Sulla pulsione anarchica

dalla serie tv The Underground Railroad

Il padrone, lo schiavo e la paura della morte

Negli aspetti gerarchici e coloniali che animavano la sua dialettica Hegel è stato il primo a rappresentare l’assoggettamento nella dinamica tra schiavo e padrone come una carenza nel principio di soggettivazione dei “deboli”, incapaci di assumere con coraggio la sfida anche mortale che la lotta per il dominio implica. Disconoscendo così che il prevalere del padrone è legato storicamente alla disparità delle forze in campo e non alla debolezza morale degli schiavi.  E ignorando, tra l’altro, la resistenza dei molti che preferirono la morte alla schiavitù senza per altro diventare “padroni”.

Paul Gilroy evoca opportunamente quella riflessione femminista che rifiuta la logica della negatività che farebbe della donna o dello schiavo una sorta di doppio (più o meno) irrazionale che cede per primo e per paura di morire. Secondo la famosa tesi di Hegel, lo schiavo sceglierebbe la servitù per non rischiare la morte e la sconfitta anche se poi attraverso l’esperienza subalterna trasforma il mondo col proprio lavoro e finisce per condizionare chi lo domina se non a prendere coscienza di come sottrarsi al suo dominio. (Questo aspetto fu poi amplificato dall’interpretazione marxista della dialettica hegeliana).

È proprio qui che va distinta la servitù volontaria immaginata da Hegel dalla verità storica della schiavitù. Vi è una dimensione primaria nell’esperienza della schiavitù cui va restituita pregnanza storica dal punto di vista dell’esperienza subalterna non a partire dalla paura della morte ma a partire dall’esperienza del male, del malheur come diceva Simone Weil, cioè da una condizione di esclusione estrema, di perdita, smarrimento, malattia, persecuzione. A partire, dunque, dalla vulnerabilità messa in gioco ed evidenziata non solo dalla condizione umana ma dagli squilibri della storia.

In realtà gran parte della narrazione della schiavitù evidenzia che lo schiavo affronta ben più del padrone dislocazioni e paure radicali. E che avendo un confronto così serrato con la morte propria e dei propri cari che sceglie sovente la ribellione in condizioni impossibili. Il registro delle assicurazioni Lloyd permette di ricostruire alcuni aspetti della resistenza aperta alla schiavitù. Dalla data di fondazione, il 1689, i registri rivelano i dettagli dei danni subiti dalle navi degli schiavisti. In più del diciassette per cento dei casi i danni furono legati a ribellioni locali o a saccheggi, spesso da parte deglistessi schiavi assistiti dalle popolazioni locali.

Dalle rivolte dimenticate alla scelta del suicidio, dal marronage haitiano alle comunità ribelli dei quilombo brasiliani, dal sincretismo religioso che preservava e intrecciava l’ethos orginario nei rituali coloniali alla undergound railroad per fuggire dagli stati schiavisti degli USA il patrimonio di resistenza degli schiavi inizia oggi non solo a essere riconosciuto ma a rivelarci molto della nostra storia nascosta.

Lo studio della schiavitù rivela dunque che gli aspetti più distruttivi della modernità possono essere colti solo a partire dalla storia e dalle storie degli oppressi. Che spesso prendono la forma di una relazione radicale con la morte per non tradire la vita. Questo coraggio è una forma di biofilia estrema come risposta alla “necrofilia” colonialista.  La psicoanalisi ha del resto ipotizzato che esista una corrente della pulsione di morte che si esprime nel godimento cieco del dominio, dell’abuso, dello sfruttamento e della negazione del vivente. La necrofilia, appunto, che, come ha mostrato Achille Mbembe, si esprime nelle necropolitiche della modernità. Ma un’altra corrente della stessa pulsione può essere arruolata al servizio della vita. Gilroy rende paradigmatica la terribile storia di Margaret Garner, che è stata efficacemente romanzata dal famoso romanzo di Tony Morrison, Beloved.

Nel 1856, approfittando dell’inverno che gelava il fiume Ohio, Margaret fuggì dalla schiavitù su una slitta tirata da un cavallo col marito Simon, i genitori di lui, quattro figli e altri nove schiavi. In Ohio la famiglia si separò dagli altri, e cercò rifugio a casa di un parente. La casa fu ben presto circondata da un gruppo dicacciatori di schiavi guidati da Archibald Gaines, il padrone da cui erano fuggiti. Ci fu una sparatoria e dopo essere stati respinti una prima volta gli schiavisti penetrarono in casa. Margaret di fronte alla piega disperata assunta dagli eventi uccise la sua bambina di tre anni con un coltello da macellaio perché – come disse a Lucy Stone, un’abolizionista che la visitò in carcere – non soffrisse quello che, come schiava, aveva sofferto lei.

La successiva battaglia legale fu lunga e controversa. Margaret chiedeva di essere processata – perché questo avrebbe comportato la trasformazione del suo statuto giuridico di “proprietà” di “cosa”.  In quanto processabile sarebbe stata riconosciuta degna di essere trattata dalla legge come gli altri umani. Alla fine il processo non le fu concesso – con quanto schiava non le venne riconosciuto il diritto di essere giudicata – e fu riconsegnata al suo padrone che la rivendette al mercato di New Orleans.

Gilroy sottolinea che la storia di Margaret Garner evidenzia

«il suo rifiuto di concedere una qualsiasi legittimità alla schiavitù che avvallasse la dialettica della dipendenza e del riconoscimento intersoggettivo che l’allegoria di Hegel [su schiavo e padrone] suggerisce comecondizione fondante la modernità» [Gilroy, 1993, p. 68].

Su una cosa Hegel aveva ragione, scegliere la morte piuttosto che la schiavitù – fare qualcosa della morte o del rischio della morte – comporta una tensione all’universale che pare trascendere la contingenza a cui l’umano è costretto da altri umani.

Necrofilia, elaborazione paranoica del lutto e pulsione anarchica

La scelta della morte nel caso estremo di Margaret, o il “diritto alla buona sepoltura” – testimonianza come scrive Judith Buter  che tutte le vite sono degne di lutto -possono allora essere interpretate come forme “diversamente estreme” di resistenza culturale in situazioni in cui il trionfo dell’ingiustizia necrofila sembra assoluto. Sono il testamento dell’aspirazione a una buona vita, il negativo non come mancanza e resa ma come unica forma di affermazione della convinzione profonda nella possibilità di creare, là dove la pulsione di morte si rovescia in testimonianza resiliente della pulsione di vita. La psicoanalista francese Nathalie Zaltzmann [Zaltzmann, 1998] ha parlato a questo proposito di pulsione anarchica. Dove i rapporti di forza sono disperatamente impari solo le risorse di resistenza che si innescano su una corrente pulsionale libertaria sono capaci di rischiare il tutto per tutto e riescono ad affermare comunque e nonostante tutto il diritto alla vita anche attraverso la rinuncia alla non-vita della schiavitù. Si può ragionare sulla dimensione antisociale e individualista attivata dall’energia dissociativa della pulsione di morte e tuttavia essa è l’ultima risorsa contro le dimensioni regressive, livellanti, illusoriamente idilliache, di quell’«amore ideologico», in cui trionfa la dimensione collettiva dell’identificazione gregaria con un leader carismatico, o con una forma sociale, con una ideologia totalizzante, o con la mitologia invisibile del dominio e del controllo che anima anche la modernità,  insomma là dove la pluralità di forme di vita – il bene comune delle differenze – non si può manifestare.

Zaltzmann postula due destini della pulsione di morte, il primo meramente distruttivo e il secondo che utilizza la medesima pulsione per rovesciare la distruttività stessa e per liberare energie vitali.

In questo caso:

« la pulsione di morte lavora contro le forme di vita consolidate e contribuisce a rinnovarle. Il movimento anarchico nasce quando ogni forma di vita possibile crolla; trae la sua forza dalla pulsione di morte e la ribalta volgendola contro il portato distruttivo della stessa (…) La storia del grido “Viva la Muerte” è la metafora esemplare dei due possibili destini della pulsione di morte. Viva la Muerte è stata la parola catalizzatrice del sollevamento nazionale degli spagnoli contro Napoleone (maggio 1808). Nonostante una sproporzione formidabile tra i ribelli autoctoni e le truppe imperiali, l’occupante non riuscì a domare l’insurrezione che durò cinque anni e si concluse con l’espulsione dei francesi dalla Spagna. Era già un appello libertario. Fu ripreso dagli anarchici spagnoli mezzo secolo dopo come grido rivoluzionario contro una vita di ingiustizie. E ripreso dai franchisti contro gli anarchici, come l’altro destino della pulsione di morte, quello di una pulsione distruttrice e mortifera [Zaltzmann, 1998, pp. 140-141].

Analogamente, negli anni Sessanta del secolo scorso lo psicoanalista italiano Franco Fornari aveva elaborato una suggestiva teoria onirica della storia e un’idea di cultura di pace come alternativa all’elaborazione paranoica del lutto:

«Quando una realtà distruttiva viene coperta da simboli d’amore esiste la possibilità che ciò costituisca un’operazione destinata a coprire profonde angosce depressive o persecutorie (…) la guerra in quanto elaborazione paranoica del lutto rappresenterebbe essenzialmente e contemporaneamente una difesa da [queste] angosce (…) la crisi dell’istinto diconservazione, l’idealizzazione della necessità del sacrificio, come pure l’idealizzazione del capo, sembrano tutti fenomeni che si verificano in base al fatto che gli individui formano un gruppo in base all’identificazione con un oggetto d’amore comune (…) in guerra il sacrificio di Sé, pur essendo messo in moto da una necessità d’amore si esprime in realtà attraverso modalità etero-distruttive (…) ritengo però che uno dei contributi essenziali della ricerca psicoanalitica in rapporto al fenomeno della guerra sia la scoperta che la guerra è forse la più grande inautenticità dell’amore [Fornari, 1992, pp. 28-30; 40-42].

In questa prospettiva è la difficoltà a elaborare la perdita di una dimensione affettiva o ideale a indirizzare verso una posizione che la psicoanalisi ha chiamato schizo-paranoide, in cui cioè prevalgono dissociazione, proiezione e predisposizione ad agire per difendersi dalla distruttività proiettata. La guerra come elaborazione paranoica del lutto presuppone innanzitutto una rappresentazione persecutoria di sé come vittima. Oggi questo concetto  può applicare a tutte le forme di terrorismo, razzismo, sessismo ed esclusione come forme di elaborazione paranoicamente ideologizzata del lutto e della differenza. Là dove la rivendicazione immunitaria diventa lo strumento retorico privilegiato da parte delle istanze che vorrebbero gestire il potere facendo appello all’elaborazione paranoica della precarietà e della differenza. Oggi non solo i pensatori decoloniali ma le forme più creative di azione aggiornano l’idea di resistenza in questi termini: come rispettare le politiche dell’identità di chi subisce l’oppressione e lo sterminio come una prima forma di risposta alla crudeltà delle ferite alle appartenenze e all’ethos senza costruire monumenti alla memoria traumatica ma immaginando una ecologia della cura e della riparazione.

Corpi eccedenti

Ho tradotto un recentissimo post di Bayo Akomolafe che torna sulla generosa eccedenza nomade che turba il design, l’architettura, la governance e il controllo degli stati-nazione con tutti i doppi messaggi politico-giuridici che la modernità ha ereditato dal suo passato coloniale.

Muri. Stati-nazione. Cessate il fuoco. Dicerie di pace. 

Bayo Akomolafe

 «Sulla costa nordoccidentale del Mediterraneo stanno due vecchie enclavi Europee, Melilla e Ceuta, residui di una acqusizione coloniale del XV secolo con cui la Spagna annesse parti del territorio africano.

Sì: queste luccicanti città costituiscono vere e proprie annessioni giuridiche di suoli africani, un fatto perturbante che testimonia quanto il retaggio imperialista disturbi le linee nette con cui disegniamo i confini degli stati-nazione e le identità nazionali come concetti e come corpi sovrani ben distinti. Un dispositivo altamente fortificato di muri e demarcazioni proteggono i ricchi cittadini di queste città del Marocco Spagnolo dai marocchini e soprattutto dagli immigranti asiatici e subsahariani – che farebbero di tutto pur di sgattaiolare al di là delle porte dorate e ben sorvegliate del paradiso.

 Questa settimana, il 17 maggio, mentre le forze israeliane bombardavano I palestinesi in uno tentative di sottometterli all’interno delle loro mura, migliaia di migranti africani hanno eluso i controlli, sopraffatto la polizia e colto di sorpresa le autorità spagnole.

 Corpi neri e marrone hanno preso il mare, nuotando, guadando, portando le proprie famiglie in quella striscia di territorio europeo nella speranza di una vita migliore. E suscitando una accesa disputa diplomatica tra i governi del Marocco e della Spagna. Irritato dalla scortese infiltrazione degli africani il Primo Ministro spagnolo, Pedro Sanchez, ha promesso di fortificare ulteriormente i dispositivi di frontiera delle enclavi e ha cancellato la sua trasferta a Parigi  dove era aspettato  per un summit dedicato alla discussione degli aiuti finanziari…. all’Africa. Moltti migranti sono stati catturati e espulsi.

 Tuttavia, mercoledì quei corpi rifiutati – instancabili nella loro speranza di entrare – hanno puntato gli occhi sui muri, si sono fatti forza  e ci hanno nuovamente provato.

 In un’epoca di frontiere fortificate, di insediamenti indiscriminati che si moltiplicano, di nazionalismo militaristico e di irritanti tensioni migratorie  è molto più conveniente per l’elaborata espansione della modernità bianca fare appelli alla compassione, programmare aiuti per i paesi “meno sviluppati”, ragionare su quali forme di stato possano propiziare la pace, e proporre pratiche di integrazione che fanno sperare  coloro che attendono nei pressi dei confini.

 E’ più conveniente pensare la nerezza come una categoria, come un movimento solidale identitario, con le sue rivendicazioni, che attende risposte dietro i portali eterni di Melilla, pensarla come un’insurrezione da gestire affinché la macchina del come-far-posto coloniale continui a ronzare. Ma non vi à nulla di conveniente o di “gestibile” nella Nerezza.   

 Per Frank B. Wilderson III, autore di Afropessimism, la “nerezza” invoca niente di meno che la fine del mondo. Non c’è speranza possibile nell’attuale configurazione dei corpi, nessun succo di pace da spremere dalla polpa delle prigionie coloniali. E la compassione includente – per quanto venga disperatamente desiderata – potrebbe perfino avere l’effetto paradossale di rafforzare la stabilità della città imperiale sulla collina: l’Anthropos-in-quanto-umano.

 Per Kathryn Yusoff, autrice di  ‘A Billion Black Anthropocenes or None’, la nerezza è una forza di interferenza geopolitica controegemonica che irrompe tra le mura di una sterile chiusura.Invitando alla rottura.  La nerezza è qualcosa di più di un progetto di corpi neri calibrato per cercare un posto all’interno del design della governance , perché è l’eccesso del movimento che rende insostenibile tale progetto e che rende la colonia invivibile. E’ quella generosità che muove   le linee temporali, che disturba sia la visione di un passato incontaminato che l’ingenua fiducia nel futuro.   E’ un avvertimento, una figura spettrale, l’umile sermone che suggerisce che siamo tutti infestati  – e che i nostri sforzi di fare i bravi non sono solo probabilmente inadeguati al compito trasformativo ma inevitabilmente resistono alla promessa di un piacere della fuga.

 La nerezza non è solo una opposizione avversa e prescrittiva che interferisce con il progresso bianco; è l’abbondanza nei confronti della quale siamo già indebitati – anche se non sappiamo bene come riconoscerlo. Parlo delle piume di polvere ricche di fosforo e delle diatomee morte negli antichi laghi dei deserti africani che volano al di là dell’Atalantico per nutrire i polmoni amazzonici del pianeta (e fanno eco ad altri viaggi che attravesarono l’Atlantico quattrocento anni fa); parlo della porosità degna-di-gratitudine che turba ogni vocazione alla permanenza.

 La nerezza – questa lettura elettrica e temporanea di ciò che  emerge attraverso la storicità della presa in schiavitù e della colonizzazione – è la possibilità estatica che anche la bianchezza si stia mutando in altro.

 C’è speranza per la pace in Medioriente? C’è spazio per infiltrazioni minoritarie nelle enclavi europee di Melilla e Ceuta? La giustizia è possibile? Sì la giustizia è possible – ma date le condizioni materiali che ci rendono comprensibili questi significati e questi dispositivi sociali, la giustizia non è “plausibile”. Siamo sopraffatti dagli imperativi del controllo e della sorveglianza ; ci vorrà un continuo mormorio di fuoriuscite e fratture postnazionaliste per risvegliarci bruscamente al lavoro indispensabile per ridisegnare i nostri corpi al di là dei confini attuali del design urbano.

 Per andare incontro a questi momenti abbiamo bisogno di qualcosa di più di un cessate il fuoco, qualcosa di più degli aiuti della cooperazione straniera, qualcosa di più del sostegno economico, qualcosa di più dell’integrazione, qualcosa di più del diritto di entrata, qualcosa di più della giustizia, qualcosa di più della compassione.

 Abbiamo bisogno che qualcosa si incrini e si rompa. Abbiamo bisogno di una svolta.»

Palestina dreaming

manifestanti arrestate a Sheikh Jarrah

Frammenti esplosi di storia e di corpi 

La pulizia etnica legalizzata del quartiere palestinese di Gerusalemme Est di Sheik Jarrah e la  disparità estrema del potenziale di morte nel bombardamento continuo  del ghetto di Gaza (non ci si scandalizzi per questo termine: cos’‘è un ghetto se non un luogo da cui non si può liberamente entrare e uscire?) mettono in luce la drammaticità di una politica traumatica dei luoghi, animata dal fantasma persecutorio e “senza luogo” di una diaspora infinita che il pharmakon sovranista dello stato nazione non fa che moltiplicare. 

Coloro che si schierano oggi da destra a favore di Israele, lo fanno perché Israele è diventato il baluardo paradossale di quella stessa idea escludente che ha generato la Shoah. E che per i palestinesi determina da decenni una situazione neocoloniale espulsiva, tra apartheid e pulizia etnica, mentre Israele rischia di non riconoscere più la propria storia  nell’ immagine forclusa e scissa di ciò che essa stessa determina.  

La ricchezza stessa della diaspora, la sua opportunità politica è restata a lungo prigioniera di questo fantasma. Forse nel dolore profondo delle coscienze ebraiche aperte al far mondo come nei nuovi gesti di resistenza dei giovani palestinesi si nasconde una possibilità di cura e riparazione. 

 

*

 

Prendere parola senza entrare subito nel vortice delle identità ferite o dei “monumenti alla memoria traumatica” pare quasi impossibile. Se merita avvicinarsi con la dovuta reticenza e col dovuto rispetto a questa  storia è perché non riguarda solo gli “altri” ma  coinvolge la storia stessa della modernità e della contemporaneità e la difficile sfida di immaginare una diversa idea di democrazia e di Stato liberata dal paradosso di una  cittadinanza escludente o dal farmaco velenoso del nazionalismo.

Ma oggi più che le sintesi e le analisi sociologiche (che pure hanno un perché, ma ma a cui un breve articolo difficilmente farebbe giustizia) è più fertile far parlare i frammenti, le testimonianze vissute, le storie di vita o i volti dei manifestanti di Sheik Jarrah che si rivolgono al mondo per dire costruiamolo insieme.

3 sogni di donne palestinesi

Mio fratello Dominique Dubosc ha raccolto molte storie di vita quotidiana in Palestina dove, dal 2002 al 2006, ha girato diversi documentari. Potete vedere qui la versione completa di Ordinary stories (al link https://vimeo.com/224100726)  che consiste in una serie di testimonianze orali in cui donne e uomini raccontano i loro sogni o testimoniano senza retorica di un evento che li ha segnati. Una bambina legge il tema che ha scritto sul lutto della nonna per il taglio dell’ulivo, una donna anziana racconta di essersi cavata d’impaccio simulando la follia. Una donna più giovane legge le lettere d’amore inviatele dal marito quando era in carcere. Le lettere sono minuscole perchè i prigionieri non hanno il diritto di spedirle. Quando un prigioniero sa che verrà liberato, i compagni di prigionia gli consegnano minuscole lettere arrotolate e infilate in un piccolo segmento di cannuccia. Il prigioniero le ingerisce e dopo la liberazione recupererà dagli escrementi le missive e le consegnerà alle compagne.

Da questa serie ho trascritto e tradotto due sogni di una donna cinquantenne di Ramallah : « Dove andare» e « Il filo della biancheria » 

Ho anche incluso il racconto di una leggenda emergente : « i fidanzati del checkpoint », una storia che è stata raccolta con leggere variazioni e in epoche diverse in più punti dei Territori palestinesi.

 Si tratta di sogni che interpellano a un tempo la dimensione “individuale”, e la ferita collettiva dell’espulsione, della diaspora, della Nakba. 

Ma ecco il primo sogno :

da Ordinary stories

Da questo sogno non si esce

 

Lascia che ti racconti i miei sogni. Speriamo che siano di buon augurio.  Scendevo verso Ramallah… Non so che cosa volessi  comprare, ma volevo andarci.  Cammino risalendo verso la libreria al-Hosari. Vedo dei soldati di pattuglia che gridano : « Coprifuoco ! »  

Coprifuoco sul marciapiede della libreria… Ma non sul marciapiede di fronte! Da dove passare? Avevo paura. L’esercito occupava la strada. 

Sono avanzata a piccoli passi fino alla scuola Ahliyé. Anche lì c’erano delle jeep che sbarravano la strada. Non lasciavano passare nessuno. Cinquanta metri mi separavano dall’altro lato. Ma per dove passare?

Camminavo, camminavo, non so più dove…

Non so nemmeno se io da quel sogno sia uscita! 

 

Il filo della biancheria

 

Il secondo sogno. 

Voglio andare a Betlemme a trovare le mie due sorelle. 

So che ci metterò una vita per via dei checkpoint, dell’esercito e compagnia. Allora mi incammino e arrivo a Beit-Safafa. Là, mi guardo intorno.  L’esercito aveva innalzato enormi barricate di terra, come delle piramidi, tanto erano alte. Mi chiedo: perché? Poi vedo una sorta di  ponte più sotto. Guardo per vedere se posso passar sotto senza essere vista, e vedo che hanno teso dei fili per la biancheria.

Dove hanno appeso ogni sorta di persone, poveretti… E anche noi, se ci prendono!  Allora mi nascondo, mi chiedo come farò a  passare. Una voce dice: “ma perché trattate la gente come della biancheria?” 

Un’altra voce risponde: “che restino tra il cielo e la terra, che restino senza cielo né terra, questi Palestinesi!”

Poi entro nel tunnel, in effetti era un tunnel. Dove andassi, dove fossi, da dove passare non lo so. Non so se sono andata o meno a Betlemme. Ma so che lo spettacolo di quelle persone era incredibile e che ho sentito dire: «che restino senza cielo né terra! »

Una dialettica in forma di “sospensione”

Dall’incipit al femminile di quest’ultimo sogno (“voglio andare a trovare le sorelle”) al suo sorprendente epilogo dantesco (“io era tra color che stan sospesi”) questo viaggio nel labirinto palestinese mi sembrò subito un grande sogno che toccava una costellazione cruciale della psiche collettiva.. Ne parlai all’epoca con un collega che lavorava sui sogni “archetipici” : « Macché Grande Sogno – mi disse – è un sogno di compensazione. L’immagine della sospensione è quella del terzo girone, quello degli ignavi… ‘che visser senza infamia e senza lodo…’ perché i Palestinesi – aggiunse – sono incapaci di decidere, come coloro ’che mai non fur vivi’, mischiati agli angeli che non si schierarono ai tempi della battaglia celeste ma restarono spettatori, e come quelli cacciati sia dal cielo che dal profondo inferno,   … ‘a dio spiacenti e a’ nemici sui’ ».

Senza cielo e senza terra, insomma, secondo questa interpretazione i palestinesi sarebbero anch’essi ‘sospesi’, incapaci di determinare il proprio futuro, di liberarsi dai dirigenti corrotti e dal radicalismo suicida, incapaci di negoziare efficacemente la creazione del loro Stato. Una tesi che naturalmente fa comodo a chi in un modo o nell’altro vuol mantenere lo status quo della soluzione impossibile come “soluzione finale”.

Questo sguardo sul sogno non mi convinse affatto . Che nella loro lunghissima resistenza i palestinesi – non i loro dirigenti – esprimessero una incapacità di prender posizione non mi tornava proprio. E poi, l’essere sottomessi alle regole dell’occupazione, all’espulsione, all’esilio, allo stato d’emergenza permanente  è cosa ben diversa dal timore benpensante di chi rifiuta di prendere posizione : mi sembra un grave errore (e un  orrore) del privilegio confondere sventura e ignavia.

Inoltre, andando a rileggere il terzo canto dell’Inferno scoprii che il contrappasso degli ignavi non è quello di essere  sospesi ma di essere in perenne movimento, perseguitati da stimoli e pulsioni sotto guisa di vespe e mosconi. Sorpresa: il collega aveva preso una cantonata,  i sospesi sono invece Virgilio e le anime del Limbo (canto II), sospese tra aspirare e disperare. Una risonanza molto più coerente con il testo del sogno e con il contesto della sognatrice.  La sospensione nel Limbo è una condizione paradossale,  un ossimoro di  cui parlano sovente le poesie di Mahmud Darwish che dando voce all’aspirazione palestinese scrive per esempio : « abbiamo una malattia incurabile:  la speranza. »

Dietro l’alto muro che serpeggiando attraversa e frammenta i Territori, i palestinesi abitano uno strano Limbo nel cuore della questione che oggi se solo ci fermiamo e sospendiamo il giudizio ci interpella tutti : quali nuove immagini possono nascere dalla diaspora, dalla dislocazione, dall’oppressione, dalla devastazione della Terra stessa? 

Come abitare o reagire allo sguardo gerarchico che rende mostruosa colei o colui a cui viene negata la casa, l’abitare (come quando, nel famoso racconto della Torah, Abramo manda in esilio nel deserto l’altro figlio Ismaele – il figlio della concubina senza diritti e senza eredità e il fratello del figlio privilegiato,  Isacco) ?

Del resto questa dell’esclusione mostruosa è un’immagine che gli ebrei sono stati costretti a portare per secoli e che ha trovato il suo osceno moderno paradigma immunitario nella Shoah.

E tuttavia la dialettica tra ethos e ethnos, tra appartenenza e identità si congela nell’astrazione ideale del “mito” proprio nel momento in cui il sionismo rinuncia all’eredità diasporica  a favore del potere militare di uno Stato nato dal’idea dell’antisemitismo perenne e nel rifiuto di qualsiasi condivisione di sorte con l’altro fratello semita (gli arabi appunto, figli di Abramo via Ismaele). 

La chiave di analisi dell’ethos che qui propongo parte dal presupposto che nelle loro forme più alte sia le narrazioni dell’ebraismo che quelle dell’islam toccano con grande attenzione alcuni temi cruciali e critici: la relazione tra potenti e umili, tra padri e figli, tra fratelli che son sovente nemici, tra uomini e donne.

Questi temi, in particolare il tema di un “farsi sorella” che redime le forme dell’oppressione svalutante emerge con forza nella leggenda metropolitana che racconta Oum Amer, un’altra donna cinquantenne velata di bianco, una leggenda che sembra generarsi e rigenerarsi autonomamente in Palestina in luoghi diversi con alcune varianti e con modalità di trasmissione totalmente orali, come certe filastrocche o certi giochi di bambini che misteriosamente sopravvivono al variare dei tempi e dei luoghi. In Ordinary Stories Oum Amer dice di aver testimoniato personalmente questo evento nel 2005, ma un antropologo della Birzeit University dice di aver raccolto una versione di questa leggenda già nel 2000.

La leggenda dei fidanzati al checkpoint

da ordinary stories

«Ho assistito a una scena che non scorderò mai. Andavamo a un matrimonio in un villaggio vicino per la cerimonia della henné della sposa, quando abbiamo visto una folla a uno sbarramento. Che succede?

I soldati fanno problemi. Sono andata a vedere:

 C’era un giovane credente…

Ma devo premettere che ai nostri credenti non piace che gli uomini e le donne si tocchino. Dunque… il soldato diceva al credente:

 « Se baci la sposa passate tutti. »

Lui :  « Impossibile!»

La folla: « Dai baciala e non parliamone più! »

Lui : « Mai, è una donna sposata, la nostra legge è esplicita! »

La folla:  «  ma dài… Su, facci passare! »

Lui : « Mai! Preferisco che mi sparino piuttosto che toccarla. Siamo musulmani

o cosa! »

La folla:  « Trova una soluzione ! »

Lui: «  Meglio morire! »

Finalmente è la sposa che ha fatto il primo passo. Ha detto al giovane fedele:  

« Sei mio fratello davanti a Dio. »

 E l’ha baciato

Ci siamo tutti messi a piangere per questa scena indimenticabile. Poi ha detto a suo marito:

« Ho baciato quell’uomo, se vuoi divorziare, divorzia! E che tutto il mondo sappia perché ! »

Il marito ha risposto:  

« Tu sei mia moglie davanti a Dio! Hai risolto tutto, sei la pupilla dei miei occhi! Andiamo ! »

 Non vi dico quanto tempo c’è voluto per sbrogliarci, per uscire di lì!

Finalmente siamo passati tutti. Cosa volete,  è il nostro destino….»

La chiave della sorellanza

 Una grande rabbino-filosofo, Leon Ashkenazi, sottolineava che gli uomini  non riusciranno ad affratellarsi se marito e moglie oltre ad essere coniugi non passeranno da un’iniziale dissimetria a un’altra storia, quella dell’esser-fratelli, fondata sulla reciprocità generativa della sorellanza

Naturalmente nella leggenda del check point la sorellanza col credente islamizzato potrebbe solo sembrare un’astuzia volta a risolvere l’impasse delle reciproche rigicità – quella del soldato che non cede e esige l’umilazione e quella del fedele che rifiuta l’oltraggio alla sua credenza. Ma io credo che nella reazione del marito e della folla e nella popolarità stessa di questa leggenda emerga qualcosa di più, un valore a un tempo di rinnovata intimità (“sei la mia sposa” ) che è anche collettivo (“hai risolto il problema” “una scena indimenticabile”…) e cancella persino l’oltraggio subito che di fronte del gesto diventa così piccino da scomparire

*

La stessa narrazione della Torah ebraica sui fratelli semiti Isacco e Ismaele come quella  del conflitto tra Giacobbe e Esaù (prototipi mitici di una scissione da risolvere) annunciano  come la fratellanza tradita tocchi in profondità le ferite di una intra-relazione che richiede riparazione a partire da un conflitto generativo.

Askenazi spiega bene come anche Abele sia un gemello minore, un fratello aggiunto, e che sarebbe proprio la sua minorità, la sua accettazione del limite che gli permette di offrire il “miglior sarificio”, il che naturalmente rende paradossalmente più difficile la posizione di Caino, svantaggiato e accecato dal suo vantaggio di primogenito.  Ma anche là dove il secondogenito diventa primogenito con l’astuzia come nel caso di Giacobbe, oppure patisce l’esclusione radicale del deserto, come nel caso di Ismaele,  si creano squilibri che vanno sanati. E che dire di Abramo che pigliando lucciole per lanterne arriverebbe a sacrificare il figlio (Isacco per la Torah, Ismaele per il Corano) invece del suo potere patriarcale sui figli? Insomma anche nell’intreccio con le narrazioni religiose appare difficile sparigliare i conflitti delle eredità  storiche tra chi infligge e chi subisce ingiustizia.

Ed è qui che entra in gioco la cura della sorellanza – tema che potrebbe essere riletto e intrecciato con le nuove consapevolezze offerte dal pensiero e dalle pratiche femministe.

La legittimità intrinseca di una relazione che cura le scissioni sarebbe  costituita proprio dalll’intreccio di “intimità” (ciò che è permesso in privato e proibito in pubblico) e “sorellanza” (ciò che si articola in pubblico ed è proibito in privato). Il Cantico dei Cantici fa della sposa una sorella (non il contrario)  con gli accenti della passione :

Lo sposo

Mi hai reso folle, sorella-amata, mi hai reso folle

con uno solo dei tuoi occhi…

Giardino chiuso, sorella-amata, onda chiusa, fonte sicura !

Paradiso di melograno e d’aromi… (4 ;7-14)

La sposa – Chi ti darà a me come un fratello che allattò ai seni di mia madre ?

Ti troverò, ti abbraccerò

E non mi disprezzeranno(…)

E io divenni ai suoi occhi come un’inventrice di pace. (8 ;1,10)

 

Con quale forza riemerge allora questo stesso mitema nella leggenda della «fidanzata del check point » in cui la futura sposa si assume la responsabilità di essere sorella e salva simbolicamente il suo popolo e il suo matrimonio, diventando un’ « inventrice di pace » ? Lo salva da una duplice inimicizia, da quel nemico interno che è il fondamentalismo, lo slava cioè dall’ethnos, dall’adesione identitaria ideologica e regressiva che pure va accolta con serena fraternità come la parte totalizzante di ogni psiche che la rimozione punitiva non farebbe che pervertire. Ma lo salva anche dalla crudeltà del soldato che « non fa passare» e che deride la fede del vicino. 

La leggenda del checkpoint – come nella famosa parabola sul Baal Shem Tov sul “ricordo del ricordo di un rituale scordato che bastava per salvare dalla sciagura” – ci dice che anche quando anche il prezioso “ricordo di aver scordato qualcosa di essenziale” viene soffocato da una ritualità scissa o dall’aggressività proiettiva, necrofila e suicida,  una voce misconosciuta di donna, foss’anche quella  di una Shehrazade palestinese può trovare le parole del passaggio per riparare una relazione col mondo.

Per il libero respiro di ogni Paese e di ogni essere vivente

Donna Suri, valle dell’Omo, Etiopia – foto di Giovanna Aryafara

Condividiamo questo brano profetico di Anna Maria Ortese da Corpo Celeste che anticipava tanti anni fa i temi del multinaturalismo Amerindiano (“Tutto è uomo”) e dell’eco-femminismo (“Tutto è corpo”) nella consapevolezza emergente e plurale del legame tra “l’abuso del respiro” dei popoli oppressi e la funzione estrattiva e utilitarista a cui abbiamo ridotto il resto del vivente.

«Sono lieta, in mezzo alle mie tristezze mediterranee, di essere qui. E dirvi com’è bello pensare strutture di luce, e gettarle come reti aeree sulla terra, perché essa non sia più quel luogo buio e perduto che a molti appare, o quel luogo di schiavi che a molti si dimostra – se vengono a occupare i linguaggi, il respiro, la dignità delle persone. A dirvi come sia buona la Terra, e il primo dei valori, e da difendere in ogni momento. Nei suoi paesi, anche nei suoi boschi, nelle sorgenti, nelle campagne, dovunque siano occhi – anche occhi di uccello o domestico o selvatico animale. Dovunque siano occhi che vi guardano con pace o paura, là vi è qualcosa di celeste, e bisogna onorarlo e difenderlo. So questo. Che la Terra è un corpo celeste, che la vita che vi si espande da tempi immemorabili è prima dell’uomo, prima ancora della cultura, e chiede di continuare a essere, e a essere amata, come l’uomo chiede di continuare a essere, e a essere accettato, anche se non immediatamente capito e soprattutto non utile. Tutto è uomo. Io sono dalla parte di quanti credono nell’assoluta santità di un albero e di una bestia, nel diritto dell’albero, della bestia, di vivere serenamente, rispettati, tutto il loro tempo. Sono dalla parte della voce increata che si libera in ogni essere, e della dignità di ogni essere – al di là di tutte le barriere – e sono per il rispetto e l’amore che si deve loro.

(…) Io auspico un mondo innocente. So che è impossibile, perché una volta, in tempi senza tempo e fuori dalla nostra possibilità di storicizzare e ricordare, l’anima dell’uomo perse una guerra. Qui mi aiuta Milton, e tutto ciò che ho appreso dalla letteratura della visione e della severità. Vivere non significa consumare, e il corpo umano non è luogo di privilegi. Tutto è corpo, e ogni corpo deve assolvere un dovere, se non vuole essere nullificato; deve avere una finalità, che si manifesta nell’obbedienza alle grandi leggi del respiro personale, e del respiro di tutti gli esseri viventi.

E queste leggi, che sono la solidarietà con tutta la vita vivente, non possono essere trascurate. (…) Ma chi perde ogni giorno il suo respiro e la sua felicità, per consentire alle grandi maggioranze umane un estremo abuso di respiro e di felicità fondati sulla distruzione planetaria dei muti e dei deboli – che sono tutte le altre specie –, può forse temere la fine di tutto? Quando la pace e il diritto non saranno solo per una parte dei viventi, e non vorranno dire solo la felicità e il diritto di una parte, e il consumo spietato di tutto il resto, solo allora, quando anche la pace del fiume e dell’uccello sarà possibile, saranno possibili, facili come un sorriso, anche la pace e la vera sicurezza dell’uomo.

(…) La vita è più grande di tutto, ed è in ogni luogo, e da tutte le parti – proprio da tutte le parti – chiede amicizia e aiuto. Non chiede che questo. E il valore di ogni buona risposta è immenso, anche se non dimostrabile. Amate e difendete il libero respiro di ogni paese, e di ogni vita vivente.»

da Corpo Celeste di Anna Maria Ortese – da pag 51.

Per una cartografia decoloniale

Postattivismo creativo

art by Curiot

Riprendendo i nostri dialoghi vorrei poter inaugurare una serie di discussioni su come si possa intendere il “postattivismo”:  non come una sorta di superamento dell’attivismo, ma come una via verso una  maggior efficacia e respons-abilità in una nascente ecologia della cura e della riparazione. L’epistemologia critica è importante ma non basta e nessun “soluzionismo”  esce in fondo dalla logica coloniale della pretesa efficienza della modernità. Una architettura in cui abitano persino i privilegi “etici” delle migliori ragioni e che alimenta negli stessi movimenti il narcisismo delle piccole (o grandi) differenze.

Anche se siamo ancora incapaci di fermarci davanti allo sfacelo –  come l’angelo della storia di Benjamin catturato dal moto perpetuo dei più alti ideali –  forse cominciamo a intravedere quanto l’intreccio costitutivo e relazionale della realtà ci inviti ad abitare e trasformare  diversamente le rovine. Specialmente quando il confine tra simbolico e reale si assottiglia: quando i satelliti iniziano a cadere “La caduta del cielo” – la profezia sciamanica di Davi Kopenawa – non è più solo un affascinante viaggio dislocante verso esotiche prospettive.

Qui condivido non una sintesi ma tre  brani che assemblo perché li ho appena letti e ascoltati – contributi di di Bayo Akomolafe, l’autore che in questo momento mi sollecita più di altri a pensare ed esplorare il potenziale del pensiero decoloniale “fuggitivo” e diasporico: la costellazione della crisi,  il post-umanesimo, il neo-materialismo, le alleanze in fieri degli undercommons, il rovesciamento delle prospettive generato da un animismo relazionale ecosistemico intrecciato con le scienze della complessità… 

Forse la sfida si pone a un crocevia: andando di là si resterà intrappolati nei ricordi di passate militanze – che è anch’esso una sorta di imprinting identitario – nell’altra direzione invece rischiamo di rimuovere le eredità che ci costituiscono – non resta che riconoscere e rendere creativa l’impasse imparando a intra-agire  con quelle urgenze immanenti in cui il passato è strettamente intrecciato con questo presente…

C’è forse una terza via tra il militantismo risentito del conflitto permanente e la resa alla dipendenza atomizzante agli algoritmi dominanti. Una via che prende forme provvisorie a partire dalla consapevolezza emergente che ciò che agisce non può essere che affettivo, intra e inter-relazionale.

L’attivismo militante, le lotte per il respiro negato, per i diritti, lo stesso slancio critico, sono stati e restano imperativi necessari  oltre che storicamente cruciali,  come lo sono gli imperativi locali del presente. Il postattivismo mi sembra tuttavia un tentativo “clinico” di esplorazione collettiva di forme di  cura, riparazione e creazione collettiva in un tessuto relazionale (e percettivo) profondamente ferito, un tentativo che tenta di ripensare le alleanze necessarie a farlo nel contesto di in una più ampia e inclusiva costellazione o cartografia spazio-temporale.

Mi piace in particolare il modo in cui Bayo decostruisce le identificazioni razziali rideclinandole in termini storico-simbolici: la bianchezza come eredità escludente, culto della purezza e del controllo all’interno di un’architettura modernista e come dice Mbembe “brutalista” capace di accomodare nei suoi dispositivi giuridici la costruzione di moltitudini di “corpi-frontiera”. E la nerezza come decostruzione forzata del rapporto con “terra e sangue”, ma anche opportunità diasporica animata dalle radici di un rapporto permanente con la complessità visibile e invisibile e con l’idea di cura come trasformazione…

Da questo punto di vista le considerazioni di Bayo offrono una diversa cornice di riferimento per l’idea di riparazione che anche in questo caso fanno eco a quelle di Mbembe e degli autori di Undercommons. Se la riparazione delle ferite coloniali e patriarcali tocca il tema di fratture profonde nella relazione col vivente essa rappresenta qualcosa di altrettanto irriducibile, qualcosa che ha la forza di un evento e che trascende sia le supposte virtù giuridiche della modernità che il concretismo di un risarcimento impossibile. E tuttavia dalla stessa frattura diasporica nuove fonti di pensiero e performatività aprono inedite possibilità di cura.

Mi rendo conto mentre assemblo che i frammenti arbitrariamente condivisi non fanno giustizia alla ricchezza degli argomenti che una lettura più organica del lavoro di Bayo Akomolafe può offrire – ma forse possono servire come pratica di compostaggio se fecondati dallo slancio immaginativo di chi legge. 

A presto,

fab

art by Curiot

Qualche brano da una conversazione in podcast che potete ascoltare per intero in inglese qui https://newrepublicoftheheart.org/podcast/064-bayo-akomolafe-getting-lost-meeting-the-more-than-human-vibrancy-of-the-world/?fbclid=IwAR2fCsQTIA_6bxQxiFUUVvhY4P-tU-cpFmzEe3LdB6j6ruyUg4aDnOY6_VE

«Come creiamo qualcosa di nuovo? Come facciamo qualcosa di diverso dal parlare nello stesso modo, scrivere nello stesso modo, ritrovarci nello stesso modo? Come faccio o come facciamo noi – e dico “noi” perché c’è una complessità irriducibile e perché l’io è già accompagnato da quegli “altri” che cerca di ignorare mentre sforza di nominare sé stesso così assiduamente… 

Come facciamo, a partire da questo denso noi, a uscire dai confini di ciò che ci è famigliare, per entrare in ciò che è portentoso e  impensato,  per intrecciarci con altre modalità del pensare e del conoscere? 

Le cose che cerco di esplorare nel campo dell’invenzione  e della sperimentazione, nei margini liminali delle cose e che a volte definisco nel linguaggio della “fuggitività”, delle “piantagioni”,  della fratture , delle nascite messianiche e delle notizie sperimentali, mi rendono sospettoso nei confronti del “soluzionismo”, mi rendono guardingo nei confronti di chi dice: “ho la soluzione”.  Sto cercando una dimensione di “incapacità generativa”, un posto per il compostaggio che possa rendermi capace di cose nuove e ovviamente il compostaggio non dipenderà dalle mie azioni, perché un nodo nel filo non può sciogliersi da solo, ha bisogno della compagnia di altri per farlo, così in un certo senso la mia ricerca ha come focus gli altri, tutti quelli che la modernità ha escluso, altri alieni, microbiomi-altri, tutti quelli che non abbiamo pensato come particolari o cruciali per ciò che succede sulla terra, perché pensiamo sempre nei termini di ciò che conta per gli umani, ci poniamo sempre come esseri senzienti al centro, mentre il mio desiderio va verso  i mostri, le fate, gli outsider, le cose che escludiamo, e io confido in un coro di esseri che generi alleanze più ampie, per trovare nuovi modi di stare insieme. Queste sono le mie priorità e il modo in cui procedo su questo piano, per esempio, è quello di incontrare i miei bambini ogni volta come se fosse la prima. Ci sono faglie creative nel tessuto della realtà (…)

[Domanda: “dopo George Floyd e di fronte ai suprematisti bianchi qui in America non c’è più modo si sentirsi “virtuosi” ci sembra di ereditare tutti un crimine  e quando entriamo in dialogo con qualcuno dal Sud Globale, con qualcuno nero, vorremmo in fondo non essere associati ai colpevoli, vorremmo poter riconquistare una virtù impossibile e vorrei nominare queste cose in uno spirito di apertura e vulnerabilità…”]

Se tu andassi a trovare uno sciamano Yoruba – in realtà non si definiscono sciamani, ma guaritori, il termine è babalayo,  un “medicine man” che è una sorta di avvocato cosmico, che non si limita a guarire ma che negozia la guarigione, il benessere e la prosperità con con la miriade di agencies multiple che popolano il mondo e che noi riassumiamo con nome ayé,  termine che con una sana dose di povertà viene tradotta con il termine “vita”, ma è qualcosa di più ampio, c’è quasi un sapore di cospirazione nel termine ayé…., comunque il babalayo incontra tutte le forze o il maggior numero possibile di forze che sono rizomaticamente connesse con la tua situazione per intercedere a tuo favore, con una capra o dell’igname (yam), ma un guaritore o babalayo non smette di essere gentile quando si avvicina con un coltello…c’è qualcosa che può apparire brutale nell’approccio, non credo che loro ne parlerebbero esattamente in questi termini ma su un certo piano si può dire così: “la guarigione può essere un rischio”… se la guarigione si china su una forma particolare con cui ci identifichiamo allora fa correre dei pericoli. Abbiamo questo desiderio di salvezza e redenzione. Ma salvezza e redenzione si declinano a partire da una ontologia specifica che stabilizza determinate modalità di “essere” e questo è il motivo per cui spesso dico che la “giustizia” che è un ideale immenso, no?, potrebbe anche ostacolare alcuni processi di trasformazione… e il lavoro del babalayo è la trasformazione.

Sa che il tuo problema non consiste nel maggiore o minor benessere, ma nell’aver assunto un determinato stato corporeo…uno stato corporeo che ti permette di sperimentare quello che stai sperimentando…. Così viene verso di te con un coltello per ferirti, per ferirti di più, non per ucciderti ovviamente, ma per incidere cicatrici nel tuo corpo, e da dove vengo io questo ha generato la tradizione delle scarificazioni, l’apertura della carne corrisponde al desiderio della carne di altre modalità di essere nel mondo e la spietatezza di quello che dico deriva da questo, che se parlo a partire dal paradigma all’interno del quale nasce la domanda allora divento parte del problema, imbrigliato nelle dinamiche del problema (…) ho cominciato a pensare “cosa potrebbe funzionare meglio di una risposta a un problema?” e sento che la risposta a questa domanda è “una sorta di stupore meravigliato e sbigottito” (bewilderement)… perché lo stupore ci fa uscire dalle economie relazionali dove le domande e le risposte si contaminano a vicenda… ti trasporta in una diversa economia relazionale, in una prospettiva del tutto diversa…da mio punto di vista può essere più efficace di una risposta. Così quando mi fai una domanda sulle dinamiche Floydiane della nostra epoca, la domanda centrale che emerge dalla modernità è “ come reagiamo, come affrontiamo il senso di colpa che questa situazione genera?”  E non ho una risposta definitiva, ma anch’io mi pongo una serie di domande:   mi chiedo anche se il modo con cui formuliamo queste domande non facciano parte del problema… facciano parte della crisi…. E se l’enfasi sulla colpa – e non è che voglia svalutare l’importanza della colpa, il senso di colpa può avere una funzione, ma il dubbio è che l’enfasi sulla colpa non faccia altro che consolidare la centralità bianca che vorremmo decostruire o dalla quale vorremmo allontanarci…e che anche il paradigma dei soggetti che cercano riconoscimento da parte dello Stato faccia parte del problema…

Così quando una persona bianca si presenta e chiede “ma noi ora che facciamo di questa situazione?” io sento che la domanda stessa risuona con il paradigma dominante che tenta di arruolare quei corpi come attori nel consolidamento della modernità…e non credo che abbiamo risposte …a queste domande su quello che possano fare i bianchi… credo che questo sia un momento in cui sia cruciale ascoltare insieme, potresti chiedermi “ma ascoltare cosa?” – credo che il mondo più-che-umano ci stia invitando a una posizione di ricerca e questo luogo di ricerca è razziale, spirituale, psicologico, economico, gastronomico, batterico, microbiotico è contemporaneamente tutte queste cose…ed è qui che penso che sperimentare nuove modalità di essere sia necessario, per andare da una politica che mette al centro queste ansietà, perché le ansietà sono il prodotto delle forme cha abbiamo assunto…e abbiamo bisogno di nuove storie e nuove cornici di riferimento ontologiche con cui pensare o ripensare le nostre identità, ripensare cosa significhi essere nera, che è un concetto diasporico, ripensare che significhi essere bianca, che è una moderna imposizione identitaria e trovare altri modi di essere nel mondo…

Non va assolutamente ignorato il grido urgente, la domanda di salvezza e attenzione… faccio parte di quel grido, ma so che la critica mi può portare solo fino a un certo punto…la critica mi colloca in piena modernità e ho bisogno di qualcosa che mi porti più in là [Bayo qui racconta la storia degli schiavi Igbo che ho pubblicato in Ballando con lo spirito dell’acqua)… quella idea di una nerezza più-che-umana mi interessa perché non voglio essere salvato da corpi bianchi, non voglio essere l’oggetto di compassione moderna, voglio altri spazi di potere.

[Domanda sintetizzata: “abbiamo ereditato una narrazione di progresso… e l’abbiamo poi intrecciata con un’idea spirituale, perché non possiamo considerare la vita solo come una storia catastrofica, la vita è miracolosa non stiamo forse andando verso la vitalità vibrante di un mondo consapevole e meraviglioso?”]  

Sono di solito molto riluttante nel descrivere il mondo come IL mondo. Credo che Marcus Gabriel nel suo libro “perché il mondo non esiste” abbia lavorato per decostruire l’idea che il mondo sia un tutto coerente… non è che neghi l’evidenza empirica sta solo dicendo che il linguaggio non può nominare ogni cosa in una qualche forma totalizzante, non vi è un termine che copra tutto, la “cosapevolezza” non basta, l’Universo neppure, perché persino l’immaginazione è reale, ha veri e propri effetti non è necessario che abbia validità empirica per avere effetti. Non è che vi sia UN mondo e nemmeno mondi MULTIPLI, il mondo è resiliente nella sua indeterminatezza e navigandolo noi operiamo dei tagli operativi in un punto o nell’altro, lo definiamo e chiediamo che ci definisca…. Non siamo solo degli utlizzatori e il mondo non è solo uno strumento – di nuovo il linguaggio mi tradisce – noi non siamo utilizzatori e Un Mondo o Mondi Multipli o il Mondo a Venire siano uno strumento, piuttosto capiamo che  i ruoli vengono costantemente capovolti. E questo mi porta a discutere l’idea di “che cosa ci aspetta” e sono acnora più riluttante a parlarne – qualche volta mi chiedono: “cosa pensi che accadrà nel 2050? Entreremo in un Età della compassione?” O qualcosa del genere. E davvero non so come rispondere a questo tipo di domande…Vengo da un popolo che non poteva vedere cosa sarebbe accaduto la settimana dopo perché non ne avevano la possibilità… quando leggo della scarsa visibilità in California per via degli incendi, sento compassione ma sento anche “certo, questa cosa la conosco, l’ho vista, l’ho vissuta…” il fatto di non sapere cosa succederà dopo… l’urgenza, l’immediatezza del mondo è ciò che cattura la mia attenzione – e so che rischio di lasciar fuori un universo di considerazioni – ma c’è lavoro da fare nella immediatezza immanente del mondo, a partire da come viviamo nella densità del presente…e al di là delle categorie con cui proiettiamo il presente nel futuro. Preferirei mettere a fuoco il passato. Per esempio, c’è un proverbio indigeno che dice che il lavoro serio lo fanno quelli che guardano il passato. Non considero il passato come qualcosa di concluso, perché mi interessa un diverso paradigma temporale, “il passato deve ancora accadere”, posso guardare in avanti, per così dire, e guardare il passato. Se pensi al tempo in termini circolari allora il passato non è solo ciò che è passato, il passato è ciò che sta ancora accadendo, l’eco di voci nelle pieghe della modernità, gli archetipi di cui parlava Hillman per cui gli dei che non sono mai svaniti, sono diventati parte dei nostri apparati, dei nostri pixel e delle nostre tecnologie…L’idea che il passato sia presente che dobbiamo le nostre vite e i nostri corpi al cosiddetto passato, e che lo elaboriamo continuamente in una qualche forma transcorporea quando per esempio ci chiediamo: “che significa avere un corpo? Che significa essere vivi in questo tempo?” questo è un tema che mi appassiona, tanto che non riesco a pensare a quale forma il mondo potrebbe avere in un tempo futuro – non so se posso avere fiducia – e forse questa è una prospettiva postmoderna – non so se posso avere fiducia in queste grandi metanarrative – l’ ”Età della Ragione”, l’ “Età dell’Acquario”…o qualcosa del genere (ride) certamente non c’è stato niente del genere per persone come me…sono molto sospettoso rispetto a quel modo di nominare le cose anche per restare umili rispetto a cosa potrebbe accadere – non è per negare la creatività con cui nominiamo le cose, ma dobbiamo resistere all’urgenza di farlo da soli…»

Da un altro post sulla pagina fb bayoakomolafe

«La modernità non ha eliminato il sacro. Lo ha riposizionato nel confine delle coordinate umane – in primis nel corpo bianco, il suo principale avatar. Qui nei vortici del rifiuto post/moderno di ogni autorialità non umana, nello stesso progetto antropologico, si nasconde un tempio dedicato alla venerazione delle quando riusciamo a criticare queste forme di devozione religiosa –  siamo tutti arruolati al servizio di questa configurazione: puliamo panche, passiamo il cestino delle donazioni, ammiriamo i preti nel sanctum sanctorum. Ma il sacro non si fa ingabbiare. Oggi, se ascoltate, potreste sentire che la presa contratta dell’umano comincia ad allentarsi, mentre la nostra pretesa centralità non regge il confronto con argomenti non umani assai convincenti. Se ascoltate un po’ più a lungo, potreste persino iniziare a discernere i passi caotici del sacro che migra dal suo precedente confine, fischiettando mentre saltabalzella con determinazione  sulle rovine asfaltate del nostro mancato arrivo…»

carnevale a Haiti

 

 <a href=”http://<a href=”http://http://<a href=”http://http://<https://bayoakomolafe.net/project/the-death-of-the-climate-activist/&gt;

«Insieme a Bruno Latour, in una “perversa” deformazione del suo aforisma ma che credo egli approverebbe possiamo dire: “Non siamo mai stati umani”. In un sorprendente rovesciamento del copione non siamo né gli eroi né l’unico focus affascinante di un pluriverso eccedente. Il sapere strumentale umano capace di concepire l’uso di strumenti e attrezzi è diventato (o è sempre stato) strumentalizzato. La dimensione [evolutiva] ultima, definitiva è diventata  penultima (…) il mondo è vivo e performativo – suffuso di elementi di agentività relazionale, quelli che attribuiamo senza pensarci a noi stessi.

art by Curiot

In breve l’Antropocene richiede una ontologia radicalmente nuova e smantella quella aristotelica-cartesiana che la maggior parte degli abitanti della modernità hanno dato per scontato. Aspetti di questa performatività materiale che prende atto di processi “molecolari” (nel senso attribuito alla parola da Deleuze) sono i corpi transcorporei, le specie amiche, il tempo queer e l’agentività non umana. Questo vibrante mondo ecologico emergente, de-sacralizza l’attività umana, inserendola in una rete di altri effetti efficaci che scorrono da un mondo incalcolabilmente perverso e rizomatico. Un mondo processuale di azioni performative in divenire.

(…)

Invece di considerare solo i soggetti indipendenti nel loro agire – cioè l’unità  privilegiata di analisi del cambiamento sociale, e le cui intenzioni, motivazioni ed esaurimenti costituirebbero la fucina del cambiamento mondiale  – prestiamo lttenzione all’attrezzatura che circonda il soggetto intento ad agire,   considerando l’assemblaggio complessivo,  tentando ci capire cosa e come stia operando questa concatenazione di corpi. 

L’attivista non è più l’umano separato dal dispositivo necessario al suo attivismo, ma è l’ ”umano” e i suoi attrezzi: gli schermi dei computer, i concetti, le classificazioni, le categorie di pensiero, e la città nei suoi effetti di soggettivazione.

In quanto tale il “Sé” classico viene così decentrato come focus dell’attenzione e delle suppliche; il cambiamento sociale non dipende da mosse unilaterali del sé umano, ma dalle concatenazioni emergenti che attraversano altre concatenazioni (deterritorializzioni e riterritorializzazioni).

Come definire una ricerca postattivista? Quali questioni potrebbero emergere? Non c’è spazio qui per esplorare le metodologie di un impegno postattivista, ma qualunque esse siano, tale vocazione è promettente  – specialmente in tempi di sconforto, quando l’approccio alle questioni da veterani dell’attivismo non appare generativo. 

Come figlio del cosiddetto Sud Globale, il mio popolo è stato per molto tempo beneficiario della “benevolenza” occidentale. Le Ong sono altrettanto numerose delle chiese predatorie ad ogni angolo di strada. Molti [subalterni] si  ribattezzano “attivisti”  per  mettere la bocca sotto il rubinetto  del “foreign aid” e della filantropia Euro-Americana. Tuttavia non ci sono grandi cambiamenti. L’attivismo si traduce sovente nel fatto che scafati ragazzi di strada siano pronti ad ingannare un altro straniero in cerca di virtù. Per i volonterosi ed ingenui neo attivisti le lezioni sono dure e presto imparate: non importa quali siano la tua giusta causa, o le tue nobili intenzioni, per sopravvivere devi portare avanti il programma.

Il possible invito del postattivismo è di restare con i vari elementi dell’arredamento che compongono l’assemblaggio attivista. Invece di mettere a fuoco solo l’umano, veniamo invitati a prendere nota dei dispositivi, di  cosa essi stabilizzino, di che cosa riproducano, di che cosa escludano. 

Per esempio – prendendo sul serio l’invito postattivista di de-privilegiare l’ “attore” umano – potremmo scoprire che i nostri problemi fanno spesso parte del problema: che le nostre soluzioni, pensieri, contributi e idee sono secrezioni delle concatenazioni con cui intra-agiamo. E che come tali – e questa è un’ulteriore importante considerazione post-attivista – spesso rafforzeranno le situazioni problematiche che vorremmo evitare: le nostre “soluzioni” sovente si riveleranno come un aspetto della crisi che si ripiega e moltiplica, magari in modo più intelligente e con più sfumature.

La cosa più importatnte è che la ricerca postattivista potrebbe aiutarci a ritrovare un sentimento di meraviglia e re-incanto indicandoci “altri luoghi di potere”. Forse questo è il suo dono più grande: scombinare gli schemi percettivi e le forme di impegno per riorientare l’attenzione su altre bolle di potenzialità che emergono dai paesaggi chimici dell’Antropocene.

***

In ultima analisi, il più grande sacrificio dell’attivista è la sua identità, la sua verginale separatezza. Con la sua dipartita disperde i suoi resti impollinando ogni banale superficie con agentività e promessa. Ed è lì che dobbiamo andare, nella distanza performativa in cui vortica l’altrimenti.»

street art stencil a Betlemme