Lezioni dal virus

Proteste dai balconi in India

(Per la serie LE MONDE D’APRÈS – in accesso libero da MEDIAPART) un articolo di Paul B. Preciado sulle frontiere necropolitiche dei corpi che il virus mette in luce, ripartendo da Foucault questo testo risuona con quelli di Latour e Mbembe ripubblicati pure nel blog di Clinica della Crisi. [l’onere della tentata traduzione è di Fabrice e Letizia]

11 aprile 2020 PAUL B. PRECIADO

A fronte di un’epidemia quali sono le vite che vogliamo salvare? Covid-19, AIDS, sifilide: ogni società può essere definita a partire dalle patologie virali che la minacciano e dal modo con cui essa si organizza per far loro fronte. Prima parte di un testo del filosofo Paul B. Preciado nella serie degli articoli di Mediapart dedicati al mondo dopo la pandemia

Se Michel Foucault fosse sopravvissuto all’AIDS nel 1984 e fosse rimasto in vita fino all’invenzione della triterapia, forse oggi avrebbe 93 anni: avrebbe accettato di segregarsinel suo appartamento di rue Vaugirard? Il primo filosofo della storia morto a causa delle complicazioni generate dal virus dell’immunodeficienza acquisita ci ha lasciato alcuni dei concetti tra i più efficaci per riflettere sulla gestione politica dell’epidemia i quali, in mezzo al panico e alla disinformazione, diventano altrettanto utili di una buona mascherina cognitiva.

La cosa più importante che abbiamo appreso da Foucault è che il corpo vivente (e dunque mortale) è l’oggetto centrale di ogni politica. Non vi è politica che non sia una politica dei corpi. Ma il corpo non è per Foucault un organismo biologico dato a priori sul quale il potere agisce in un secondo tempo. Il compito stesso dell’azione politica è quello di fabbricare un corpo, di metterlo al lavoro, di definire i suoi modi di produzione e di riproduzione, di prefigurare le modalità discorsive con le quali i corpi costruiscono la propria costruzione narrativa sino al punto da potersi riconoscere come soggetti capaci di dire “io”.

Tutta l’opera di Foucault può essere compresa come un’analisi storica delle differenze tecniche per cui il potere gestisce la vita e la morte delle popolazioni. Tra il 1975 e il 1976, anni in cui pubblica Sorvegliare e Punire e il primo volume della Storia della sessualità, Foucault utilizza la nozione di “biopolitica” per parlare del rapporto che il potere stabilisce con il corpo sociale nella modernità.

Egli descrive la transizione da quella che chiama una “società sovrana” a una “società disciplinare” come il passaggio da una società che definiva la sovranità in termini di ritualizzazione della violenza e della morte a una società che gestisce e massimizza la vita delle popolazioni in funzione dell’interesse nazionale. Per Foucault, le tecniche di governo biopolitico si sono espanse come una rete di potere che è andata oltre la sfera legale o punitiva sino a diventare una forza orizzontale e tentacolare, che attraversa la totalità del territorio fino a penetrare nel corpo individuale. 

Durante e dopo la crisi dell’AIDS, numerosi autori hanno amplificato e radicalizzzato le ipotesi di Foucault esplorando la relazione tra biopolitica e immunità. Il filosofo italiano Roberto Esposito ha analizzato le relazioni tra la nozione politica di “comunità” e la nozione biomedica ed epidemiologica di “immunità”. La comunità e l’immunità hanno una radice comune, “munus”, che in latino sta per l’imposta (il dovere, la legge, l’obbligo ma anche il dono) che ognuno doveva pagare per vivere o far parte della comunità. 

La comunità è “cum” (“con”) “munus”: un gruppo umano che è vincolato da una legge e da un comune obbligo, ma anche da un “dono” da qualcosa che non ha prezzo. Il sostantivo “immunitas” è una parola privativa che deriva dalla negazione di “munus”. Nel diritto romano, l’immunità era una dispensa o un privilegio che esentava qualcuno dagli obblighi dei compiti comuni a tutti. Colui che era stato esonerato da tali obblighi era “immunizzato”. Mentre chi era “demunito” aveva perso tutti i privilegi della vita in comune. [Demunito è il privativo di “munito”, (provvisto, dotato) e sta dunque per sprovvisto, sprovveduto, spodestato, mancante di agentività. NdT.]

Roberto Esposito insiste sul fatto che ogni biopolitica è immunologica: essa implica una definizione di comunità a partire dall’organizzazione gerarchica di coloro che sono esonerati dalle tasse o dai doni (considerati come immuni) e coloro che la comunità percepisce come potenzialmente pericolosi (i demuniti) e che saranno esclusi in un atto di protezione immunologica. È il paradosso della biopolitica: ogni atto di protezione comporta una definizione immunitaria della comunità, il che implica arrogarsi il poter decidere se sacrificare una parte della comunità, a beneficio di una certa idea della propria sovranità. Lo stato d’eccezione rappresenta la normalizzazione di questo paradosso insopportabile.

A partire dal XIX secolo, con la scoperta del primo vaccino contro la varicella e con le esperienze di Pasteur e di Robert Koch, la nozione di immunità ha trasceso la sfera giuridica e acquisito una significazione medica. L’individuo moderno inteso come un corpo libero e indipendente non è solo un’utopia dell’economia liberale, ma anche uno standard di immunità biopolitica.

Le democrazie europee liberali e patriarco-coloniali del XIX secolo costruiscono l’ideale dell’individuo moderno non solo come un agente economico libero (maschio, bianco, eterosessuale) ma anche come un corpo immunizzato radicalmente separato, che non deve niente alla comunità. 

Per Esposito, il modo con cui la Germania nazista ha caratterizzato una parte della propria popolazione (gli Ebrei, ma anche i Rom, gli omosessuali, i disabili) come corpi che minacciavano la sovranità della comunità ariana è un esempio paradigmatico dei pericoli della gestione biopolitica immunitaria. Questa comprensione immunologica della società non si è conclusa con il nazismo; al contrario, è sopravvissuta negli Stati Uniti e in Europa, legittimando le politiche di gestione delle loro minoranze razzializzate e delle popolazioni migranti. È questa politica immunitaria che ha forgiato l’attuale Comunità economica europea, il mito di Schengen e i dispositivi violenti dispiegati da Frontex.

Nel 1994, in Flexible Bodies,l’antropologo Emily Martin, dell’Università di Princeton, ha analizzato la relazione tra immunità e politica nella cultura americana durante le crisi della poliomielite e dell’AIDS. Martin è giunto a conclusioni che sono pertinenti per l’analisi della crisi attuale. L’immunità corporea, afferma Martin, non è un fatto biologico indipendente dalle variabili culturali e politiche. Al contrario, ciò che intendiamo per immunità è costruito collettivamente attraverso criteri sociali e politici che producono alternativamente sovranità o esclusione, protezione o stigmatizzazione, vita o morte. 

Se ripensiamo alla storia di alcune delle epidemie mondiali dei cinque secoli scorsi attraverso il prisma offerto da Michel Foucault, Roberto Esposito ed Emily Martin è possibile elaborare una ipotesi che prenderebbe la forma di un’equazione: ditemi come la vostra comunità costruisce la sua sovranità politica e vi dirò quali forme prenderanno le vostre epidemie e come le affronterete.

Le differenti epidemie materializzano nel campo del corpo individuale le ossessioni che dominano la gestione della vita e della morte delle popolazioni in un dato periodo. Per riprendere i termini di Foucault, un’epidemia radicalizza e sposta le tecniche biopolitiche applicate al territorio nazionale inscrivendole sul piano dell’anatomia politica, dentro e sul corpo individuale.

Allo stesso tempo, un’epidemia permette di estendere all’insieme della popolazione le misure politiche di “immunizzazione” che erano state fino ad allora applicate violentemente su coloro che erano considerati come “stranieri” sia all’interno che alle frontiere del territorio nazionale.

La gestione politica delle epidemie mette in scena un’idea della comunità, rivela i fantasmi immunitari di una società e lascia apparire alla luce del sole i sogni onnipotenti (e gli scacchi) della sovranità politica. L’ipotesi di Michel Foucault, di Roberto Esposito e Emily Martin non ha nulla che vedere con le teorie del complotto. Non si tratta dell’idea ridicola secondo cui il virus sarebbe un’invenzione di laboratorio o un piano machiavellico per diffondere politiche ancor più autoritarie. Al contrario, il virus non fa che riprodurre, materializzare, estendere, intensificare attraverso la totalità della popolazione le forme dominanti di gestione biopolitica e necropolitica che funzionavano già sul territorio nazionale e ai suoi confini.

Così, ogni società può definirsi a partire dall’epidemia che la minaccia e dal modo in cui si organizza di fronte ad essa.

Considerate la sifilide, per esempio. L’epidemia ha colpito la città di Napoli per la prima volta nel 1494. L’impresa coloniale europea si era appena avviata. La sifilide è stata come il “pronti via” della distruzione coloniale e delle politiche razziali a venire. Gli inglesi chiamavano la sifilide la “malattia francese”, i Francesi dicevano che era la “malattia napoletana” e i Napoletani dicevano che veniva dall’America: che sarebbe stata portata dai colonizzatori che erano stati infettati dagli Amerindiani….

Il virus, diceva Derrida, è sempre lo straniero, l’altro, colui che viene da altrove. Infezione sessualmente trasmissibile, la sifilide ha materializzato nei corpi dal XVI al XIX secolo le forme di repressione e di esclusione sociale che hanno dominato la modernità patriarcale e coloniale: l’ossessione della purezza razziale, l’interdizione dei presunti “matrimoni misti” tra persone di classi e di “razze” differenti, e le molteplici restrizioni che pesavano sulle relazioni sessuali ed extraconiugali.

L’utopia della comunità e il modello di immunità della società della sifilide sono quelli del corpo bianco borghese sessualmente confinato nella vita coniugale come nucleo di riproduzione del corpo nazionale. Così, la prostituta è diventata il corpo vivente che ha condensato tutti i significati politici abietti durante l’epidemia di sifilide: donna attiva spesso razzializzata, corpo al di fuori delle leggi domestiche e del matrimonio, che ha fatto della sua sessualità il suo mezzo di produzione, la lavoratrice del sesso è stata resa visibile, controllata e stigmatizzata come il principale vettore della propagazione del virus.

Ma non è la repressione della prostituzione o la segregazione delle prostitute nelle case chiuse nazionali (come immaginava Restif de la Bretonne) che ha permesso di finirla con la sifilide. Al contrario. La segregazione delle prostitute non faceva che renderle più vulnerabili alla malattia. Quel che ha permesso di sradicare quasi del tutto la sifilide, è la scoperta degli antibiotici, e soprattutto della penicillina nel 1928, ma anche un decennio di profonde trasformazioni delle politiche sessuali in Europa – con le sollevazioni dei movimenti di decolonizzazione, l’accesso delle donne bianche al voto, le prime depenalizzazioni dell’omosessualità e una relativa liberalizzazione dell’etica del matrimonio eterosessuale

Mezzo secolo più tardi, l’AIDS sarà per la società neoliberista eteronormativa del XX secolo ciò che la sifilide era stata per la società industriale e coloniale del XIX secolo. I primi casi sono apparsi nel 1981, precisamente nel momento in cui l’omosessualità aveva cessato di essere considerata una malattia psichiatrica, dopo essere stata l’oggetto di persecuzione e discriminazione sociale per decenni.

La prima fase dell’epidemia ha soprattutto toccato ciò che allora era chiamato le “4H” [dalle iniziali delle parole in inglese]: gli omosessuali, le “hookers” – le lavoratrici del sesso -, gli emofiliaci e gli “eroinomani” – gli utilizzatori di droghe. L’AIDS ha rimodellato la griglia del controllo dei corpi e aggiornato le tecniche di monitoraggio della sessualità che la sifilide aveva tessuto e che i movimenti di decolonizzazione, quelli femministi e omosessuali, nonché l’invenzione della penicillina, avevano contribuito a smantellare negli anni ’60 e ’70. Come nel caso delle prostitute durante la crisi della sifilide, la repressione dell’omosessualità non ha fatto che aumentare il numero dei decessi.

Ciò che ha trasformato progressivamente l’AIDS in malattia cronica, è stata la depatologizzazione dell’omosessualità, l’autonomizzazione farmacologica del Sud, l’emancipazione sessuale delle donne, il loro diritto di dire no alle pratiche sessuali senza preservativo, e l’accesso alle tri-terapie da parte delle popolazioni interessate, indipendentemente dalla loro classe sociale o dal loro grado di razzializzazione. Il modello di comunità/immunità dell’AIDS è legato al fantasma della sovranità sessuale maschile intesa come un diritto non negoziabile alla penetrazione, mentre ogni corpo penetrato (nelle forme dell’omosessualità, della femminilità, dell’analità) è percepito come mancante di sovranità (demunito).

Torniamo ora alla nostra situazione attuale. Molto prima della comparsa di Covid-19, avevamo già avviato un processo di mutazione planetaria. Stavamo già vivendo, prima del virus, un cambiamento sociale e politico così profondo quanto quello che ha colpito le società che hanno sviluppato la sifilide. Nel XV secolo, con l’invenzione della macchina da stampa e l’espansione del capitalismo coloniale, siamo passati da una società orale a una società scritta, da una forma di produzione feudale a una forma di produzione industriale-schiavista e da una società teocratica a una società governata da accordi scientifici in cui le nozioni di sesso, razza e sessualità sarebbero diventati dispositivi di gestione della vita e della morte delle popolazioni.

Oggi, stiamo passando da una società scritta a una società cyber-orale, da una società organica a una società digitale, da un’economia industriale a un’economia immateriale, da una forma di controllo disciplinare e architettonico alle forme di controllo micro-protesico e mediatico-cibernetico.

In altri testi, ho qualificato come “farmacopornografico” il tipo di gestione e produzione del corpo, ma anche di soggettività sessuale in questa nuova configurazione politica. Il corpo e la soggettività contemporanea non sono più regolati esclusivamente dal loro passaggio attraverso istituzioni disciplinari (scuola, fabbrica, caserma, ospedale, ecc.) ma soprattutto da un insieme di tecnologie biomolecolari che entrano all’interno del corpo, attraverso microprotesi e tecnologie di sorveglianza digitale.

Nel campo della sessualità, la modificazione farmacologica della coscienza e del comportamento, il consumo di massa di antidepressivi e ansiolitici, la mondializzazione del consumo della pillola contraccettiva, nonché la produzione di tri-terapie,di terapie preventive dell’AIDS, o il consumo di viagra, sono alcuni degli indicatori della gestione biotecnologica.

L’estensione planetaria di Internet, la generalizzazione dell’uso delle tecnologie informatiche mobili, l’utilizzo dell’intelligenza artificiale, lo scambio di informazioni a banda larga e lo sviluppo di dispositivi di sorveglianza informatica globale via satellite sono altrettanti indicatori di questa nuova gestione digitale semio-tecnica. Se li ho qualificati come pornografici, è perché queste tecniche di gestione non funzionano più attraverso la repressione e l’interdizione esercitate sulla sessualità (masturbatoria o altra), ma attraverso l’incitamento al consumo e attraverso la produzione costante di un piacere regolato e quantificabile. Più consumiamo e più siamo in buona salute, meglio siamo controllati.

La mutazione in corso potrebbe al contrario rappresentare il passaggio da un regime patriarco-coloniale ed estrattivista, da una società antropocentrica e in cui una piccola parte della comunità umana planetaria si autorizza a esercitare una politica di predazione universale, a una società capace di ridistribuire l’energia e la sovranità. È questo punto che sarà al centro del dibattito durante e dopo questa crisi: quali sono le vite che vogliamo salvare? È nel contesto di questa mutazione, di questa trasformazione dei modi di comprensione della comunità (una comunità che è oggi il pianeta intero) e dell’immunità, che il virus opera e che la strategia politica per fargli fronte si organizza.

Ciò che ha caratterizzato le politiche governative nel corso degli ultimi 20 anni, almeno dalla caduta delle torri gemelle, di fronte alle idee apparenti di libertà di movimento che hanno dominato il neoliberalismo dall’era Thatcher, è la ridefinizione degli Stati-nazione in termini neocoloniali e identitari, e il ritorno all’idea della frontiera fisica come condizione per la restaurazione dell’identità nazionale e della sovranità politica.

Israele, gli Stati Uniti, la Russia, la Turchia e la Comunità economica europea hanno inventato nuove forme di frontiera che, per la prima volta dopo decenni, sono state non solo custodite o sorvegliate, ma anche re-inscritte erigendo muri, costruendo dighe e difendendole con misure non biopolitiche, ma necropolitiche, con tecniche di esclusione e di morte.

La società europea ha deciso di costruirsi collettivamente come una comunità totalmente immunizzata, chiusa all’Est e al Sud, mentre l’Est e il Sud, in termini di risorse energetiche e di produzione di beni di consumo, sono i suoi depositi.La costruzione di questa immunità politica è stata nutrita da un delirio neo-sovranista: l’Europa ha chiuso la sua frontiera in Grecia e ha costruito i più grandi centri di detenzione a cielo aperto della storia sulle isole che orlano la Turchia e il Mediterraneo, a Ceuta, a Melilla, a Calais, nell’isola di Lampedusa. La distruzione dell’Europa è cominciata paradossalmente con questa costruzione di una comunità europea immune, aperta all’interno e totalmente chiusa agli stranieri e ai migranti.

Ciò che ora viene testato su scala planetaria attraverso la gestione del Covid-19 è una nuova modalità di comprendere la sovranità in un contesto in cui l’identità sessuale e razziale si è disarticolata. Il Covid-19 ha spostato le politiche dalle frontiere del territorio nazionale o del super-territorio europeo verso l’organismo individuale. Il corpo, il nostro corpo individuale, come spazio vitale e come rete di potere, come centro di produzione e di consumo di energia, è diventato il nuovo territorio in cui le politiche violente della frontiera che testiamo da anni su “gli altri”, prendono ora la forma di una guerra contro il virus.

La nuova frontiera necropolitica si è spostata dalle coste della Grecia verso la porta del nostro domicilio privato. Lesbo comincia ora sul nostro pianerottolo. E la frontiera non smette di chiudersi su di noi, ci spinge sempre più vicini al nostro corpo. Calais ci esplode ora in faccia. La nuova frontiera è la mascherina. L’aria che respiriamo deve essere soltanto nostra. La nuova frontiera, è la nostra epidermide. La nuova Lampedusa, è la nostra pelle.

Le politiche della frontiera e le strette misure di segregazione e di immobilizzazione che abbiamo applicato in questi ultimi anni ai migranti e ai rifugiati – considerandoli virali per la comunità – sono ora riprodotte all’interno del territorio nazionale, calibrate sulla popolazione totale, re-inscritte sui corpi individuali. Per anni, abbiamo collocato i migranti e i rifugiati nei centri di detenzione, limbi politici senza diritto e senza cittadinanza, perpetue sale di attesa. Ora, siamo noi che viviamo nei centri di detenzione delle nostre stesse case.

Un laboratorio di clinica della crisi

“Sognare la terra -il troll nell’antropocene” uscito ora per Exòrma amplia e prosegue il lavoro del nostro lab mettendo ulteriormente a fuoco la crisi della modernità e dei suoi paradigmi violenti mentre emerge come clinica del presente e delle diseguaglianze ciò che Mbembe ha definito un ‘diritto al respiro’, un principio che riconnette al respiro della Terra e di tutto il vivente.

Già la pubblicazione del “lessico della crisi e del possibile – cento lemmi per praticare il presente” uscito nel settembre del 2019 per SEB27 dava voce a un lavoro di ricerca nella tensione condivisa di molti verso una clinica della crisi, che riassumeva i nuclei emergenti di un pensiero critico in movimento che sentiva l’urgenza di collegare le dinamiche dell’ineguaglianza on l’emergenza ambientale, svelandone le radici nella vis colonizzatrice, nella tensione irragionevole che collega progresso e profitto a breve termine e in molte altre declinazioni contemporanee dell’ inugaglianza. Rileggendolo emerge con forza la consapevolezza di una costellazione. Credo abbia senso allora riportare qui un po’ alla volta alcuni frammenti tratti dalle varie voci del Lessico.

INTRODUZIONE

«Per esplorare una diversa logica di “democrazia profonda”, di dibat­tito aperto, di intersezionalità e tolleranza delle differenze, penso alla necessità di ri-declinare “cromaticamente” nei colori delle diverse dif­ferenze/appartenenze l’affermazione di Simone Weil che chiamava “la prima radice”: «il dovere ineludibile verso l’umano». Affermazione da applicare oggi a tutto il “vivente” e all’ambiente che lo rende possibile.(…)

Oggi, in particolare si rafforza la consapevolezza che questo «dovere verso l’umano» si sta trasformando in dovere comune verso la sopravvi­venza della Terra. La consapevolezza dell’interdipendenza dei fenomeni esige una svolta radicale: – il “dovere” diventa la necessità sentita di coabitare il mondo a partire dalla comune vulnerabilità di tutti i viventi. (fabrice)

ACCELERAZIONISMO

Lévi-Strauss aveva intuito con precisione il cuore di tenebra dell’oc­cidente quando diceva che le società “calde” richiedono di aumentare costantemente la quantità di energia che ognuno può consumare. Ma la sottrazione di mondo, il famoso “deserto del reale”, irrompe a volte a turbare quanti optano per la scorciatoia del diniego (…)

Si potrebbe al contrario immaginare di «restare col danno», vivere nelle rovine del capitalismo, rifondare una dimensione relazionale a partire dalla co-vulnerabilità e includere in questa nuova coscienza anche la crescente vulnerabilità della Terra e anche il suo scontento. Vale allora ricordare la considerazione di René Char: «Oggi siamo più vicini alla catastrofe dell’allarme stesso e ciò significa che è giunta l’ora di ricomporre un equilibrio (bien-être) nella sventura, anche se ciò avesse l’apparente arroganza di un miracolo» (fabrice)

ANTROPOCENE/CAPITALOCENE

La soluzione della crisi climatica potrebbe solo passare da una radicale ridistribuzione del potere e della ricchezza globale, cosa che le grandi potenze imperiali non sono ovviamente disposte a considerare.

Per garantire la “crescita” nelle sue disuguaglianze estreme, per continuare a fare “business as usual” la crisi geoclimatica dev’essere negata. Sostituita dal buon vecchio conflitto tra nazioni per il dominio commerciale.

Il vero problema è che il reale della crisi confina con l’impensabile. Il grande mito transculturale della modernità ricombinava l’idea di cambiamenti epocali – secondo il modello delle grandi innovazioni tecno-scientifiche – e la fede nel fatto che gli effetti collaterali di questi cambiamenti potessero essere riassorbiti nell’evoluzione verso un radioso futuro “in ogni caso”. (fabrice)

APOCALISSI CULTURALI

Risucchiati nel vicolo cieco della depressione e dell’inerzia ipertecnologica, agiti da macchine e social networks, qual è il mondo che non vediamo, che non vogliamo più vedere e che stiamo, di fatto, cancellando?

Per capire dove vanno le apocalittiche di altre culture, di altri mondi, è necessario metterle sullo stesso piano delle nostre, metterle in causa insieme a quelle nelle quali siamo coinvolti, in modo da raggiungere una prospettiva più alta, che possa dischiudere un essere al mondo, «un essere-insieme progettabile per tutti» come scrisse de Martino in quella appendice. Per fare questo è necessario ripensare la crisi dell’epoca coloniale e della società che aveva prodotto quell’epoca. Incrociando la ricerca sulle apocalissi salvifiche con quella sulle apocalissi catastrofiche, senza speranza. Entrambe «affondano […] la loro radice ultima in una situazione comune, cioè nella stessa minaccia e disumanizzazione dell’umano che caratterizza l’ora che volge» (francesco)

APPENDIMENTO/DISAPPRENDIMENTO

Jacques Monod. Questi evidenziava come esista una «sorta di egotismo autoprotettivo di tutte le cose viventi», nel senso che queste tendono a selezionare piccole variazioni adattive visto che il Dna è relativamente stabile. E tuttavia, questa medesima tendenza alla stabilità condannerebbe gli organismi all’estinzione di fronte a eventi imprevedibili. In realtà, le possibilità di adattamento sono assai maggiori grazie a interazioni sistemiche complesse, e alla “riserva di divenire” che esse consentono. Le specie interagiscono e si modificano a vicenda per occupare nuove nicchie nella biosfera e ripristinare un ecosistema. Smentendo il mantra “un altro mondo è impossibile”, per la natura, il mutamento prende forma anche a partire da incidenti, più o meno felici. (Alessio)

CADUTA DEL CIELO

Basta leggere “La caduta del Cielo”, dello sciamano Davi Kopenawa, per capire quanto abbiamo da imparare dalla sensibilità indigena in relazione all’ambiente (…un libro) ricco di spunti e intuizioni che nutrono, si sedimentano e riemergono, nell’evocazione di un mondo altro in cui gli xapiri, gli spiriti dello sciamano – che impara a “divenire altro” – hanno a cuore l’equilibrio della foresta e del mondo. Se, per gli occidentali, “ecologia” è una parola alla moda, per gli Yanomami è la forma stessa della vita. “Omama è al centro di ciò che i bianchi chiamano ecologia. È vero! Molto prima che queste parole esistessero e che i bianchi cominciassero a parlarne tanto, erano già nostre anche se non le nominavamo allo stesso modo […] Nella foresta, noi esseri umani siamo l’ecologia. Ma anche gli xapiri (spiriti), la selvaggina, gli alberi, i fiumi, i pesci, il cielo, la pioggia, il vento e il sole…”(Loretta)

CARTOGRAFIE FUTURE

In questo nuovo regime climatico il mondo-oggetto diviene mondo-soggetto, capace di azione. Il cambiamento climatico e l’innalzamento della temperatura globale, hanno reso visibile l’azione di Gaia. Il mondo mostrandosi soggetto attivo e ibridato dall’azione umana, mette in di­scussione le nostre aspettative esistenziali (…)Se come scrive Donatella Di Cesare «prossimità non voluta e coabitazione non scelta sono le precondizioni dell’esistenza politica», nel Nuovo regime climatico che abitiamo, la Natura e i non-umani si impongono come soggetti dotati di esistenza politica, da cui l’umano dipende e con cui ri-negoziare alleanze per una nuova coabitazione. È però necessaria un’operazione di riconoscimento e di ricomposizione descrittiva del mondo nella sua vulnerabilità: si deve capire con chi si sta abitando, per decidere come co-abitare. L’uomo dell’Antropocene deve fare l’inventario del mondo, chiedendosi con chi, da chi dipende la propria sussistenza, con chi pensa di essere in lotta, con chi è disposto ad allearsi… solo passando per questo lavoro di immaginazione e di ricostruzione del comune, può sperare. (Elisa)

CITTÀ AFRICANE

Achille Mbembe le rappresenta come un crogiuolo vitale, malgrado i potentati, malgrado la miseria, malgrado le disuguaglianze. Un crogiuolo di afropolitanismo dove “circolano mondi” non sottomessi al “feticismo delle origini”, e in cui si inventano cultura, musica, imprevedibili ibridazioni e futuro, una possibile comunità in movimento sempre più decolonizzata. Ma le città africane sono anche contesti post-traumatici dove sovente si sopravvive in modalità fugaci, fantasmatiche, aggrappati a poche cose, identificandosi con l’istante e con i morti. Alcune città sopravvivono così, nel ritmo di un possibile impoverito ma mai privo di resistenza, anche sull’orlo dell’abisso. (Mauro)

(segue)

Il diritto universale al respiro -Mbembe sul Covid-19

Il diritto universale al respiro

Achille Mbembe

Se il Covid-19 è l’espressione spettacolare dell’impasse planetaria nella quale si trova l’umanità allora ci toccherà ricostituire una Terra abitabile perché offra a tutti la possibilità di una vita respirabile, né più né meno. Saremo capaci di riscoprire la nostra appartenenza a una medesima specie e il nostro indivisibile legame con l’insieme del vivente? Questa è forse la domanda giusta, la domanda che va posta, l’ultima, prima che la porta si chiuda una volta per tutte.

Alcuni evocano sin da ora il «dopo-Covid». Perché no? Per la maggior parte di noi, tuttavia, soprattutto in quelle regioni del mondo dove i sistemi sanitari sono stati devastati da anni di abbandono organizzato – il peggio deve ancora venire. In assenza di letti negli ospedali, di respiratori, di test capillari, di mascherine, di disinfettanti  e di altri dispositivi di messa in quarantena per chi è già stato contagiato, sfortunatamente numerosi e numerose saranno coloro che non passeranno per la cruna dell’ago.

La politica del vivente

Qualche settimana fa, di fronte al tumulto e allo sgomento che si annunciavano, alcuni di noi avevano tentato di descrivere questi nostri tempi. Parlavamo di tempi senza garanzie e senza promesse, in un mondo sempre più dominato dall’ossessione della propria fine. Ma aggiungevamo che si tratta anche di un tempo caratterizzato da «una distribuzione diseguale della vulnerabilità» e da  «nuovi e rovinosi compromessi con forme di violenza a un tempo futuriste e arcaiche»[1] Per dirla tutta un’era di brutalismo.

Al di là delle sue origini nel movimento architettonico della metà del XX secolo abbiamo tentato di definire il brutalismo come il processo contemporaneo «grazie al quale il potere in quanto forza geomorfologica si costituisce, si esprime, si configura, agisce e si riproduce» grazie a  «frackinge fissurazione», grazie al «travaso degli inquinanti in mare», alla «trivellazione«, allo «scarico delle sostanze organiche» (p.11) , in breve grazie a quello che chiamavamo «lo svuotamento» (pp. 9-11).

Sottolineavamo la dimensione molecolare chimica, se non radioattiva di questo processo: «la tossicità, vale a dire la moltiplicazione delle sostanze chimiche e dei rifiuti tossici -non è forse questa una dimensione strutturale del presente?  Queste sostanze, questi rifiuti non attaccano solamente la natura e l’ambiente (l’aria, i suoli, le acque, le catene alimentari) ma anche i corpi esposti al piombo, al fosforo, al mercurio, al berillio ai fluidi refrigeranti.» (p.10)

Facevamo certamente riferimento ai «corpi viventi esposti alla spossatezza fisica e a ogni sorta di rischio biologico a volte invisibile». Tuttavia non citavamo i virus (mammiferi di ogni sorta ne trasportano fino a 600.000) se non metaforicamente nel capitolo consacrato ai «corpi frontiera». Ma per il resto, è proprio la politica del vivente nel suo insieme che ancora una volta viene messa in discussione. E il coronavirus è evidentemente il nome d questa politica.

L’umanità errante

In questi tempi di colore viola – se immaginiamo che il tratto distintivo di ogni tempo possa essere il suo colore – dovremmo forse cominciare con onorare  tutti quelli e quelle che ci hanno sinora lasciato. Una volta attraversata la barriera  degli alveoli polmonari il virus si è  infiltrato nella loro circolazione sanguigna. E ha successivamente attaccato organi e tessuti iniziando dai più fragili.

Segue un’infiammazione sistemica. Quelli e quelle che prima dell’attacco avevano già problemi cardiovascolari, neurologici, metabolici o soffrivano di patologie legate all’inquinamento hanno subito gli assalti più furiosi. Col respiro corto e senza respiratori, molti se ne sono andati alla chetichella, senza nessuna possibilità di  dire addio.  I loro resti sono stati subito inceneriti o seppelliti. In solitudine. Bisognava – ci è stato detto – sbarazzarsene il più presto possibile.

Ma già che ci siamo, perché non aggiungere a queste morti tutte le altre – e se ne contano a decine di milioni – le vittime dell’AIDS, del colera, del paludismo, dell’Ebola, del Nipah,  della febbre di Lasse, della febbre gialla, dello Zika, del chikunguya,  di tumori di ogni sorta, di epizootie di altre pandemie animali come la peste suina o la febbre catarrale ovina e di tutte le epidemie immaginabili e inimmaginabili che da secoli devastano popoli senza nome in paesi lontani senza contare le sostanze esplosive e altre guerre di predazione e di occupazione che mutilano e decimano decine di migliaia di esseri umani e ne gettano altre centinaia di migliaia sulla via dell’esodo, umanità errante.

Come dimenticare d’altronde la deforestazione intensiva, i grandi incendi, la distruzione degli ecosistemi, l’azione nefasta delle imprese inquinanti distruttrici della biodiversità e oggi – dato che  il confino fa ormai parte della nostra condizione – come non ricordare le moltitudini che popolano le prigioni del mondo, e  questi altri la cui vita si è sbriciolata di fronte ai muri e ad altre tecniche di frontierizzazione, che si tratti degli innumerevoli check pointsdisseminati su molti territori o dei mari, degli oceani dei deserti  e di tutto il resto?

Ieri e l’altro ieri non si parlava che di accelerazione di reti tentacolari, di connessioni che chiudevano l’insieme del globo nell’inesorabile meccanica della velocità e della dematerializzazione Si supponeva che fosse l’ambito digitale il contesto a partire dal quale pensare tanto il divenire degli insiemi umani e della produzione materiale quanto quello del vivente. Una logica ubiqua – supportata della circolazione ad alta velocità e della memoria aumentata – per cui sarebbe bastato «trasferire su un doppio digitale l’insieme delle competenze del vivente»[2]e il gioco era fatto. Stadio supremo della nostra breve storia sulla terra, l’umano avrebbe potuto essere finalmente trasformato in un dispositivo plastico. La via era apertaper realizzare così il vecchio progetto di un’ estensione infinita del mercato.

Nel cuore di quest’ubriacatura generale, è proprio questa corsa dionisiaca, descritta per altro in Brutalisme, che il virus viene a frenare senza tuttavia interromperla definitivamente, nella misura in cui l’ impianto complessivo resta immutato. L’ora è tuttavia sicuramente quella in cui si va verso il soffocamento, la putrefazione l’ingombro e la cremazione dei cadaveri, in una parola verso la risurrezione di corpi vestiti per l’occasione della loro più bella maschera funeraria e virale. Per gli umani la Terra  sarebbe dunque in procinto di trasformarsi in una ruota che mormora, in una necropoli universale? Fino a che punto giungerà il passaggio dei batteri dagli animali selvatici agli umani se di fatto, ogni 20 anni, circa 100 milioni di foreste tropicali – polmoni della terra – vengono tagliati?

Dall’inizio della rivoluzione industriale in occidente  circa l’85% delle delle zone umide sono state prosciugate. La distruzione degli habitat prosegue senza tregua e popolazioni umane in stato di salute precaria sono esposte quasi ogni giorno a nuovi agenti patogeni. Prima della colonizzazione gli animali selvatici che sono la principale riserva patogena, abitavano ambienti nei quali vivevano solo popolazioni isolate. E’ il caso per esempio degli ultimi paesi che vivono relativamente isolati come quelli del Bacino del Congo.

Oggi le comunità che vivevano e dipendevano dalle risorse naturali di questi territori sono state espropriate. Messe alla porta con la svendita delle terre a regimi tirannici e corrotti a con la concessione di vaste proprietà demaniali a consorzi agroalimentari esse non riescono più e mantenere le forme di autonomia alimentare ed energetica che avevano  permesso loro per secoli di vivere  in equilibrio con la foresta 

Non abbiamo mai imparato a morire

In queste condizioni un conto è preoccuparsi della morte degli altri da lontano. Un’altra è prendere improvvisamente coscienza della possibilità di putrefarsi, di dover dove vivere nella prossimità della propria di morte, di contemplarla in quanto possibilità reale. È questo, almeno in parte, il genere di terrore che suscita il confino a molti, l’obbligo di dover infine rispondere della propria vita e del proprio nome.

Rispondere qui ed ora della nostra vita su questa Terra con altri (virus compresi) e del nostro nome in comune, è  pur questa l’ingiunzione che questo momento patogeno rivolge alla specie umana.  Momento patogeno ma anche momento catabolico per eccellenza, quello della decomposizione dei corpi, della selezione e dell’eliminazione di ogni sorta di scarti-d’umano, una «grande separazione» e un grande confino, come risposta alla propagazione sconvolgente del virus e come conseguenza della digitalizzazione pervasiva del mondo

Per quanto si cerchi di liberarsene tutto ci riporta finalmente al corpo. Avremo tentato di innestarlo su altri supporti, di farne un corpo-oggetto, un corpo-machina, un corpo digitale, un corpo ontofanico. Esso torna a noi sotto la forma stupefacente di un’enorme mascella, veicolo di contaminazione, vettore di pollini, di spore, di muffa.

Sapere che non siamo soli in questa prova o che potremmo essere in molti a dover sloggiare non può che provocare un vano conforto. Perché non abbiamo mai imparato a vivere insieme al vivente, a preoccuparci veramente dei danni causati dall’uomo ai polmoni della terra e al suo organismo. Di fatto non abbiamo mai imparato a morire. Con l’avvento del Nuovo Mondo e, qualche secolo più tardi, con l’apparizione delle «razze industrializzate», abbiamo fodnamentalmente  scelto – con una sorta di vicariato ontologico – di fare dell’esistenza stessa un grande pasto sacrificale.

Orbene tra poco non sarà più possibile delegare la morte ad altri. L’altro non potrà più morire al nostro posto. Saremo condannati ad assumerci senza mediazioni il nostro proprio trapasso. Non solo:  di possibilità di dirsi addio ce ne saranno sempre meno.  L’ora dell’autofagia si avvicina, e con essa la fine della comunità poiché non vi è comunità degna di questo nome là dove dirsi addio, vale a dire celebrare la memoria del vivente, non è più possibile.

La comunità o piuttosto ciò che è in-comunenon poggia semplicemente sulla possibilità di dirsi arrivederci,auspicando e impegnandosi ad onorare un successivo appuntamento personale  con qualcuno. Ciò che è in-comune poggia anche sulla possibilità di una condivisione senza condizioni da riscoprire ogni volta in qualcosa di assolutamente intrinseco, vale a dire di incalcolabile, senza rendiconto, senza condizioni e dunque senza prezzo. 

Il digitale, nuovo cratere scavato nella terra da un’esplosione

Il cielo evidentemente non smette di oscurarsi. Costretta nella morsa dell’ingiustizia e delle inuguaglianze, una buona parte dell’umanità è minacciata da questo grande soffocamento e dal crescente sentimento secondo cui il nostro mondo vive uno stato di sospensione di pena. Se in queste condizioni un giorno ci sarà un day afternon potrà più essere alle spese di alcuni, e sempre degli stessi, come nella Vecchia economia.Dovrà necessariamente valere per tutti gli abitanti della terra senza distinzione di specie, di razza, di sesso, di cittadinanza, di religione  o di altri crieteri di differenziazione, In altri termini non potrà avvenire che al prezzo di una gigantesca svolta, frutto di una immaginazione radicale.

Una nuova mano di intonaco non basterà. Nel mezzo del cratere tutto sarà da inventare a partire dalla dimensione sociale. Perché quando lavorare, approvvigionarsi, informarsi, mantenere il contatto, nutrire e conservare i legami, parlarsi e scambiare, bere insieme, celebrare il culto o organizzare funerali non possono più aver luogo se non per interposto schermo, è ora di rendersi conto che siamo circondati da ogni parte da cerchi di fuoco. In ampia misura la dimensione digitale è il nuovo buco scavato nella terra dell’esplosione. Al contempo trincea,viscere e paesaggio lunare è il bunker dove l’uomo e la donna isolati sono invitati ad accucciarsi.

Grazie alla dimensione digitale il corpo in carne ed ossa, il corpo fisico e mortale verrà sgravato del proprio peso e della propria inerzia. Alla fine di questa trasfigurazione si potrà finalmente intraprendere il viaggio attraverso lo specchio sottratti alla corruzione biologica e restituiti all’universo sintetico dei flussi È un’illusione perché non vi può essere umanità senza corponé libertà senza società o alle spese della biosfera.

Guerra contro il vivente

Bisogna tuttavia ripartire, e, per i bisogni della nostra sopravvivenza, è imperativo ridare a tutto il vivente (biosfera compresa) lo spazio e l’energia di cui hanno bisogno. Nel suo versante notturno la modernità sarà stata dall’inizio alla fine un’interminabile guerra condotta contro il vivente. Ed è lungi dall’essere terminata. Il dominio digitale costituisce una delle modalità di questa guerra. Essa conduce senza scampo all’impoverimento del mondo e alla desertificazione di grandi parti del pianeta

Bisogna temere che nel day after, ben lungi dal fare santuario di tutte le specie viventi, il mondo torni sfortunatamente a un nuovo periodo di tensioni e di brutalità. Sul piano geopolitico, la logica della forza e della potenza potrebbe continuare a prevalere. In assenza di infrastrutture comuni si accentuerà una partizione feroce del globo e le linee di segmentazione si intensificheranno. Molti Stati penseranno a rafforzare le frontiere nella speranza di proteggersi da ciò che viene da fuori. Cercheranno anche di occultare  quella violenza costitutiva che scaricheranno come sempre abitudine sui più vulnerabili. Vivere dietro uno schermo e nelle enclavi protette da imprese di sicurezza private diventerà la norma.

In Africa, in particolare, e in molte regioni del Sud del mondo, l’estrazione energetica, le forme di espansione agronomica e la predazione sulla base della svendita delle terre e della distruzione delle foreste continueranno, dato che sono necessarie all’alimentazione e al raffreddamento dei supercalcolatori . L’approvigionamento e la distribuzione delle risorse e dell’energia necessarie all’infrastruttura della digitalizzazione planetaria si faranno a spese di una ulteriore grande limitazione della mobilità umana. Mantenere il mondo a distanza diventerà la norma, per espellere rischi di ogni sorta. Ma poiché non è legata alla nostra precarietà ecologica, questa visione catabolica del mondo ispirata alle teorie dell’immunizzazione e del contagio non ci permetteranno di uscire dall’impasse planetaria nella quale ci troviamo.

Il diritto fondamentale all’esistenza

Delle guerre condotte contro il vivente si può dire che la loro prima proprietà sarà stata di togliere il respiro.

In quanto ostacolo di fondo al respiro e alla rianimazione dei corpi e dei tessuti umani il Covid-19 si inscrive nella stessa traiettoria.  In effetti in che cosa consiste la respirazione se non nell’assorbimento di ossigeno e nell’espulsione di anidride carbonica o ancora in uno scambio dinamico tra sangue e tessuti? Ma per come sta procedendo la vita sulla Terra e considerando ciò che resta della ricchezza del pianeta vien da chiedersi se non ci avviciniamo a un’epoca in cui ci sarà più anidride carbonica da inalare che ossigeno.

Prima di questo virus l’umanità era già minacciata di soffocamento. Se guerra ci deve essere, dev’essere non contro un virus in particolare ma contro tutto ciò che condanna la maggior parte dell’umanità all’arresto prematuro del respiro, contro tutto ciò tutto ciò che attacca le vie respiratorie, contro tutto ciò che nella lunga durata del capitalismo avrà confinato ampi segmenti della popolazione  e razze intere a una respirazione difficile, affannata, a una vita pesante. Ma per uscirne bisognerà iniziare a comprendere la respirazione al di là dei suoi aspetti biologici, come ciò che ci accomuna e che per definizione, sfugge a ogni calcolo.  In tal modo stiamo evocando un diritto universale al respiro.

Nella misura in cui è al contempo extra-territoriale e suolo comune il diritto universale al respiro non è quantificabile. Non sarebbe possibile appropriarsene. E’ un diritto in termini di universalità non solo di ogni membro della specie umana ma del vivente nel suo insieme. Bisogna dunque comprenderlo come un diritto fondamentale dell’esistenza. In quanto tale non può essere confiscato e sfugge di fatto a ogni sovranità poiché ricapitola in sé il principio sovrano. Ed è in ogni caso  un diritto originario d’abitazionedella Terra,un diritto proprio alla comunità universale degli abitanti della terra umani e non[3].

Coda

Il processo è stato intentato mille volte. Si possono recitare a occhi chiusi i principali capi d’accusa. Che si tratti della distruzione della biosfera, della messa in quarantena dello spirito da parte della tecnoscienza, della disintegrazione delle resistenze, degli attacchi ripetuti contro la ragione, del rimbecillimento degli spiriti, del trionfo dei determinismi  (genetici, neuronali, biologici, ambientali), i pericoli per l’umanità sono sempre più esistenziali.

Di tutti questi pericoli il più grande è costituito dalla possibilità che ogni forma di vita venga resa impossibile. Tra coloro che sognano di caricare digitalmente la nostra coscienza su delle macchine e quelli che sono persuasi che la prossima evoluzione della specie consista nella liberazione dalla nostra matrice biologica, lo scarto è insignificante. La tentazione eugenetica non è scomparsa, al contrario, è alla base dei progressi recenti delle scienze e della tecnologia.

Su questi antefatti sopravviene questo brusco colpo d’arresto, non della storia, ma di qualcosa che è ancora più difficile da cogliere. In quanto forzata questa sospensione non dipende dalla nostra volontà. Da più punti di vista  è a un tempo imprevista e imprevedibile. Ma è di una sospensione volontaria, consapevole pienamente accettata di cui abbiamo bisogno, in mancanza della quale non ci sarà un futuro. Non ci sarà che una serie ininterrotta di eventi imprevisti.

Se, di fatto, il Covid-19 è l’espressione spettacolare dell’impasto planetario nel quale l’umanità si trova allora la sfida è quella di ricomporre una terra abitabile che offra a tutti la possibilità di una vita rispettabile. Né più né meno. Si tratta dunque di ripensare le istanze del mondo per costruire nuovi territori. L’umanità e la biosfera sono interdipendenti. Non vi è avvenire per questa senza quella.

Saremo capaci di riscoprire la nostra appartenenza alla stessa specie, il nostro inscindibile legame con l’insieme del vivente? Questa è forse la domanda giusta, l’ultima prima che non si chiuda una volta per tutte la porta.


[1]Achille Mbembe et Felwine Sarr, Politique des temps, Philippe Rey, 2019, p. 8-9

[2]Alexandre Friederich, H+. Vers une civilisation 0.0, Editions Allia, 2020, p. 50

[3]  Sarah Vanuxem, La propriété de la Terre, Wildproject, 2018 ; et Marin Schaffner, Un sol commun. Lutter, habiter, penser, Wildproject, 2019

Per un archivio dei sogni

Condivido dopo questa premessa, parti di un ottimo articolo di Piero Pagnotta su Mondo Operaio n.3 del 2019 che riassume lo spirito con cui Charlotte Berardt raccolse “I sogni del Reich” negli anni Trenta. Il libro ha anche una brillante postfazione di Bruno Bettleheim lo psicoanalista viennese sopravvissuto a Dachau e Buchenwald. Bettleheim scriveva :

«L’ angoscia è il fondamento sul quale si costruiscono i sistemi autoritari (…) lo stato di polizia vince nella misura in cui riesce ad amplificare la debolezza interore e a sfiancare la capacità di resistenza. Alcuni si salveranno dalla distruione delle loro vite interiori perché sono stati in grado di resistere al Terzo Reich anche se solo in sogno. (…) Chi è capace già sul piano onirico i dire sì o no in modo chiaro potrebbe non essere colpito nella stessa misura, ma poiché la maggior parte delle persone non esprime un inequivocabile sì o jo il rischio di un altro Terzo o direi Qauro Reich che possa opprmere le nostre vite ineriori ed esteriori ci accompagna ancora»

Questa proposizione interroga sia la nozione di incoscio che quella di vita onirica.

Possiamo provare a ragionare su alcuni aspetti della funzione onirica:

  1. La dimensione metatemporale (Freud) propria del sistema inconscio (oceanico e sconosciuto per definizione!) in cui si condensano, accavallano e stratificano le vicende biografiche, le eredità familiari, culturali, sistemiche, le ferite non elaborate, le prospettive non coltivate, il rapporto con il potere e la dipendenza, i semi del futuro, dove il presente e il passato si congiungono in modo fulmineo per risvegliare il sognatore
  2. La funzione di compensazione che rivela ciò che abbiamo tralasciato o di cui avremmo bisogno (Jung) nella realizzazione allucinatoria dei desideri (Freud) ma anche nel tentativo di metabolizzare ciò che può essere digerito o di alludere a ciò che apprentemente non può esserlo (Bion)
  3. Da qui discende la funzione di cui parla Bettleheim (eanche Fornari) – quella di ricapitolazione delle scelte, delle alternative, dei labirinti e dei vicoli ciechi con cui il sognatore riesce o meno a fare i conti. L’inconscio ha una dimensione sociale e politica non offre semplici soluzioni ma interpella la coscienza nella sua possibilità di scelta, orientamento riflessione.

Allora in risonanza con il lavoro di Berardt sui sogni del Reich ci sarebbe da lavorare analogamente per raccogliere un archivio dei sogni in tempo di pandemia: di cosa parlano, a cosa alludono, a quali vincoli e a quale ricerca desiderante. Quali sbocchi alternativi propongono a quel  delirio che chiamiamo normalità?

Qualcun recentemente mi racconta di aver sognato una situazione labirinto ansiogena da cui desiderava uscire a tutti i costi con un accenno di panico – quando con molta fatica ci riusciva si rendeva conto che era stata una scorciatoia, una forzatura che nel labirinto non aveva affrontato l’enigma che si poneva e che invece solo affrontandolo ciò avrebbe consentito una uscita ‘giusta’….

Questa mi sembra una tipologia che ricorre in sogni di più persone

Naturalmente altri sogni parlano di un rapporto mutato e cruciale con la natura. Ma è prematuro tracciarne il disegno….

Invito dunque a segnare, raccogliere i sogni e magari troveremo il modo di condividerli, riusciremo a individuare delle forme, delle tipologie dei temi ricorrenti che per vie sotterranee e traverse ci riconnettono a un lavoro politico di soggettività condivisa!

Di seguito Piero Pagnotta

GLI INCUBI DEGLI ANNI TRENTA 

Più non dormirai, Macbeth assassina il sonno!

William Shakespeare 

Charlotte Beradt, Lausitz 1907 –  New York 1986, era una giornalista tedesca di religione ebraica; fu testimone della crisi della repubblica di Weimar, delle brutalità che accompagnarono la presa del  potere da parte dei nazisti, della repressione di ogni dissidenza, delle violenze ai danni degli ebrei.  Non meraviglia che in quel drammatico clima i suoi sonni fossero popolati da incubi; scoprì che anche altri ne erano vittime e decise, era il 1933, di redigere una raccolta di sogni di cittadini tedeschi, non solo ebrei, convinta che potessero rappresentare una testimonianza importante di quanto avveniva nel suo Paese. La Beradt era consapevole dei rischi che correva in quanto ebrea e con la sua indagine; si rivolse solo a persone fidate raccogliendo oltre trecento testimonianze, premurandosi di mascherare i termini dei suoi scritti: scriveva “famiglia”al posto di “ partito”o “zio Hans”

 invece di Hitler; spediva i suoi appunti a indirizzi sicuri all’estero. Infine, nel 1939, fuggì negli Stati Uniti interrompendo la sua indagine. Nel 1943 pubblicò un articolo, Dreams under dictatorship,

 in cui riassumeva gli intenti e i risultati della sua ricerca; nel dopoguerra ne parlò in una trasmissione radio tedesca e solo nel 1966 ne ffece una pubblicazione. Il libro della Beradt colpisce per la sua semplicità espositiva, l’autrice non cerca in alcun modo di rivestire panni clinici o filosofici, si limita a riportare i racconti onirici, veri e propri incubi, dei suoi intervistati. Convinta che nei sogni si nascondesse un senso dimostrabile, che da quelli si potesse risalire alla realtà effettuale, voleva mettere in luce quanto stava avvenendo in Germania. Era giustamente consapevole che: 

le immagini oniriche avrebbero potuto contribuire all’ interpretazione della struttura di una realtà che stava trasformandosi in un incubo”

 I sogni, a suo vedere, ben riflettevano le condizioni drammatiche in cui si erano venuti a trovare i tedeschi sotto il governo di Hitler. Che si trattasse del lattaio, della sarta, di un vicino, giovane o anziano, nei loro sogni emergevano i fantasmi persecutori provocati da un regime totalizzante. A turbare i sonni erano:

i conflitti provocati dalla realtà pubblica, con le sue informazioni parziali, i suoi mezzi  presagi, dati di fatto, voci, supposizioni e il conseguente accumulo di tensioni.

Gli incubi erano una rappresentazione chiara della vita quotidiana, le conseguenze di una politica che si ripercuoteva sui cittadini. E nonc’è bisogno di raffinate chiavi interpretative, la lettura è immediata, i sognanti stessi sono i primi a esserne consapevoli; i sogni raccolti sono emblematici, espongono i timori ma anche i desideri di gente comune. Per brevità ne riassumo solo alcuni: un piccolo imprenditore, da sempre sostenitore del partito socialdemocratico, sogna che Goebbels visiti la sua fabbrica, che faccia schierare tutte le maestranze e ordini di levare il braccio nel saluto nazista, ma l’imprenditore non riesce a sollevarlo, o almeno solo un poco a prezzo di lunghi e dolorosi sforzi, e viene insultato pubblicamente. Una signora sogna che la polizia possieda un congegno con il quale possono essere letti i pensieri dei cittadini e grazie a quel marchingegno lei viene accusata di odiare Hitler e arrestata tra una folla che la ricopre di sputi. Una professoressa di matematica sogna che è stata fatta una legge che proibisce di annotare tutto ciò che ha a che fare con la matematica; lei allora si nasconde in un bar frequentato da ubriaconi e scrive su un foglietto di carta con inchiostro simpatico alcune equazioni. Una casalinga sogna che tutte le sere una SA si insedia nel suo salotto per ascoltare e registrare ogni conversazione; un funzionario sogna che orecchie vengono incollate a tutte le pareti; un ortolano sogna che un suo vecchio cuscino ricamato riporti a voce alta quanto si è detto in famiglia. Una ragazza che ha un naso adunco sogna in continuazione di smarrire i suoi documenti e di essere arrestata e deportata perché ritenuta un’ebrea. Un ventiseienne sogna di sfilare in parata con le SA ma lui solo è in abito civile, lo vogliono per questo picchiare ma arriva Hitler che invita a lasciarlo stare, ad accoglierlo nei ranghi. Una domestica sogna di trovarsi ad uno spettacolo riservato ai membri del partito nazista, ha paura  perché sa di non avere i requisiti per partecipare ma arriva Hitler che le si siede accanto e le cinge le spalle con un braccio. Una ragazza che aveva una nonna ebrea sogna di passeggiare con Hitler e tutti la guardano con ammirazione.Un avvocato e notaio berlinese sogna di andare ad un concerto ma scopre che il suo biglietto è solo una pubblicità e al suo posto siede un’altra persona. Una casalinga sogna di non poter più rientrare in casa, si reca a casa della suocera ma è abitata da estranei, cammina per la città ma è tutto cambiato, non riesce a riconoscere le strade, vaga sotto la  pioggia senza meta. Le rappresentazioni oniriche mostrano le paure determinate da un mondo irreparabilmente cambiato: leggi oppressive, figure minacciose, desideri di adeguamento, spaesamento, fantasie di fuga. Sono letture chiare del presente, anticipano quando sta per accadere. Charlotte Beradt, grazie ai suoi sogni, a quelli di altri, saggiamente decise di fuggire negli USA; i più restarono e pagarono un prezzo altissimoUna citazione a parte merita la postfazione al libro redatta da BrunoBettelheim. Questi rileva come un potere dispotico possa uccidere il sonno e impedire il rinnovo delle energie emotive attraverso i sogni; un regime può opprimere i suoi oppositori anche costringendoli a sognare in un modo determinato. Bettelheim invita a imparare dai sogni quando dobbiamo vivere in situazioni difficili, diverse dalle nostre aspettative, perché le fantasie oniriche proseguono i pensieri presenti nella veglia e ci parlano di una vita interiore di cui il sognatore non è consapevole: “perché il sogno va direttamente al nucleo emotivo del problema quale che sia il complesso travisamento e il sognatore può facilmente scrutare in profondità la natura vera del sistema.

Sottolinea come ogni regime dispotico si alimenti su profonde e rimosse angosce infantili.In sostanza il libro della Beradt è una raccolta di racconti ammonitori, vi traspare una umanità sottomessa, timorosa, alla ricerca di un compromesso, ma avvertita di pericoli maggiori che incombono. E una vita onirica dolorosa può metterci sull’avviso, segnalarci i motivi profondi di una sofferenza, indicarci quanto non abbiamo il coraggio di vedere a occhi aperti perché si preferisce sperare in una sistemazione degli eventi, perché ci aggrappiamo a una speranza quando magari  bisognerebbe solo dare ascolto all’istinto di sopravvivenza. Viene da pensare quanto interessanti avrebbero potuto essere indagini analoghe ai tempi del Terrore nella Francia rivoluzionaria, durante la repressione staliniana, ma anche in epoche meno drammatiche, quando non è la sopravvivenza a essere minacciata ma il futuro dei figli, la convivenza civile, i risparmi, quando si è governati da una cultura politica intrisa di pregiudizi. E un lavoro analogo a quello della Beradt potrebbe essere fatto anche oggi. Certo non siamo sotto il tallone del nazismo ma è indubbio che stiamo assistendo a cambiamenti epocali, sociali ed economici (…)

/var/folders/1_/nqhj8yms50z9hdcs9580wtyr0000gp/T/com.microsoft.Word/WebArchiveCopyPasteTempFiles/3-561734920d.jpg

Immaginare gesti-barriera contro il ritorno alla produzione pre-crisi

Ripubblichiamo in approssimativa traduzione per chi ci segue un importante testo di Bruno Latour pubblicato su AOC (analyse, opinion, critique)

C’è probabilmente qualcosa di sconveniente nel proiettare noi stessi verso il dopo crisi nel momento in cui il personale sanitario è come si dice “al fronte”, che milioni di persone perdono l’impiego e che molte famiglie in lutto non possono nemmeno sotterrare i loro morti: E tuttavia è proprio adesso che bisogna battersi perché la ripresa economica una volta passata la crisi non torni allo stesso regime climatico contro il quale abbiamo tentato finora abbastanza vanamente di combattere.

In effetti l’attuale crisi sanitaria è incapsulata in qualcosa che non si può definire crisi – per  definizione una crisi è sempre passeggera  – ma in una mutazione ecologica duratura e irreversibile. Se avremo la buona fortuna di uscire dalla prima situazione (dalla crisi), non  avremo la medesima fortuna con la seconda. Le due situazioni non hanno la stessa scala ma è illuminante articolarle e osservarle in congiunzione. In ogni caso sarebbe un peccato  non fare buon uso della crisi sanitaria per scoprire altri modi di affrontare la mutazione ecologica senza ricorrere alla solita cecità.

La prima lezione che il coronavirus ci offre è la più stupefacente: si è dimostrato in effetti che in qualche settimana è stato possibile sospendere ovunque nel mondo e allo stesso tempo un sistema economico che ci veniva detto essere impossibile rallentare o reindirizzare. A tutti gli argomenti ecologici sul cambiamento dei nostri stili di vita veniva sempre opposta la tesi della forza irreversibile del “treno del progresso” che nulla poteva far deragliare  “a causa” si diceva “della globalizzazione”. Orbene è proprio questa caratteristica globalizzata che rende così fragile tutto questo grande sviluppo, che abbiamo verificato essere al contrario esposto a una grande frenata e a un totale arresto.

In realtà non ci sono solo le multinazionali o gli accordi commerciali o internet o i tour operatorcome agenti di globalizzazione del pianeta: ogni entità di questo stesso pianeta ha un modo suo di agganciare gli altri elementi che compongono, in un dato momento, la collettività. Questo è vero per il CO2,  che scalda l’atmosfera globale, diffondendosi nell’aria; per gli uccelli migratori che trasportano nuove forme di influenza ed è anche vero – e lo riapprendiamo dolorosamente – per il coronavirus la cui capacità di connettere “tutti gli umani” passa per il tramite apparentemente inoffensivo delle particelle di saliva che facciamo circolare. Ogni globalizzatore non contagi più di un globalizzatore e mezzo: e ora bisogna risocializzare miliardi di umani perché siamo noi che facciamo circolare i microbi!

Non sono solo gli ecologisti a vedere in questa pausa improvvisa nel sistema di produzione globalizzata  una formidabile occasione di portare avanti il loro programma di atterraggio.

Ne consegue. una scoperta incredibile: nel sistema economico mondiale c’era pure, ben nascosto, un segnale d’allarme molto chiaro. Un bel freno d’acciaio temprato che i capi di Stato uno per uno potevano tirare per fermare il “treno del progresso”. Se la richiesta di virare di 90° per trovare una rotta che ci riporti a terra ancora a gennaio pareva una pia illusione essa diventa molto più realistica: ogni automobilista sa che per avere una possibilità di sterzare per salvarsi senza finire fuori strada è bene aver prima rallentato…

Sfortunatamente quest’improvvisa pausa nel sistema di produzione globalizzato non costituisce solo un’occasione formidabile per gli ecologisti e per il loro programma di atterraggio. I globalizzatori che dalla metà del 20º secolo hanno immaginato di sfuggire ai vincoli planetari contemplano anch’essi una opportunità formidabile per rompere ancor più radicalmente con ciò che ancora ostacola la loro fuga dal mondo. L’occasione è troppo ghiotta: l’occasione di disfarsi di ciò che resta del Welfare, della rete di sicurezza per i più poveri, di ciò che resta delle regolamentazioni contro l’inquinamento e più cinicamente di sbarazzarsi di tutte quelle persone in soprannumero che ingombrano il pianeta.

Non dimentichiamo in effetti che è necessario ipotizzare che questi globalizzatori siano pienamente consapevoli della mutazione ecologica. E che tutti loro sforzi,  da cinquant’anni a questa parte, vanno nel senso non solo di negare la rilevanza del cambiamento climatico  ma anche di costruire bastioni fortificati di privilegi che devono restare inaccessibili a tutti quelli che vanno lasciati fuori. Non solo non sono coì ingenui da credere al grande sogno modernista della condivisione dei “frutti del progresso”, ma hanno anche smesso di propagandarne l’illusione.

Sono loro che si esprimono ogni giorno su Fox news e che governano tutti gli Stati climato-scettici del pianeta, da Mosca a Brasilia e da New Delhi a Washington passando per Londra.

Se tutto si ferma tutto può essere rimesso in discussione

Ciò che rende la situazione così pericolosa non è solo il fatto dei morti che si accumulano ogni giorno di più. È la sospensione generale di un sistema economico che offre a coloro che vogliono andare molto più in là nella fuoriuscita dal mondo planetario una ottima occasione di “rimettere tutto in discussione”. Non bisogna dimenticare che ciò che rende questa forma di globalizzazione così pericolosa è che loro sanno già di aver perso, che la negazione della mutazione climatica non può durare indefinitamente, che non vi è più alcuna possibilità di riconciliare il loro modello di “sviluppo” con i diversi contesti planetari nei quali bisognerà pur prima o poi riuscire a inserire l’economia. E’ ciò che li rende pronti a tentare il tutto per tutto per estrarre per un’ultima volta le condizioni che permetteranno loro di durare un po’ più a lungo e di mettere al riparo se stessi e i loro figli. L’ ”arresto” del mondo, questo improvviso colpo di freno, questa pausa imprevista offre loro un’ occasione per darsi ancor più rapidamente alla fuga e di andare più lontano di quanto non avrebbero mai immaginato. Per il momento i rivoluzionari sono loro.

Ed è qui che è necessario agire. Se l’occasione si presenta a loro si presenta anche a noi. Se tutto è fermo tutto può essere rimesso in discussione, declinato, selezionato messo alla prova, interrotto per sempre o al contrario accelerato. L’inventario di fine anno bisogna farlo adesso. Alla domanda di apparente buon senso “facciamo ripartire la produzione il più rapidamente possibile bisogna rispondere gridando “Assolutamente no!” –  La cosa peggiore  sarebbe di ripartire in modo identico con tutto quello che facevamo prima.

Per esempio ,l’altro giorno la televisione presentava la storia di un fiorista olandese con le lacrime agli occhi obbligato a  buttare tonnellate di tulipani pronti per l’invio e che non poteva più spedire per via aerea al mondo intero per mancanza di clienti. Naturalmente non si può che compatirlo ed è giusto che sia indennizzato. Ma poi la videocamera mostrava che i suoi tulipani venivano fatti crescere sottoterra alla luce artificiale prima di essere consegnati per spedirli via cargo dell’aereoporto di Schiphol in una pioggia di cherosene. E allora sale un dubbio: ”ma è proprio necessario e utile continuare questa modalità di produrre e a vendere questo genere di fiori?”

Come interrompere efficacemente questo genere di globalizzazione

Passo a passo se iniziamo ognuno per sé a porre tali questioni su tutti gli aspetti del nostro sistema di produzione diventiamo altrettanto efficaci interruttori della globalizzazione, per i milioni che siamo,  quanto quel famoso coronavirus che ha un modo suo proprio di globalizzare il pianet. Ciò che il virus ottiene con degli umili sputacchi di bocca in bocca e cioè la sospensione dell’economia mondiale, noi possiamo cominciare a immaginarla a partire da piccoli gesti insignificanti ma che si possono anch’essi accumulare generando la sospensione di un dato sistema di produzione. Ponendoci questo genere di domande ognuno di noi si metta a immaginare dei gesti-barriera ma non solo contro il virus: contro ogni elemento di cui non auspichiamo la ripresa produttiva.

 Non si tratta più di riprendere o declinare un sistema di produzione ma di uscire dalla produzionecome principio unico di rapporto al mondo. Non si tratta di rivoluzione ma di  dissoluzione, pixel dopo pixel- Come lo dice bene Pierre Charbonnier dopo 100 anni di socialismo limitato alla sola ridistribuzione dei benefici economici sarebbe forse ora di inventare un socialismo che contesti la produzione stessa.Perché l’ingiustizia non consiste nella sola ridistribuzione ineguale dei frutti del progresso ma nel modo stesso di far fruttareil pianeta. Ciò non significa decrescere o vivere d’amore e d’acqua fresca ma imparare a selezionare ogni segmento di quel famoso sistema che si pretende irreversibile e di mettere in discussione ognuna delle connessioni che vengono pensate come indispensabili e  di mettere alla prova tra di noi ciò che è desiderabile e ciò che ha smesso di esserlo.

Screenshot 2020-04-02 23.03.26.png

Da cui l’importanza capitale di utilizzare questo tempo di isolamento per descrivere innanzitutto a noi stessi e poi in gruppo ciò a cui teniamo; ciò di cui vorremmo liberarci; le catene che siamo pronti a ricostituire; e quelle che col nostro comportamento abbiamo deciso di destituire.  Quanto ai globalizzatori , essi sembrano avere un’idea molto precisa di ciò che vogliono vedere rinascere dopo la ripresa:  la stessa cosa di prima ma in peggio: dalle industrie petrolifere ai giganti battelli da crociera. Sta a noi opporre loro un contro-inventario. Se in un mese o 2 qualche miliardo di esseri umani sono in grado di prendere le misure di questo nuovo “distanziamento sociale”, di allontanarsi per essere più solidali,  di restare a casa propria per non ingombrare gli ospedali, possiamo anche immaginare il potenziale di trasformazione di questi nuovi gesti-barrieralevati contro la ripresa dell’medesimo o peggio ancora conto un nuovo colpo di grazia da parte di coloro che vogliono sfuggire una volta per tutte all’attrazione terrestre.

Un dispositivo per aiutare il discernimento

Dato che è  sempre buona cosa collegare un argomento a esercizi pratici, proponiamo ai lettori di cercare di rispondere a questo piccolo inventario che sarà ancora più utile se si appoggerà un’esperienza personale vissuta direttamente. Non si tratta solo di esprimere un’opinione che vi verrebbe in mente ma di descrivere una situazione e forse di prolungarla con una piccola inchiesta. E solo in un secondo tempo se vi darete modo di ricombinare le risposte per ricomporre il paesaggio creato dalla sovrapposizione delle descrizioni  potreste trovare un’espressione politica incarnata e concreta ma non prima.

Attenzione questo non è un questionario né  un sondaggio ma un aiuto all’autodescrizione.

Si tratta di fare una lista di attività di cui vi sentite privati dalla crisi attuale e che vi danno la sensazione di toccare condizioni essenziali di sussistenza. Per ogni attività potreste indicare se vorreste che riprendessero (come prima) in modo identico, o in modo migliore e potenziato o che non riprendessero affatto. Rispondete alle seguenti domande:

prima domanda:quali sono le attività ora sospese che vi augurate non riprendano più?

seconda domanda: descrivete a) perché tali attività vi appaiono nocive, superflue, pericolose, incoerenti. b) in che cosa la in che modo la loro scomparsa o sospensione faciliterebbero altre attività che ritenete più facili e più coerenti. (scrivete un paragrafo in questo senso per ognuna delle risposte date alla domanda 1)

terza domanda: quali misure ipotizzate per aiutare gli operai  gli impiegati, i rappresentanti e gli imprenditori che non potranno più continuare nell’attività soppressa per facilitare la transizione verso altre attività?

quarta domanda:quali sono le attività ora sospese che vi augurereste si sviluppino/riprendano o quelle che dovrebbero essere inventate in loro sostituzione

quinta domanda:a) descrivete perché tali attività vi appaiono positive b) come renderebbero più facili/armoniose/coerenti altre attività che ritenete favorevoli e c) come permetterebbero di lottare contro quelle che giudicate sfavorevoli. (scrivete un paragrafo in questo senso per ognuna delle risposte date alla domanda 4)

sesta domanda:  quali misure auspicate per aiutare operai, impiegati, rappresentanti, imprenditori aad cquisire le capacità,i mezzi, le entrate, gli strumenti che permettano la ripresa e lo sviluppo la creazione di queste attività.

(trovate in seguito un modo per confrontare la vostra descrizione con quelle di altri partecipanti.

Compilare e poi sovrapporre le risposte dovrebbe disegnare un po’ alla volta un paesaggio composto di linee di conflitto, alleanze, controversie e opposizioni.