Come in uno specchio oscuro

Riflessioni sull’inconscio pandemico

Fabrice Olivier Dubosc

La distanza non è una misura ma un ritmo

D.G. 

Vorrei esplorare la logica simbolica e discorsiva che sottende le prese di posizioni a favore e contro vaccino e green pass e evidenziare il riferimento costante alla teologia politica – in particolare nell’intreccio di posizionamenti, immagini, incorporati culturali, archetipi immaginativi, credenze nelle loro variazioni e inversioni – dimensioni che sottendono non solo i riferimenti apocalittici sul versante “complottista” ma che informano anche la derisione di ogni prospettiva critica da parte del campo piùacceso di quella che potremmo definire “governance anti-apocalittica.”  

Soprattutto, in questa scissione a tratti virulenta, svanisce la percezione di una grande occasione nel prendere atto del disastro della modernità capitalista, generato da una modalità di vivere, produrre, consumare. Per un tempo, durante il primo lock down, a molti era parso possibile che l’improvviso totale stop ci obbligasse a immaginare un rinnovamento profondo delle modalità di produzione, relazione, pensiero del bene e dei beni comuni. A volte parrebbe che la travolgente questione vaccinale abbia preso il sopravvento su ogni altra riflessione.

La situazione attuale di fatto mi ricorda un po’ quello che dice Carlo Ginzburg in Storia Notturna, il suo saggio seminale sul ripetersi storico della caccia ai supposti mostruosi untori (di volta in volta lebbrosi, musulmani, ebrei, streghe)  a proposito delle «tremende potenzialità di purificazione sociale racchiuse nello schema del complotto: ogni complotto fantasmatico tende a generarne uno reale di segno contrario[1]». Nel caso della pandemia abbiamo a che fare con due fantasmi di complotto: quello che nell’emergenza sanitaria vede solo un vero e proprio esplicito progetto politico-mediatico-epidemiologico volto a creare un controllo totalitario e quello speculare che demonizza come complottista ogni possibile spunto critico, ogni istanza di soggettivazione, differenziazione, problematizzazione che aspiri a un dibattito ampio che colga la costellazione complessiva della crisi. 

Molti i titoli mediatici esemplari che tentano di alimentare il rapporto tra potere e consenso facendo appello alla credenza in una sorta di fobo-estrattivismo in cui la paura serve a alimentare la credenza. Non è il contenuto ma la tonalità affettiva a rivelare che molto spesso il nucleo della credenza nasce dall’urgenza di un “complesso”, dall’angoscia stessa che lo struttura in modo totalizzante. Leggevo spesso il blog di una giovane donna ricco di spunti e riflessioni critiche e poetiche – oggi ogni post è dedicato a una strenua difesa delle politiche vaccinali o a ripostare articoli contrari ad ogni sua problematizzazione.

È comprensibile che le politiche della governance pandemica ritengano di  dover alimentare una credenza nella scienza attraverso la propaganda anche se sembra a prima vista del tutto paradossale.  Si dà per scontato che il “senso comune” plebeo non abbia gli strumenti per reggere l’incertezza che la ricerca tecno-scientifica genera e aderire ugualmente alle sue prescrizioni.  Al di fuori della propaganda scientista, strutturalmente, il corpo scientifico non può parlare con una voce univoca dato che la scienza stessa conferma le sue ipotesi in un processo  dialettico graduale e complesso – non esente da bias e condizionamenti –  di validazione di ipotesi che per lungo tempo restano provvisorie.  La porta si spalanca proprio sulle controversie delle dichiarazioni dei ricercatori: le mascherine chirugiche sono efficaci o no? L’origine del virus è la zoonosi o il laboratorio di Wuhan? Il coprifuoco e il lockdown sono più o meno efficaci del vaccino? Meglio la cura a base di plasma autoimmune o quella con anticorpi monoclonali? I protocolli per gli studi sono stati pienamente rispettati? Sono ancora in corso? Sono stati sospesi? Un vaccino è stato raccomandato prima agli over poi agli under, in alcuni Paesi sospeso per principio di precauzione (e dopo la sospensione la Francia ha inviato centinaia di dosi ridondanti in Africa.) l’opinione pubblica scopre così che la scienza è un campo di battaglia e la risposta all’incertezza si sposta sul piano della credenza che rassicura.

Di fatto gli enunciati scientifici non rispondono a una logica binaria (vero/falso) e la scienza è lungi dall’essere un dispositivo meccanico, neutro,  imparziale di produzione della verità. Bruno Latour, antropologo e sociologo della scienza con le sue ricerche sul campo su come funzionano davvero i laboratori di ricerca ha dimostrato la rilevanza delle reti di mobilitazione di capitali e di alleanze strategiche che indirizzano la direzione di una ricerca. Il processo scientifico si definisce del resto a partire da controversie generative tra scienziati non estranee all’intreccio con altre controversie, con altri interessi. ideologici, politici, economici, etici, religiosei artistici : ha dunque senso parlare di interessi « puramente scientifici »? Una linea di demarcazione così netta è impossibile. E’ particolarmente forte il legame con l’ingegneria informatica e bisogna pur ricordre che simulare un processo non implica e neppure consente necessariamente di comporenderlo

Come scrive Patrice Maniglier[2]  «Le scienze costituiscono un regime di verità accanto ad altri regimi di verità.» Ogni prospettiva è animata da un’aspirazione al vero propria di quella prospettiva e la storia umana non può essere ridotta a un freddo rapporto di correlazioni numeriche ma deve includere la pluralità di prospettive con cui cerchiamo di dar senso al caos a partire dalla realtà biologica, psicologica, socio-economia, spirtuale e politica in cui siamo immersi e che struttura il nostro rapporto con la vita e la storia.

Art by Michal Karcz

La propaganda come risposta alla supposta povertà del senso comune

Ed è evidente che la percezione più o meno conscia di questa complessità, di queste controversie costitutive del processo scientifico aumenta l’incertezza e il bisogno di schierarsi, di far diventare certezze asdolute le ipotesi provvisorie, i tentativi, le biforcazioni e le smentite che il reale sempre genera obbligando la scienza a una revisione e rimessa a fuoco dei suoi paradigmi. Nella misura in cui la governance politica teme il calderone delle opinioni, su cui per altro essa stessa si appoggia per ottenere  consenso, trascura però completamente il desiderio nascosto, l’aspirazione alla giusto sentire che si cela anche nel profondo di ciò che chiamiamo senso comune e che forse è la base di qualsiasi possibilità evolutiva dei sistemi umani. 

Una certa idea di Stato e di bene comune – quando non anima visioni che nascono da riconoscimento – e dal lutto per ciò che è perdita e distruzione – non fa che perpetuare le rovine tornando a presentarsi come un baluardo vontro la Rovina –– come l’indispensabile Stato-Leviatano di Hobbes e Schmitt, baluardo conto l’anarchia e le più basse pulsioni distruttive dell’umano. Quante volte nella storia il monopolio statale della violenza è stato rivendicato in nome del bene comune!

L’idea stessa di “baluardo” contro il male è del resto intrisa di quella teologia politica che viene oggi ridicolizzata in nome di una supposta più evoluta “razionalità computazionale” volta a garantire “realisticamente i “salvati” di fronte alle possibili catastrofi e alle moltitudini di sommersi. Come altrimenti interpretare la esplicita dichiarazione del ministro italiano per la transizione [tecno-]ecologica Cingolani, che aggiunge ad altri nel dire: «il mondo è progettato per 3 miliardi di persone.»

La Costituzione e la “mala intesa tutela di interessi collettivi”

C’è una idea non retorica di cosa possa costituire la democrazia stessa se il “senso comune” implicito nel concetto di persona (che intreccia diritti individuali e collettivi) viene invalidato, ritenuto  incompetente nel, in quanto incapace di prendere decisioni sufficientemente informate sui processi in atto? 

Mi chiedo se non si arriverà a proporre la revisione dell’articolo 32 della costituzione, in particolare la frase che dice che il legislatore “non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana” – un rispetto che rimanda al famoso habeas corpus – “che tu abbia un corpo!” –– pietra miliare dei dispositivi giuridici volti a temperare l’arbitrio assoluto di dare la morte con giudizio sommario o senza giudizio alcuno da parte del sovrano. 

Se lo Stato mette in questione l’integrità corporea, cioé il diritto dei corpi di muoversi, imponendo di fatto la revisione di un principio giuridico fondamentale – senza per altro confrontarsi con il senso di ciò che la Costituzione voleva significare – questa non è cosa da poco, da far passare come scontata conseguenza di uno stato di emergenza. Il diritto (sinora extra-giuridico) dello Stato di spostare e segregare alcuni in nome della salute mette dunque in questione un principio giuridico in nome della pubblica utilità, ma senza entrare nel merito di cosa implichi questa revisione.  Non si immagina nemmeno che un discorso politico sul bene comune potrebbe strutturarsi su una diversa più ampia visione di ciò che ci costituisce.  La storia dell’articolo 32 è interessante. Alcuni medici dell’Assemblea Costituente  si erano rivolti ad Aldo Moro chiedendo di introdurre delle limitazioni al potere del legislatore di disporre trattamenti sanitari coattivi. [3]  Di fronte a una proposta che contemplava la possibilità di perseguire politiche eugenetiche di sterilizzazione (proposta dal deputato del PCI Umberto Nobile) la Costituente approvò la formulazione proposta da Moro e cioè che ikl legislatore “non può violare i limiti del rispetto della persona umana”. Era una norma di sbarramento, come precisò bene lo stesso Moro in Commissione, «per evitare che la legge per considerazioni di carattere generale e di mala intesa tutela di interessi collettivi disponga trattamenti del genere.»

Fermiamoci un momento sulla possibilità così evocata che sia possibile intendere malamente la difesa degli interessi collettivi. 

Dal piano istituzionale è la magistratura a nutrire qualche ldubbio sulla costituzionalità della limitazione della libertà di movimento e anche di variazione della distanza tra i corpi, (che è un “ritmo” relazionale necessario). Trovo sintomatico che destra e sinistra appaiono diversamente uniti da una visione condivisa: la necessità di non far deragliare una certa idea di gestione politico-sanitaria del virus (e dell’economia).. Il 14 agosto 2021 il “Giornale” titolava così in prima pagina “Golpe della magistratura contro il green pass” (a commento della presa di posizione sull’incostituzionalità del Green Pass da parte di Magistratura Democratica). L’idea di una cittadinanza biologica si accompagna a quella di una governance epidemiologica permanente che mette in discussione i fondamenti giuridici e psicologici su cui ci siamo formati. L’enfasi crescente su localizzazione e tracciamento tolgono diversamente il respiro in forme che ridefiniscono in modo radicale la nostra quotidianità relazionale con un serio impatto psicologico e progettuale soprattutto sulle nuove generazioni che già faticano a immaginare orizzonti di sostenibilità immaginativa.

Teologia politica

Sto tentando di suggerire che apocalittici e anti-apocalittici appartengono psicologicamente alla medesima costellazione. Nuotano nelle stesse acque. Anzi, il fatto che alcuni degli attacchi più virulenti suscitati dalle posizioni di Agamben vengano ora estesi alle scienze umane nel loro insieme, al pensiero critico, alla filosofia giuridica sembra indicare che almeno alcune delle sue “sparate” hanno forse colto nel segno, se non altro di un mitema (apocalittico) comune al nostro inconscio culturale, e che la tecno-teologia politica continua ad animare. 

Le categorie della teologia politica sono per altro molteplici: sovranità, ordine gerarchico, una dialettica della storia votata al progresso, il sole radioso dell’avvenire, ma anche l’irruzione di un’alterità che rovescia le carte in tavola. Tutte queste sfere ideali e concettuali sarebbero radicate nei mitemi della nostra tradizione religiosa di una soluzione/redenzione a venire, come pure  l’idea di un risolutivo controllo mondiale dei processi sociali ed economici.[4]

Se è vero che i tentativi di descrivere una continuità assoluta tra un sistema di diritti liberaldemocratici e un regime totalitario restano problematici, bisogna pur ricordare la coerenza con cui Agamben da anni esplora le forme in cui le democrazie moderne con le loro politiche concentrazionarie ridefiniscono in forma meno cruda (almeno per chi non le subisce!) le pratiche escludenti del nazismo[5]

Alcuni sogni raccolti all’inizio della pandemia testimoniano del resto un radicale timore della ripetizione––su un’ ottava diversa––di una persecuzione escludente e totalitaria. La dimensione onirica tenta sovente di risvegliarci alle costellazioni traumatiche della storia che continuano a interpellarci nelle eredità che si celano nelle architetture sociali contemporanee [6]. Qualche forma di apocalisse non ha mai messo di aver luogo. In una recente raccolta americana di sogni sulla pandemia un sognatore racconta:

«Eravamo obbligati a lasciare le nostre case e sapevamo che il COVID era un’arma biologica che volta a creare una dittatura. Gruppi di persone si muovevano per le strade e venivano obbligati a entrare in grandi edifici. I gruppi ammassati sembravano rifugiati in riga – come ebrei diretti ai campi di concentramento.»

La teologia politica degli “anti-apocalittici.”

Chi attacca il complottismo apocalittico lo fa sovente a partire da una idea di digitalizzazione della natura come forma di razionalizzazione estrema necessaria alla governance biotecnologica di un nuovo ordine mondiale emergente. Un ordine che contempla esplicitamente l’“intervento governativo artificiale sulla condizione biologicadella società umana” come dice testualmente Benjamin Bratton, autore di un “Agamben WTF” cioè “Agamben che c…. dici” che è circolato nei social come risposta alla lettera di Agamben e Cacciari. [7]

In gioco dunque è proprio lo statuto del corpo biologico e insieme ad esso quello del corpo immaginale/relazionale che costituisce uno dei fondamenti del desiderio.

Bratton, per esempio  sostiene apertamente una visione epidemiologica della società come baluardo della ragione pubblica. La cosa più interessante (e inquietante) è che lo fa appelandosi alla  visione cyborg transumanista, in una visione mainstream di come intendere il non-binario del tutto funzionale al suo esplicito progetto biopolitico di “razionalità computazionale”.

Vediamo qui in nuce due forme emergenti di pensiero post-binario 

1 Il pluralismo ontologico post-umanista o new materialism o prospettivismo–– che presuppone «la moltiplicazione dei punti di vista,» quella ricombinazione cromatica generativa che implica l’agentività di ogni prospettiva e che viene espressa per esempio nella tradizione iniziatica Yoruba dalle gesta di trickster di Exu/Legba, il dio dei crocevia.[8]

2. Il post-dualismo cosiddetto transumanista che sembra invece risolversi nell’ennesimo elogio del Leviatano – l’unica analogia con la materialità del mondo (di cui per altro si nega la performatività o la si riduce sempre a qualcosa da controllare/sfruttare) è la materialità dello Stato o quella delle risorse cognitivo-computazionali – dal silicio ai biocomputer futuri – che la tecnoscienza può offrire.

Qui non posso non ricordare le considerazioni di Amitav Gosh ne la Grande Cecità sulla consapevolezza istituzionale del futuro impatto della crisi climatica come qualcosa di intrinsecamente incontrollabile a partire dalle logiche di produzione e organizzazione sociale capitalista. Che ci sia qualcosa di vero nell’idea logica e coerente di un piano B, un piano in grado di costruire una tecnosfera chiusa di sostenibilità per i “salvati” perché si considera ineluttabile il destino di sommersi, banditi, esclusi – insomma dei non cittadini, di chi meno degno di una supposta “buona vita” o escluso da essa per nascita o disgrazia, resta fuori dalle alte mura della Nuova tecno-Gersulamme? Molte delle derive istituzionali post-pandemiche e degli attacchi diretti o indiretti all’habeas corpus sembrano andare in questa direzione[9].

Amazzonia

Non si può ignorare che la crisi pandemica sia da questo punto di vista un banco di prova importante per l’idea emergente di democrazia o post-democrazia – per lo meno in relazione all’idea che lo stato di eccezione o di emergenza possa fluidificare la riorganizzazione della governance. La prospettiva anti-apocalittica e anti-complottista presentata come ragion pubblica rientra dunque pienamente in quel mitema apocalittico [nessuno può vendere o comprare al di fuori di un ordine numerico collettivo] che informa questa particolare versione della teologia politica binaria.

Vi è una sostanziale continuità di questa visione con il progetto della modernità coloniale: la promessa di un futuro radioso. Il linguaggio cambia:  al posto della bandiera c’è una piattaforma digitale ma il progetto di governance delle appartenenze e nella razionalizzazione dei consumi, non muta lo sguardo colonial-specista con cui l’umano legittima il suo potere di controllo.

Nessun bisogno di vedere in tutto questo un “complotto” piuttosto la logica inerente al tardo tecno-capitalismo, il tentativo di sopravvivere all’estinzione creando un nuovo millenario reich, una tecnosfera senza fratture o crepe basata sul riconoscimento biometrico applicato a tutto il vivente e destinato anche a tener fuori campo gli scarti e la polvere. Il fatto che l’algoritmo sia un’intelligenza binaria e superficiale lo rende ancor più pericoloso.

Di fatto la governance algoritmica si prefigura come “soluzione finale”, fine della storia, trionfo di un neo-progressismo del bene comune, che porrebbe fine a ogni conflitto e a ogni antagonismo (e non vi è nulla più radicalmente teologico-politico di una prospettiva che annuncia la fine della politica.)

E’ proprio questa teologia del controllo che tanti pensatori decoloniali hanno lavorato per decostruire in una prospettiva che non è né apocalittica né anti-apocalittica ma post-apocalittica. 

art by Vladimir Manyuhin

Trans-apocalisse: metamorfosi di un mitema

C’è una canzone di Bob Dylan “Blind Willie McTell” che descrive l’ethos sofferto dell’eredità schiavista nel sud razzializato degli Stati Uniti. In una prima versione il verso iniziale diceva «C’è una freccia sul montante della porta, dice che questa terra è condannata, da New Orleans a Gerusalemme» – Il riferimento al montante della porta ha radici ebraiche. Secondo la Torah l’angelo della morte vedendo sui montanti il sangue degli agnelli di quella che sarebbe diventata la Peshac – la Pasqua ebraica che celebra la fuga dall’Egitto– risparmiò il popolo eletto sterminando invece i primogeniti degli egiziani. Inoltre segnare le porte è sempre stato anche un modo di indicare segretamente i nemici da far fuori. 

La condanna – nella canzone – è inclusiva – il segno della condanna non risparmia più nessuno da New Orleans a Gerusalemme. Nelle versioni successive il verso viene però modificato così “da New Orleans alla Nuova Gerusalemme» – non riuscivo bene a capire il senso di questa seconda versione dylaniana che sembrava includere nella condanna dell’esclusione razziale persino la Città Celeste dell’Apocalisse!  

Fino a quando non ho letto “Queste terre selvagge di là dagli steccati» del filosofo e poeta postumanista nigeriano Bayo Akomolafe che descrive ironicamente l’opulenta città doro che scende sulla terra con tutti i suoi edifici di vetro trasparente, di diaspro circondata da altissime mura – esattamente centoquarantaquattro cubiti – numeri simbolici finché si vuole ma anche possibile immagine di “un dispositivo di controllo dell’immigrazione elevato alla potenza dell’infinito”  in cui solo gli eletti possono entrare!

La reazione alle persecuzioni e l’immagine stessa del ferreo dominio romano evocava probabilmente per certi versi già nella visione apocalittica una politica dell’identità reattiva; un’idea di riparazione escludente e di scissione definitiva e tra i degni e gli indegni. 

Eppure nella stessa Apocalisse vi sono tracce di una successiva possibile visione di riparazione che nasce dal rapporto profondamente rinnovato con la natura vivente nel suo insieme. Nel centro della città celeste, di fianco al fiume della vita, cresce un albero da cui nascono dodici frutti diversi, un albero arcobaleno, per così dire, e le foglie di questo albero servono per la “guarigione die popoli” [altrove tradotto con guarigione delle (o dalle?) nazioni].

Quello che sto provando a dire è che essere post-apocalittici non significa negare l’apocalalisse, le sue paure, i suoi mitemi di controllo sociale o di ribellione di una marginalità sacrificale ed elitaria. Non si tratta di negare  il dsiastro e le rovine – per certi versi l’Apocalisse è ongoing da sempre, in ogni atto di dominio, abuso, distruzione, genocidio, ingiustiza, razializzazione, riduzione in schiavitù e colonizzazione. Per riparare occorre fermarsi, scriveva Walter Benjamin, perché lo storico dovrebbe essere un profeta rivolto al passato che rifugge la tentazione ideologica di fuga verso un luminoso futuro ideale che spesso i monoteismi descrivono come soluzione finale a venire. In tal caso la Nuova Gerusalemme è già condannata.

AFTER 2089 by miguel membreño, El Salvador

[1] C. Ginzburg – Storia notturna, Adelphi, Milano, 2017, p.27

[2] Cfr. Patrice Maniglier Tout ce que vous avez voulu savoir sur Bruno Latour sans jamais oser le demander au SARS-CoV-2 – un moment latourien  su AOC on line

[3]  Cfr l’intervista a  Alessandro Mangia ordinario di diritto costituzionale nell’Università Cattolica di Milano https://www.ilsussidiario.net/news/obbligo-vaccinale-e-green-pass-moro-contro-draghi-leuropa-sta-con-lex-dc/2205455/amp/%5D

[4] Si veda per esempio in Apocalisse 13  “Le fu anche concesso di animare la statua [Imago] della bestia sicché quella statua perfino parlasse e potesse far mettere a morte tutti coloro che non adorassero la statua della bestia.  Faceva sì che tutti, piccoli e grandi, ricchi e poveri, liberi e schiavi ricevessero un marchio sulla mano destra e sulla fronte; e che nessuno potesse comprare o vendere senza avere tale marchio, cioè il nome della bestia o il numero del suo nome.” [Bestia in ebraico è Behemoth che Schmitt interpreta come il caos anarchico da cui lo Stato Leviatano dovrebbe difenderci ma che l’Apocalisse sembra descrivere come un dispositivo economico mediatico di controllo globale generatore di funeste scissioni socio-politico-religiose, che già si annunciavano delle politiche della forza e del dominio della Roma impoeriale. Anche se l’interpretazione letterale e fondamentalista di questo testo può dar vita alle più deliranti identificazioni come nel caso di Qanon e dei fondamentalisti delle destre cristiane esso evidenzia un potente sedimento nel nostro inconscio culturale  La sua stessa forclusione alimenta il desiderio che la profezia si autoavveri e probabilmente evidenzia una crescente angoscia di estinzione che sarebbe pericoloso per l’integrità della coscienza ignorare. 

[5] Gilles Deleuze  già anni fa scriveva: “Stiamo preparandoci a un regime, a una ‘intesa mondiale per la sicurezza’ alla gestione di una ‘pace’ fondata sulle paure, le angosce, le frustrazioni di tutti noi, individui ansiosi di soffocare ogni dubbio, ogni interrogazione, ogni pensiero critico”.

[7] Si veda per esempio l’intervista a Benjamin Bratton direttore del progetto Terraforming  per lo Strelka Instituite di Mosca finanziato dall’oligarca russo Alexander Mamut: https://palladiummag.com/2021/01/11/benjamin-h-bratton-on-terraforming-the-world-order/

[8] Eshu, dal berretto multicolore che tiene insieme gli opposti, nero e rosso (o nero e bianco). Un racconto spiega come Eshu sul suo cavallo passa davanti alle fattorie di due contadini che si erano promessi amicizia eterna ma cominciano a discutere del colore del suo cappello, così come viene percepito dal loro vertice di osservazione e iniziano a litigare furiosamente . Eshu torna e spiega chei entrambi avevano ragione ed entrambi avevano torto. E li esorta a diffidare di voti eterni che non tengano in considerazione Eshu il dio che ama le provocazioni, specialmente quelle che aprono alla complessità ineffabile del reale. (Cosentino 262).

[9] Questa sembra una versione tecnocratica dell’idea Schmittiana di Großraum “grande spazio terrestre” “sovranità estesa” [che per altro era ispirata anche alla dottrina americana di Monroe sulle ‘sfere di influenza’] e che si confuse per parecchio tempo con l’analogo concetto nazista di un “necessario spazio vitale di espansione.” Del resto dopo la “Notte dei lunghi coltelli” Schmitt plaudiva alla creazione del diritto grazie a quello che definiva  un “atto sovrano”, quando un Führer « nell’istante del pericolo in virtù della sua dittatura, crea immediatamente diritto in quanto giudice supremo[9]». Come è noto la cartina di tornasole della sovranità è secondo Schmitt proprio quella di poter sospendere i diritti e proclamare uno stato di eccezione. 

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Per una cartografia decoloniale

Postattivismo creativo

art by Curiot

Riprendendo i nostri dialoghi vorrei poter inaugurare una serie di discussioni su come si possa intendere il “postattivismo”:  non come una sorta di superamento dell’attivismo, ma come una via verso una  maggior efficacia e respons-abilità in una nascente ecologia della cura e della riparazione. L’epistemologia critica è importante ma non basta e nessun “soluzionismo”  esce in fondo dalla logica coloniale della pretesa efficienza della modernità. Una architettura in cui abitano persino i privilegi “etici” delle migliori ragioni e che alimenta negli stessi movimenti il narcisismo delle piccole (o grandi) differenze.

Anche se siamo ancora incapaci di fermarci davanti allo sfacelo –  come l’angelo della storia di Benjamin catturato dal moto perpetuo dei più alti ideali –  forse cominciamo a intravedere quanto l’intreccio costitutivo e relazionale della realtà ci inviti ad abitare e trasformare  diversamente le rovine. Specialmente quando il confine tra simbolico e reale si assottiglia: quando i satelliti iniziano a cadere “La caduta del cielo” – la profezia sciamanica di Davi Kopenawa – non è più solo un affascinante viaggio dislocante verso esotiche prospettive.

Qui condivido non una sintesi ma tre  brani che assemblo perché li ho appena letti e ascoltati – contributi di di Bayo Akomolafe, l’autore che in questo momento mi sollecita più di altri a pensare ed esplorare il potenziale del pensiero decoloniale “fuggitivo” e diasporico: la costellazione della crisi,  il post-umanesimo, il neo-materialismo, le alleanze in fieri degli undercommons, il rovesciamento delle prospettive generato da un animismo relazionale ecosistemico intrecciato con le scienze della complessità… 

Forse la sfida si pone a un crocevia: andando di là si resterà intrappolati nei ricordi di passate militanze – che è anch’esso una sorta di imprinting identitario – nell’altra direzione invece rischiamo di rimuovere le eredità che ci costituiscono – non resta che riconoscere e rendere creativa l’impasse imparando a intra-agire  con quelle urgenze immanenti in cui il passato è strettamente intrecciato con questo presente…

C’è forse una terza via tra il militantismo risentito del conflitto permanente e la resa alla dipendenza atomizzante agli algoritmi dominanti. Una via che prende forme provvisorie a partire dalla consapevolezza emergente che ciò che agisce non può essere che affettivo, intra e inter-relazionale.

L’attivismo militante, le lotte per il respiro negato, per i diritti, lo stesso slancio critico, sono stati e restano imperativi necessari  oltre che storicamente cruciali,  come lo sono gli imperativi locali del presente. Il postattivismo mi sembra tuttavia un tentativo “clinico” di esplorazione collettiva di forme di  cura, riparazione e creazione collettiva in un tessuto relazionale (e percettivo) profondamente ferito, un tentativo che tenta di ripensare le alleanze necessarie a farlo nel contesto di in una più ampia e inclusiva costellazione o cartografia spazio-temporale.

Mi piace in particolare il modo in cui Bayo decostruisce le identificazioni razziali rideclinandole in termini storico-simbolici: la bianchezza come eredità escludente, culto della purezza e del controllo all’interno di un’architettura modernista e come dice Mbembe “brutalista” capace di accomodare nei suoi dispositivi giuridici la costruzione di moltitudini di “corpi-frontiera”. E la nerezza come decostruzione forzata del rapporto con “terra e sangue”, ma anche opportunità diasporica animata dalle radici di un rapporto permanente con la complessità visibile e invisibile e con l’idea di cura come trasformazione…

Da questo punto di vista le considerazioni di Bayo offrono una diversa cornice di riferimento per l’idea di riparazione che anche in questo caso fanno eco a quelle di Mbembe e degli autori di Undercommons. Se la riparazione delle ferite coloniali e patriarcali tocca il tema di fratture profonde nella relazione col vivente essa rappresenta qualcosa di altrettanto irriducibile, qualcosa che ha la forza di un evento e che trascende sia le supposte virtù giuridiche della modernità che il concretismo di un risarcimento impossibile. E tuttavia dalla stessa frattura diasporica nuove fonti di pensiero e performatività aprono inedite possibilità di cura.

Mi rendo conto mentre assemblo che i frammenti arbitrariamente condivisi non fanno giustizia alla ricchezza degli argomenti che una lettura più organica del lavoro di Bayo Akomolafe può offrire – ma forse possono servire come pratica di compostaggio se fecondati dallo slancio immaginativo di chi legge. 

A presto,

fab

art by Curiot

Qualche brano da una conversazione in podcast che potete ascoltare per intero in inglese qui https://newrepublicoftheheart.org/podcast/064-bayo-akomolafe-getting-lost-meeting-the-more-than-human-vibrancy-of-the-world/?fbclid=IwAR2fCsQTIA_6bxQxiFUUVvhY4P-tU-cpFmzEe3LdB6j6ruyUg4aDnOY6_VE

«Come creiamo qualcosa di nuovo? Come facciamo qualcosa di diverso dal parlare nello stesso modo, scrivere nello stesso modo, ritrovarci nello stesso modo? Come faccio o come facciamo noi – e dico “noi” perché c’è una complessità irriducibile e perché l’io è già accompagnato da quegli “altri” che cerca di ignorare mentre sforza di nominare sé stesso così assiduamente… 

Come facciamo, a partire da questo denso noi, a uscire dai confini di ciò che ci è famigliare, per entrare in ciò che è portentoso e  impensato,  per intrecciarci con altre modalità del pensare e del conoscere? 

Le cose che cerco di esplorare nel campo dell’invenzione  e della sperimentazione, nei margini liminali delle cose e che a volte definisco nel linguaggio della “fuggitività”, delle “piantagioni”,  della fratture , delle nascite messianiche e delle notizie sperimentali, mi rendono sospettoso nei confronti del “soluzionismo”, mi rendono guardingo nei confronti di chi dice: “ho la soluzione”.  Sto cercando una dimensione di “incapacità generativa”, un posto per il compostaggio che possa rendermi capace di cose nuove e ovviamente il compostaggio non dipenderà dalle mie azioni, perché un nodo nel filo non può sciogliersi da solo, ha bisogno della compagnia di altri per farlo, così in un certo senso la mia ricerca ha come focus gli altri, tutti quelli che la modernità ha escluso, altri alieni, microbiomi-altri, tutti quelli che non abbiamo pensato come particolari o cruciali per ciò che succede sulla terra, perché pensiamo sempre nei termini di ciò che conta per gli umani, ci poniamo sempre come esseri senzienti al centro, mentre il mio desiderio va verso  i mostri, le fate, gli outsider, le cose che escludiamo, e io confido in un coro di esseri che generi alleanze più ampie, per trovare nuovi modi di stare insieme. Queste sono le mie priorità e il modo in cui procedo su questo piano, per esempio, è quello di incontrare i miei bambini ogni volta come se fosse la prima. Ci sono faglie creative nel tessuto della realtà (…)

[Domanda: “dopo George Floyd e di fronte ai suprematisti bianchi qui in America non c’è più modo si sentirsi “virtuosi” ci sembra di ereditare tutti un crimine  e quando entriamo in dialogo con qualcuno dal Sud Globale, con qualcuno nero, vorremmo in fondo non essere associati ai colpevoli, vorremmo poter riconquistare una virtù impossibile e vorrei nominare queste cose in uno spirito di apertura e vulnerabilità…”]

Se tu andassi a trovare uno sciamano Yoruba – in realtà non si definiscono sciamani, ma guaritori, il termine è babalayo,  un “medicine man” che è una sorta di avvocato cosmico, che non si limita a guarire ma che negozia la guarigione, il benessere e la prosperità con con la miriade di agencies multiple che popolano il mondo e che noi riassumiamo con nome ayé,  termine che con una sana dose di povertà viene tradotta con il termine “vita”, ma è qualcosa di più ampio, c’è quasi un sapore di cospirazione nel termine ayé…., comunque il babalayo incontra tutte le forze o il maggior numero possibile di forze che sono rizomaticamente connesse con la tua situazione per intercedere a tuo favore, con una capra o dell’igname (yam), ma un guaritore o babalayo non smette di essere gentile quando si avvicina con un coltello…c’è qualcosa che può apparire brutale nell’approccio, non credo che loro ne parlerebbero esattamente in questi termini ma su un certo piano si può dire così: “la guarigione può essere un rischio”… se la guarigione si china su una forma particolare con cui ci identifichiamo allora fa correre dei pericoli. Abbiamo questo desiderio di salvezza e redenzione. Ma salvezza e redenzione si declinano a partire da una ontologia specifica che stabilizza determinate modalità di “essere” e questo è il motivo per cui spesso dico che la “giustizia” che è un ideale immenso, no?, potrebbe anche ostacolare alcuni processi di trasformazione… e il lavoro del babalayo è la trasformazione.

Sa che il tuo problema non consiste nel maggiore o minor benessere, ma nell’aver assunto un determinato stato corporeo…uno stato corporeo che ti permette di sperimentare quello che stai sperimentando…. Così viene verso di te con un coltello per ferirti, per ferirti di più, non per ucciderti ovviamente, ma per incidere cicatrici nel tuo corpo, e da dove vengo io questo ha generato la tradizione delle scarificazioni, l’apertura della carne corrisponde al desiderio della carne di altre modalità di essere nel mondo e la spietatezza di quello che dico deriva da questo, che se parlo a partire dal paradigma all’interno del quale nasce la domanda allora divento parte del problema, imbrigliato nelle dinamiche del problema (…) ho cominciato a pensare “cosa potrebbe funzionare meglio di una risposta a un problema?” e sento che la risposta a questa domanda è “una sorta di stupore meravigliato e sbigottito” (bewilderement)… perché lo stupore ci fa uscire dalle economie relazionali dove le domande e le risposte si contaminano a vicenda… ti trasporta in una diversa economia relazionale, in una prospettiva del tutto diversa…da mio punto di vista può essere più efficace di una risposta. Così quando mi fai una domanda sulle dinamiche Floydiane della nostra epoca, la domanda centrale che emerge dalla modernità è “ come reagiamo, come affrontiamo il senso di colpa che questa situazione genera?”  E non ho una risposta definitiva, ma anch’io mi pongo una serie di domande:   mi chiedo anche se il modo con cui formuliamo queste domande non facciano parte del problema… facciano parte della crisi…. E se l’enfasi sulla colpa – e non è che voglia svalutare l’importanza della colpa, il senso di colpa può avere una funzione, ma il dubbio è che l’enfasi sulla colpa non faccia altro che consolidare la centralità bianca che vorremmo decostruire o dalla quale vorremmo allontanarci…e che anche il paradigma dei soggetti che cercano riconoscimento da parte dello Stato faccia parte del problema…

Così quando una persona bianca si presenta e chiede “ma noi ora che facciamo di questa situazione?” io sento che la domanda stessa risuona con il paradigma dominante che tenta di arruolare quei corpi come attori nel consolidamento della modernità…e non credo che abbiamo risposte …a queste domande su quello che possano fare i bianchi… credo che questo sia un momento in cui sia cruciale ascoltare insieme, potresti chiedermi “ma ascoltare cosa?” – credo che il mondo più-che-umano ci stia invitando a una posizione di ricerca e questo luogo di ricerca è razziale, spirituale, psicologico, economico, gastronomico, batterico, microbiotico è contemporaneamente tutte queste cose…ed è qui che penso che sperimentare nuove modalità di essere sia necessario, per andare da una politica che mette al centro queste ansietà, perché le ansietà sono il prodotto delle forme cha abbiamo assunto…e abbiamo bisogno di nuove storie e nuove cornici di riferimento ontologiche con cui pensare o ripensare le nostre identità, ripensare cosa significhi essere nera, che è un concetto diasporico, ripensare che significhi essere bianca, che è una moderna imposizione identitaria e trovare altri modi di essere nel mondo…

Non va assolutamente ignorato il grido urgente, la domanda di salvezza e attenzione… faccio parte di quel grido, ma so che la critica mi può portare solo fino a un certo punto…la critica mi colloca in piena modernità e ho bisogno di qualcosa che mi porti più in là [Bayo qui racconta la storia degli schiavi Igbo che ho pubblicato in Ballando con lo spirito dell’acqua)… quella idea di una nerezza più-che-umana mi interessa perché non voglio essere salvato da corpi bianchi, non voglio essere l’oggetto di compassione moderna, voglio altri spazi di potere.

[Domanda sintetizzata: “abbiamo ereditato una narrazione di progresso… e l’abbiamo poi intrecciata con un’idea spirituale, perché non possiamo considerare la vita solo come una storia catastrofica, la vita è miracolosa non stiamo forse andando verso la vitalità vibrante di un mondo consapevole e meraviglioso?”]  

Sono di solito molto riluttante nel descrivere il mondo come IL mondo. Credo che Marcus Gabriel nel suo libro “perché il mondo non esiste” abbia lavorato per decostruire l’idea che il mondo sia un tutto coerente… non è che neghi l’evidenza empirica sta solo dicendo che il linguaggio non può nominare ogni cosa in una qualche forma totalizzante, non vi è un termine che copra tutto, la “cosapevolezza” non basta, l’Universo neppure, perché persino l’immaginazione è reale, ha veri e propri effetti non è necessario che abbia validità empirica per avere effetti. Non è che vi sia UN mondo e nemmeno mondi MULTIPLI, il mondo è resiliente nella sua indeterminatezza e navigandolo noi operiamo dei tagli operativi in un punto o nell’altro, lo definiamo e chiediamo che ci definisca…. Non siamo solo degli utlizzatori e il mondo non è solo uno strumento – di nuovo il linguaggio mi tradisce – noi non siamo utilizzatori e Un Mondo o Mondi Multipli o il Mondo a Venire siano uno strumento, piuttosto capiamo che  i ruoli vengono costantemente capovolti. E questo mi porta a discutere l’idea di “che cosa ci aspetta” e sono acnora più riluttante a parlarne – qualche volta mi chiedono: “cosa pensi che accadrà nel 2050? Entreremo in un Età della compassione?” O qualcosa del genere. E davvero non so come rispondere a questo tipo di domande…Vengo da un popolo che non poteva vedere cosa sarebbe accaduto la settimana dopo perché non ne avevano la possibilità… quando leggo della scarsa visibilità in California per via degli incendi, sento compassione ma sento anche “certo, questa cosa la conosco, l’ho vista, l’ho vissuta…” il fatto di non sapere cosa succederà dopo… l’urgenza, l’immediatezza del mondo è ciò che cattura la mia attenzione – e so che rischio di lasciar fuori un universo di considerazioni – ma c’è lavoro da fare nella immediatezza immanente del mondo, a partire da come viviamo nella densità del presente…e al di là delle categorie con cui proiettiamo il presente nel futuro. Preferirei mettere a fuoco il passato. Per esempio, c’è un proverbio indigeno che dice che il lavoro serio lo fanno quelli che guardano il passato. Non considero il passato come qualcosa di concluso, perché mi interessa un diverso paradigma temporale, “il passato deve ancora accadere”, posso guardare in avanti, per così dire, e guardare il passato. Se pensi al tempo in termini circolari allora il passato non è solo ciò che è passato, il passato è ciò che sta ancora accadendo, l’eco di voci nelle pieghe della modernità, gli archetipi di cui parlava Hillman per cui gli dei che non sono mai svaniti, sono diventati parte dei nostri apparati, dei nostri pixel e delle nostre tecnologie…L’idea che il passato sia presente che dobbiamo le nostre vite e i nostri corpi al cosiddetto passato, e che lo elaboriamo continuamente in una qualche forma transcorporea quando per esempio ci chiediamo: “che significa avere un corpo? Che significa essere vivi in questo tempo?” questo è un tema che mi appassiona, tanto che non riesco a pensare a quale forma il mondo potrebbe avere in un tempo futuro – non so se posso avere fiducia – e forse questa è una prospettiva postmoderna – non so se posso avere fiducia in queste grandi metanarrative – l’ ”Età della Ragione”, l’ “Età dell’Acquario”…o qualcosa del genere (ride) certamente non c’è stato niente del genere per persone come me…sono molto sospettoso rispetto a quel modo di nominare le cose anche per restare umili rispetto a cosa potrebbe accadere – non è per negare la creatività con cui nominiamo le cose, ma dobbiamo resistere all’urgenza di farlo da soli…»

Da un altro post sulla pagina fb bayoakomolafe

«La modernità non ha eliminato il sacro. Lo ha riposizionato nel confine delle coordinate umane – in primis nel corpo bianco, il suo principale avatar. Qui nei vortici del rifiuto post/moderno di ogni autorialità non umana, nello stesso progetto antropologico, si nasconde un tempio dedicato alla venerazione delle quando riusciamo a criticare queste forme di devozione religiosa –  siamo tutti arruolati al servizio di questa configurazione: puliamo panche, passiamo il cestino delle donazioni, ammiriamo i preti nel sanctum sanctorum. Ma il sacro non si fa ingabbiare. Oggi, se ascoltate, potreste sentire che la presa contratta dell’umano comincia ad allentarsi, mentre la nostra pretesa centralità non regge il confronto con argomenti non umani assai convincenti. Se ascoltate un po’ più a lungo, potreste persino iniziare a discernere i passi caotici del sacro che migra dal suo precedente confine, fischiettando mentre saltabalzella con determinazione  sulle rovine asfaltate del nostro mancato arrivo…»

carnevale a Haiti

 

 <a href=”http://<a href=”http://http://<a href=”http://http://<https://bayoakomolafe.net/project/the-death-of-the-climate-activist/&gt;

«Insieme a Bruno Latour, in una “perversa” deformazione del suo aforisma ma che credo egli approverebbe possiamo dire: “Non siamo mai stati umani”. In un sorprendente rovesciamento del copione non siamo né gli eroi né l’unico focus affascinante di un pluriverso eccedente. Il sapere strumentale umano capace di concepire l’uso di strumenti e attrezzi è diventato (o è sempre stato) strumentalizzato. La dimensione [evolutiva] ultima, definitiva è diventata  penultima (…) il mondo è vivo e performativo – suffuso di elementi di agentività relazionale, quelli che attribuiamo senza pensarci a noi stessi.

art by Curiot

In breve l’Antropocene richiede una ontologia radicalmente nuova e smantella quella aristotelica-cartesiana che la maggior parte degli abitanti della modernità hanno dato per scontato. Aspetti di questa performatività materiale che prende atto di processi “molecolari” (nel senso attribuito alla parola da Deleuze) sono i corpi transcorporei, le specie amiche, il tempo queer e l’agentività non umana. Questo vibrante mondo ecologico emergente, de-sacralizza l’attività umana, inserendola in una rete di altri effetti efficaci che scorrono da un mondo incalcolabilmente perverso e rizomatico. Un mondo processuale di azioni performative in divenire.

(…)

Invece di considerare solo i soggetti indipendenti nel loro agire – cioè l’unità  privilegiata di analisi del cambiamento sociale, e le cui intenzioni, motivazioni ed esaurimenti costituirebbero la fucina del cambiamento mondiale  – prestiamo lttenzione all’attrezzatura che circonda il soggetto intento ad agire,   considerando l’assemblaggio complessivo,  tentando ci capire cosa e come stia operando questa concatenazione di corpi. 

L’attivista non è più l’umano separato dal dispositivo necessario al suo attivismo, ma è l’ ”umano” e i suoi attrezzi: gli schermi dei computer, i concetti, le classificazioni, le categorie di pensiero, e la città nei suoi effetti di soggettivazione.

In quanto tale il “Sé” classico viene così decentrato come focus dell’attenzione e delle suppliche; il cambiamento sociale non dipende da mosse unilaterali del sé umano, ma dalle concatenazioni emergenti che attraversano altre concatenazioni (deterritorializzioni e riterritorializzazioni).

Come definire una ricerca postattivista? Quali questioni potrebbero emergere? Non c’è spazio qui per esplorare le metodologie di un impegno postattivista, ma qualunque esse siano, tale vocazione è promettente  – specialmente in tempi di sconforto, quando l’approccio alle questioni da veterani dell’attivismo non appare generativo. 

Come figlio del cosiddetto Sud Globale, il mio popolo è stato per molto tempo beneficiario della “benevolenza” occidentale. Le Ong sono altrettanto numerose delle chiese predatorie ad ogni angolo di strada. Molti [subalterni] si  ribattezzano “attivisti”  per  mettere la bocca sotto il rubinetto  del “foreign aid” e della filantropia Euro-Americana. Tuttavia non ci sono grandi cambiamenti. L’attivismo si traduce sovente nel fatto che scafati ragazzi di strada siano pronti ad ingannare un altro straniero in cerca di virtù. Per i volonterosi ed ingenui neo attivisti le lezioni sono dure e presto imparate: non importa quali siano la tua giusta causa, o le tue nobili intenzioni, per sopravvivere devi portare avanti il programma.

Il possible invito del postattivismo è di restare con i vari elementi dell’arredamento che compongono l’assemblaggio attivista. Invece di mettere a fuoco solo l’umano, veniamo invitati a prendere nota dei dispositivi, di  cosa essi stabilizzino, di che cosa riproducano, di che cosa escludano. 

Per esempio – prendendo sul serio l’invito postattivista di de-privilegiare l’ “attore” umano – potremmo scoprire che i nostri problemi fanno spesso parte del problema: che le nostre soluzioni, pensieri, contributi e idee sono secrezioni delle concatenazioni con cui intra-agiamo. E che come tali – e questa è un’ulteriore importante considerazione post-attivista – spesso rafforzeranno le situazioni problematiche che vorremmo evitare: le nostre “soluzioni” sovente si riveleranno come un aspetto della crisi che si ripiega e moltiplica, magari in modo più intelligente e con più sfumature.

La cosa più importatnte è che la ricerca postattivista potrebbe aiutarci a ritrovare un sentimento di meraviglia e re-incanto indicandoci “altri luoghi di potere”. Forse questo è il suo dono più grande: scombinare gli schemi percettivi e le forme di impegno per riorientare l’attenzione su altre bolle di potenzialità che emergono dai paesaggi chimici dell’Antropocene.

***

In ultima analisi, il più grande sacrificio dell’attivista è la sua identità, la sua verginale separatezza. Con la sua dipartita disperde i suoi resti impollinando ogni banale superficie con agentività e promessa. Ed è lì che dobbiamo andare, nella distanza performativa in cui vortica l’altrimenti.»

street art stencil a Betlemme