quo. 

Occorre essere più precisi ed esplicitare nel concreto quali sono le dimensioni sociali e addirittura filosofiche del mostro contestatore. In primo luogo il risentimento, un tema molto caro a Nietzsche secondo il quale il risentito è una persona che rinuncia alla propria volontà di potenza, sottomettendosi ad un potere, che rappresenta come  giusto, per non ammettere di essere debole sottomettendosi ad esso. Ma cosa succede se il risentito e il risentimento si svegliano dal torpore? E poi, e in questo Dubosc traccia un percorso preciso ed affidabile, perché oggi assistiamo a così tanto risentimento? Forse perché siamo passati per tante riforme sociali, utopie riformatrici e rigeneratrici che non hanno saputo nascondere le disuguaglianze che promettevano di indebolire o eliminare.

Basti pensare ai miliardari di Internet che si sono arricchiti fuori misura  usando una base teoricamente del tutto aperta e democratica, il web. Oppure basta pensare al rapporto molto stretto tra progresso tecnologico e distruzione dell’ambiente (il vero e proprio germe dell’Antropocene), o ad un modello di integrazione basato sull’omologazione del consumismo e sul successo economico nella società.

Non si può negare che il risentimento abbia valide ragioni, il problema è che diventando fine a se stesso, la rivendicazione rischia di trasformarsi in qualunquismo e in esibizionismo.  Per i troll le riforme nascondono complotti, ingiustizie pronte ad esplodere, tali da rendere le idee di rigenerazione rinnovamento, utopie da temere, perché da un giorno all’altro potrebbero diventare distopie e nuove disillusioni.

Il troll sostiene che non si può costruire un’etica, e che siamo tutti vittime. L’ambiente diventa allora una costrizione alla co-abitazione forzata,  nella visione distopica della globalizzazione. Ma Dubosc è attento a farlo notare, invocando addirittura gli sciamani Yanomami:  l’ambiente non è uno spazio delimitato dai conflitti, è il luogo dove l’equilibrio si rinnova per tutti i viventi malgrado e grazie ai conflitti. 

Edo Ferrini insegna storia e filosofia in un liceo. A breve uscirà il suo “Il Falso Specchio. La crisi del reale nel cinema” (Sentieri Selvaggi – Go Ware)