Clinica della crisi/ecologia della cura nasce nel desiderio di ripensare i lemmi dei nostri luoghi comuni ,delle parole d’ordine stantie e delle parole che ancora ci mancano. Bayo Akomolafe in questi due brani tratti dai suoi webinar e blog (https://www.bayoakomolafe.net) riprende i temi dell’identità e della razzializzazione nel contesto di un più vasto intreccio con il pianeta e con il divenire degli umani. Sono temi che ricordano molti spunti di Achille Mbembe, e prima di lui di Frantz Fanon ma l’intreccio delle radici Yoruba di Bayo in dialogo con la ricchezza del pensiero contemporaneo permettono di esplorarli nuovamente come altrimenti emergenti dalle urgenze del presente. Le foto delle maschere sono tratte dal lavoro di Phyllis Galembo “Maske” scattate in Africa Occidentale e nella diaspora a Haiti e Cuba.
Bianchezza
«La modernità coincide con la “bianchezza”.
Ma cos’è la bianchezza? Non è una qualità o proprietà personale, così come le nostre politiche tentano di di definirla, la bianchezza è un sistema, un sistema razzializzato che produce corpi e li colloca gerarchicamente. Mi piace dire che i corpi bianchi sono diventati bianchi per via della “bianchezza”. Non è che i corpi nascano bianchi o neri o marroni, ma che quelle identità sono costruite a partire da una metrica politica che attribuisce delle “proprietà”.
Se che le cose ìdel mondo non appaiono senza relazioni, il mio corpo e i vostri corpi emergono a partire da questa metrica politica e veniamo introdotti in un mondo che ci dice di Tizo e Caio ….. non tanto che “sono” bianchi ma piuttosto che la “bianchezza” arruola i loro corpi, usa i loro corpi così come usa il mio e lo colloca all’interno dello schema di ciò che conta: “tu sei nero, tu sei bianco, tu sei caucasico” e così via….
Dunque, la bianchezza è un sistema geo-socio-culturale razzializzato che produce corpi e li colloca all’interno di una gerarchia di privilegi o possibilità di accesso alle produzioni di stabilità della modernità. Quello che stiamo dicendo è che la “bianchezza” eccede l’individualità umana. La bianchezza non dipende da una proprietà ereditata da un singolo corpo, o da singoli corpi, ma è un sistema, un’organizzazione.
Per iniziare a cogliere le tracce [culturali] della bianchezza potrebbe essere d’aiuto la storia archetipica di Baldur, il mito nordico di Baldur, per capire come agisce e cosa genera la bianchezza, e cosa ciò abbia a che fare con una certa idea di modernità.
La storia di Baldur deriva dal mito di un dio nobile e bellissimo, figlio di Freya e di Odino. Un giorno una profezia arriva alle orecchie di Freya e di tutti quanti, di fatto annunciando la morte di Baldur. Tutti hanno paura, specialmente la madre, Freya, così fa quello che in quelle circostanze penso farebbe ogni madre dotata di quella sorta di potere divino, viaggia in lungo e in largo per tutti i Sette Regni, va da ogni cosa umana e non umana supplicando ognuna e ognuno di non fare del male a suo figlio, di non ferire Baldur. Va dai tavoli e dalle aquile e dalla luce del sole e da montagne e leoni e da ogni singola cosa che ha un nome, e anche da quelle che un nome non ce l’hanno ancora. Ma ne dimentica una, dimentica di visitare il vischio. Così quando Loki entra in gioco in questo intricato copione narrativo egli cerca di capire come fare a uccidere Baldur. E quando scopre che il vischio è stato trascurato da questo dispositivo, lo prende e ci costruisce un’arma, la punta contro il calcagno di Baldur, e lo uccide. E poi la storia da lì continua con la discesa agli inferi di Baldur e tutto il resto.
Ma a me interessa perché può aiutarci a a capire come agisce la bianchezza – la bianchezza non è semplicemente un’identità…la bianchezza è un progetto di formattazione della terra, un progetto di gerarchizzazione. Un progetto che colloca i corpi, compresi quei corpi che vengono “identificati” come bianchi in un dispositivo coloniale che non sta più funzionando per nessuno, neri, o bianchi o marrone. Così la bianchezza non equivale semplicemente ai corpi bianchi, la bianchezza è una determinata configurazione del potere sulla terra che ci ha messo seriamente nei guai, e dobbiamo parlarne.La storia di Baldur ha a che fare con il desiderio di trascendenza. Baldur cerca di sfuggire alla finitudine, alla morte, e la madre cercatdi proteggere il corpo del figlio dalla materialità delle cose, dalla perdita, della sub-scendenza, dal declino e della discesa nella terra.
È una ricerca di purezza, è quello che aveva notato Hillman – un grande psicologo – quando aveva definito la bianchezza un “culto della purezza.” È l’aspirazione alla supremazia, è una delle possibili figure che assume l’universalismo, un supposto desiderio di “libertà”, un’idea di indipendenza e salvezza, che immagina di poter risolvere tutti i problemi se solo ogni cosa venisse gestita e nominata. E tutto questo ha a che fare con l’idea che l’umano sia un’unità discreta e distinta, esclusiva e escludente. Se posso tagliar fuori tutto il resto, tutto quello che c’è nel mondo, allora posso crearmi una sovranità privata ed interiore. È per questo che la modernità fa tanta fatica a pensare alle cose come a qualcosa di vivo, non può pensare che il mondo sia vivo. È necessario che il mondo sia morto, ha bisogno che il mondo sia una “risorsa naturale”. Per poter proteggere Baldur deve fare in modo che ciò sia così a tutti costi. È questa la pulsazione archetipica della modernità e della bianchezza.
Questa è l’idea di una modernità bianca. E’ in questo modo che la bianchezza è connessa alla storia euro-americana, e alla colonizzazione. E’ tutto ciò si intreccia con la rivoluzione industriale, con il diniego di altre “agentività” terrene… è qui che la narrativa dell’espansione incontra la metanarrativa del progresso. La modernità nasce da un desiderio di diniego. Ed è connessa a un campo traumatico.
L’Antropocene rappresenta la sua struttura temporale geologica, un’era in cui l’umanità ha acquisito una tale superiorità da esser diventata la specie dominante sul pianeta, a tal punto che converte il mondo a sua immagine e somiglianza. Quando i geologi dicono che dall’Olocene siamo passati all’Antropocene chiamano questa era con il nostro nome, [l’anthropos = l’umano] per ricordarci dei danni che iabbiamo imposto al mondo. Un’era caratterizzata dal caos climatico, dalla disuguaglianza razziale, dalla morte e dalla sofferenza. La modernità bianca è caratterizzata dalle superfici cicatrizzate del capitalismo estrattivista.
Queste non sono solo nobili proposizioni teoriche, queste sono le terre da cui vengo, le terre che ricevono il lato oscuro, e le ombre della rettitudine morale dell’occidente. Racconto spesso ai miei amici quando viaggio negli Stati Uniti o in Europa, e vedo quanti, con molta diligenza, si affannano a differenziare la spazzatura, e penso a ciò che non viene raccontato a queste care persone che solo il 7 per cento di ciò che si suppone venga riciclato, viene davvero riciclato. Il resto, il 93 per cento viene spedito nei miei paesi: in Ghana, in Nigeria, e diventa il nostro parco giochi. Ho giocato sulle discariche di rifiuti dell’occidente. Le narrazioni che mancano a quei cittadini che fanno del loro meglio per fare la cosa giusta è che ci sono mondi nascosti, mondi sottili, mondi insorgenti, che sono da moltissimo tempo i destinatari di queste pratiche moralistiche. E anche questo è capitalismo estrattivista, è il modo in cui i cittadini vegono illusi rispetto ai veri costi del lusso in cui vivono, rispetto ai costi di ciò che considerano “ordinario”. La modernità è costellata dai corpi degli schiavi africani trasportati oltre Atlantico ed è anche associata al caos climatico. Non solo dal riscaldamento globale del carbonio ma da un clima globale didisperazione. Se giuardate alle statistiche aumenta sempe più la perdita di fiducia nell’autorità costituita, la perdita di fiducia nello stato-nazione, la perdita di fiducia nella democrazia, perdiamo fiducia nelle cose che sono state il fondamento della civiltà moderna. Questa è anche un opportunità credo, ma allo stesso tempo causa di allarme, perché tutto sta andando a pezzi.
Quello che voglio sottolineare è che la modernità è un vero e proprio “progetto immobiliare”, per dirla con le parole di W.E. DuBois, il sociologo del XIX secolo. È qualcosa di più di uno stato di “cattura”, che si prende corpi neri e marrone, ma ha a che fare con la conversione del mondo in un’immagine pietrificata, si diffonde a macchia d’olio, al di là della piantagione, si apre e sanguina in concetti come la giustizia, l’individuo, il cittadino… Perché anche quando gli schiavi in fuga hanno trovato libertà, hanno rapidamente scoperto che la libertà non poteva essere concepita al di fuori di un’architettura bianca e al di fuori delle strutture concettuali che la nutrivano. Persino la libertà era prigione.
Perché chi fuggiva e rivendicava la libertà, doveva rivendicare la cittadinanza che è un’altra delle forme della modernità bianca. Non parlerò delle riserve indiane, o di innumerevoli azioni compiute per creare un mondo apparentemente stabile, razionalizzato. Certamente le strategie coloniali ebbero effetti devastanti a partire dalle appropriazioni territoriali e dai che le legittimavano ma per ora mi fermo qui: all’individuo, al soggetto “cittadino”, l’individuo, il feticcio della modernità. Ciò che la modernità ama al di sopra di ogni altra cosa è l’idea dell’individuo “sano”, rimosso dal e isolato dalle terre selvagge di là dagli steccati.»
Nerezza
Nerezza non è un sogno pan africanistica associato a visioni di futura supremazia, ritorno dall’esilio e coerenza nazionalista e non parla nemmeno di una nerezza afrocentrica, statica ed essenzialista. Non si limita al concetto identitario antagonista associato alle dinamiche dell’identità nelle comunità Afro-diasporiche, e non è una promessa disincarnata e universale di emancipazione. In sintesi, questa nerezza non è una creatura dello Stato o della giustizia. Questa nerezza, pure secreta dalla storia e dalle storie e dai lutti di corpi neri, è l’olio votivo che illumina la fine di un “mondo”, cercando crepe nel vasto territorio umano (l’Anthropos), e promuovendo pratiche decoloniali fuggitive. Tale Nerezza sconcerta: è un invito a intrecciare i fili della complicità senza cadere nella comoda trappola della colpa; un invito a mappare il desiderio e a fare i conti con il fallimento. Un invito a combattere – non con i poteri stabiliti che disprezziamo, ma con le paradossali collusioni con cui sosteniamo tali poteri.
Badate. Proprio come l’autismo non ha solo a che fare con eventi neurologici nella testa di un figlio, ma con i modi con cui produciamo e nominiamo i corpi e i mondi che li supportano escludendo altre corporeità, la Nerezza non riguarda solo persone nere (così come la bianchezza non riguarda solo i bianchi), anche se emerge dall’attenta considerazione dei contesti, delle esperienze e dei viaggi di entrambi. La nerezza è una cripistemologia [epistemologia che nasce da saperi considerati disabili/crippled NdT] che considera l’uomo, l’Anthropos, e ciò che fa, ciò che produce, ciò che esclude; la nerezza è la ricerca di nuove disabilità, di nuove fedeltà corporee. Riguarda un mondo macchinico che definisce alcuni colpi speciali – e altri corpi come appendici superflue, vicine all’animalità, e che non giungeranno mai alla gloria e alla nobiltà di quei corpi che si identificano come corpi bianchi: una nobiltà grevemente sostenuta dal diniego censorio della vitalità del mondo materiale. La nerezza non equivale agli slogan riprenderci il nostro, vendicarci, essere uguali, essere risarciti. Non equivale a quella opposizione normativa che rientra in fondo nell’architettura del progresso bianco. Riguarda invece il modo in cui corpi rimangono invischiati nei mondi che creano, nei mondi che li creano – riguarda le aperture, le crepe, che spesso emergono, quasi miracolosamente, riguarda i portali attraverso i quali possiamo intuire con un’intensità percettiva quasi animale che una diversa via è possibile.
La nerezza non è solo una opposizione avversa e prescrittiva che interferisce con il progresso biancoè l’abbondanza nei confronti della quale siamo già indebitati – anche se non sappiamo bene come riconoscerlo. Parlo elle piume di polvere ricche di fosforo e delle diatomee morte negli antichi laghi dei deserti africani che volano al di là dell’Atlantico per nutrire i polmoni amazzonici del pianeta (e fanno eco ad altri viaggi che attravesarono l’Atlantico quattrocento anni fa); parlo della porosità degna-di-gratitudine che turba ogni vocazione alla permanenza.
La nerezza – questa lettura elettrica e temporanea di ciò che emerge attraverso la storicità della presa in schiavitù e della colonizzazione – è la possibilità estatica che anche la bianchezza si stia mutando in altro.
OVVERO “IL MITO DEL RICERCATORE NELLA GABBIA DORATA”
Bayo Akomolafe
Una storia
Da dove vengo io, da qualche parte nella regione centro-occidentale della Nigeria, in Africa occidentale, dove il popolo Yoruba ha fatto casa per generazioni, c’è una storia istruttiva su Ìjàpá, la tartaruga, che è anche nota come trickster nei racconti folcloristici Yoruba – una storia che getta un po’ di luce su quella che potrebbe essere una diversa ontologia della ricerca. In questa storia, Ìjàpá acquista una zucca calabash essiccata, famosa per il suo collo di bottiglia e buona per conservare il vino di palma. Lega una corda al collo della zucca e se lo appende al collo per partire alla ricerca di tutto ciò che c’è da sapere su tutto.
Va dall’aquila per imparare il potere del volo, dal falò per scoprire i segreti del calore, dalle nuvole malinconiche per capire come si formano le gocce di pioggia e nel villaggio degli uomini per capire perché i bipedi sono così irrequieti e impazienti. Ogni volta che acquisisce nuove conoscenze, le raccoglie come si farebbe con un boccone di patate dolci pestate, e poi le spreme nella sua zucca che tiene appesa al collo.
Ben presto la zucca è piena e Ìjàpá è assolutamene certo di essere il più saggio di tutti gli esseri. Forse più saggio persino degli dei. Accumula la sua scorta di conoscenze per giorni e giorni. A un certo punto decide che sarebbe meglio nascondere da qualche parte quel prezioso carico. Così entra nella foresta per cercare l’albero più alto e nessun albero è più alto del possente albero di iroko. Nel cuore della notte, lontano da occhi indiscreti, fa un primo tentativo di scalare l’albero. Ma, come forse sapete, la tartaruga non è molto abile ad arrampicarsi sugli alberi. I suoi arti non sono abbastanza agili e lunghi per abbracciare il corpo voluttuoso dell’albero. Inoltre, con il peso della zucca piena che porta al collo, scalare l’albero fino in cima è un’ardua impresa.
Proprio mentre sta per arrendersi, la tartaruga sente qualcosa che fruscia nell’erba lì accanto. Salta fuori la cavalletta che dice a Ìjàpá, di aver osservato tutta notte le sue peripezie. “Mi hai fatto schiattare”, ridacchia la cavalletta indispettendo Ìjàpá. “Ma dai”, continua l’insetto, “potresti portare sulla schiena, invece che sulla pancia, quello che tieni in quella zucca. Vedi un po’ se non ti funziona meglio”. E senza tanti giri di parole, l’insetto salta via.
La tartaruga riconsidera la sua strategia, riesce a scalare l’albero e si ferma in cima per ragionare su quello che è appena successo. Si rende conto della sua follia. “No non sono poi la più saggia”, confessa a sé stessa. “Forse non è raccogliendo conoscenze che si diventa saggi”. Solleva la zucca e ne rovescia il contenuto restituendolo al mondo.
La follia della tartaruga: che fare di un mondo che trabocca
La storia della tartaruga, mi veniva raccontata in Nigeria da bambino. L’ho letta nei libri e l’ho sentita alla tele. Da allora ho dimenticato quali insegnamenti avrei dovuto trarre dall’ascolto e dalla lettura. Insegnamenti che probabilmente avevano a che fare con l’umiltà, l’obbedienza ai genitori e la memoria del privilegio di avere una comunità.
Alla fine mi sono lasciato alle spalle tutte quelle storie come cose infantili che non avevano nulla a che fare con il mondo degli adulti in cui avrei dovuto vivere: il mondo degli ismi e delle lauree e dei panel e degli intellettuali africani che ci passavano le riflessioni degli uomini bianchi del XVIII secolo che la sapevano più lunga di noi.
Per la maggior parte della mia vita accademica, mi è stato detto che la conoscenza era una cosa fissa, già incartata in pacchetti deterministici di relazioni causa-effetto. Il mondo era fondamentalmente dotato di senso, sempre aperto all’analisi razionale, eventualmente scopribile nella sua interezza (una teoria del tutto, no?), e decisamente muto e morto se messo a confronto con l’intelligenza e l’agenzia dell’ “umano”.
Un mondo del genere, privo di mistero e incanto, descritto in modo così esaustivo da maschi bianchi benestanti, cominciò a sembrarmi problematico e sospettosamente unilaterale. Ho iniziato a indagare gli effetti della colonizzazione sui modi con cui inquadriamo la conoscenza, la guarigione, il benessere, l’economia, la politica e la speranza. Alcune figure come Wole Soyinka, Chinua Achebe, Walter Rodney e Jorge Ferrer mi hanno spinto a intraprendere un percorso decoloniale – non di riallineamento con un passato “originale” come quello che qualcuno sperava di ritrovare, ma in una dimensione fuggitiva in cui poter percepire responsabilmente il molteplice sotto il baldacchino dell’universale.
Ho iniziato a parlare e a scrivere di altri mondi, di altri luoghi e della figura razzializzata dell’ “umano”. L’Antropocene stava già diventando un tormentone in un’etica planetaria che cercava di riconciliare gli esseri umani. Per cercare di decostruire la duplicità di questi contributi eurocentrici, mi sono rivolto alle teorie femministe, alla pensiero critico ecosistemico del neo-materialismo, che già si erano impegnati a denaturalizzare gli sforzi della scienza illuminista nel produrre conoscenze del genere “cosa fatta capo a”. Per me, la lotta consisteva nel disturbare la tesi coloniale dell’unicità del mondo e le sue pretese di esclusività. Questi concetti, che non vanno intesi come una verità rivelatrice o deve essere preso come divino o “nuovo”, mi hanno aiutato a capire che la scienza non è solo un’idea.
E poi, ancora una volta, mi sono imbattuto nella tartaruga. Non mi aspettavo che le storie della mia infanzia avrebbero avuto un grande significato per la mia vocazione decoloniale, ma rileggendo i testi sulla tartaruga e le sue avventure, e su Eshu, il dio trickster che si era imbarcato con gli schiavi yoruba miei antenati, sono rimasto colpito dalla loro implicita potenza: parlavano di un mondo fluido in cui la conoscenza era “impossibile” – almeno quel tipo di conoscenza che segnalerebbe qualcosa di risolutivo, definitivo, chiuso. Molto prima che Donna Haraway scrivesse di “conoscenze situate” e incarnate, queste storie esprimevano ciò che gli Yoruba avevano intuito: che conoscere il mondo significa segnarlo ed esserne contemporaneamente segnati. Che non esiste una conoscenza esterna che non coinvolga il conoscente nell’atto materiale di conoscere. Che la ricerca e il ricercatore sono co-prodotti dall’atto di conoscere – una nozione che ridefinisce la centralità del conoscente.
La storia di Ìjàpá mette in evidenza la materialità del conoscere. Sconvolge il fondazionalismo della conoscenza e invita il conoscitore a rivedere le sue pretese. Il racconto sottolinea una tensione che gli studenti del “neomaterialismo”(1) frequentano e che è abilmente sintetizzato dal proverbio Igbo: “Il mondo è una mascherata danzante; se lo si capisce, non si può restar fermi”. Il proverbio allude a un’idea di mondo che resiste alla stabilizzazione generata dal supposto sguardo esperto, un mondo che sfugge alle dinamiche di verifica dei laboratori, che vaga, istiga e si fa beffe dei tentativi umani di finalizzazione, e che fa muovere e danzare gli esseri umani per costringerli a negoziare con la sua astuta e imprevedibile promiscuità.
Per gli Igbo della Nigeria, la conoscenza (così come l’etica) è cinetica: conoscere il mondo significa alterare ciò che si conosce ed essere alterati dalla materialità del conoscere. Navigare nel mondo significa rendere possibili certi tipi di conoscenza ed escluderne altri.
In un senso molto tattile, quindi, conoscere il mondo, conoscere qualsiasi cosa, significa dar forma e mettere in scena il mondo – e allo stesso tempo prender forma ed essere formati. Per esempio, saper riparare i computer significa avere il proprio corpo segnato e modellato da questa disciplina; passare il tempo a lavorare in un cubicolo (2) significa diventare una creatura del cubicolo. Il fare misurazioni ha una dimensione più ampia di ciò che si misura. qualcosa che dà forma al fenomeno del misurare.
Non abitiamo un universo indipendente dall’osservazione, in cui l’essenza della conoscenza consisterebbe nel cogliere o rappresentare in modo adeguato fenomeni “naturali” come ossa, batteri e buchi neri. Invece interveniamo così intimamente quando rispondiamo alla “natura” che la modifichiamo in modo fondamentalmente anche solo interagendo con essa, anche solo descrivendola, e sia noi che la “natura” (come se le due cose potessero essere separate) ci trasformiamo nello stesso momento.
Conoscere significa mettere in atto il mondo; conoscere significa modificare il presunto oggetto della nostra cognizione. Osservare significa alterare ciò che osserviamo. Abbiamo più possibilità di catturare il nostro riflesso in uno specchio che di comprendere il mondo come se fosse un contenitore fatto di oggetti intelligibilmente discreti e separati con proprietà fisse che attendono le nostre misure precise.
Tendiamo a immaginare il pensiero come qualcosa di completamente spettrale, immateriale, trascendente e ultraterreno – e la vocazione a conoscere come una registrazione del tutto esterna dei codici invariabili e determinabili del mondo materiale. Una simile immaginazione posiziona noi “umani”, come se vivessimo al di fuori del mondo e allo stesso tempo rende centrali e amplifica le nostre attività sul pianeta.
Ciò che la storia della tartaruga e il proverbio Igbo ci insegnano, rilette oggi attraverso nuove intuizioni materialiste, è che il pensiero, o il pensare, nasce da un movimento materiale di corpi (non necessariamente umani e persino non animati) che danzano insieme. Una rivitalizzazione performativa del pensiero corporeo come matrice rizomatica tentacolare che intreccia i corpi in una rete in continuo divenire. Il modo in cui conosciamo ha a che fare con i movimenti che facciamo. Non riflettiamo sul mondo, lo mettiamo in atto. Allora fare ricerca non significa catalogare il mondo accumulando dati consumabili, ma toccarlo e trattenere il respiro ed essere toccati in una restituzione orgasmica, e poi secernere “esempi” sufficientemente stabili (invece di categorie o prototipi paradigmaticamente fissi). Prestare attenzione al mondo diventa un poter fare in tensione artistica con il mondo; assistere alla caduta in rovina dei nostri ambienti significa testimoniare insieme la nostra fine collettiva.
Questa visione della conoscenza è particolarmente congrua oggi nell’era ormai nota a molti dell’Antropocene – un termine controverso coniato nel 2000 da Paul Crutzen e Eugene Stoermer che assegna un nuovo nome geologico all’epoca post-olocenica in cui presumibilmente viviamo. Questo nome sottolinea gli effetti negativi dell’attività antropica e le tracce tossiche dell’industrializzazione che la documentazione geo-stratigrafica rivela. Il termine è controverso perché accomuna [nel riferimento all’ Anthropos] tutte le comunità umane, come se tutte fossero state ugualmente complici in questa modalità di “conoscere” il mondo in modi ormai riconosciuti come deleteri. Ciò che è importante notare è che il termine ha avuto una certa utilità nel suscitare una conversazione (per quanto sbilenca e parziale) che rivela un’insurrezione di corpi un tempo invisibili: è come se il mondo non umano e le ecologie che hanno a lungo sovvenzionato le nostre pretese di centralità e superiorità si stessero ribellando, ritirando il loro consenso e irrompendo attraverso le mura accuratamente consacrate delle civiltà che abbiamo costruito dalla fine dell’era glaciale. Il mondo fa spallucce e, nella sua critica torrenziale agli insediamenti moderni, mette in discussione i modi di conoscere che hanno reso “noi” abitanti umani così problematici.
Volendo navigare il contrasto tra una nozione relazionale/ecologica/non duale di conoscenza e una dualistica, aggiungerò qualcosa.
Uno dei modelli moderni di conoscenza – quello che si può chiamare il mito del ricercatore privilegiato ma in una gabbia dorata – separa il conoscitore dal mondo, immagina entrambi a partire da categorie binarie separate. Il conoscente sarebbe un soggetto dotato di capacità pre-relazionali in grado di rappresentare il mondo così com’è. Il conosciuto se ne starebbe in un’esteriorità passiva in attesa che vengano impiegati gli strumenti e le misure appropriate per rivelare le sue dimensioni nascoste.
In questa cosmologia eurocentrica di rappresentazioni e descrizioni, il mondo resta in attesa di essere svelato. L’umano resta sovrano. Essere istruiti significherebbe conquistare gli strumenti adeguati per temperare la ferocia della natura e per attingere alle sue risorse. L’accento sull’ estrattivismo coloniale non è un caso: il rappresentazionalismo è una performance del sapere impegnata a privilegiare il soggetto umano come conoscitore privilegiato e oscura il ruolo dell’ambiente nel produrre non solo la conoscenza, ma anche colui che è “supposto sapere”. È una dialettica di soggetto contro oggetto, di conoscente contro conosciuto. Questa dinamica che presuppone che il vero sapere sia un riflesso speculare dell’immagine del conoscente, è al centro del moderno progetto illuminista e struttura l’università coloniale. L’indagine si basa sul controllo, sulla previsione, sulla descrizione e sulla strumentalizzazione. Naturalmente, questa epistemologia ha favorito a lungo gli uomini bianchi e ha oggettivato i corpi neri e le donne.
Come già accennato, la modernità anela alla stabilità e all’uniformità. Vuole indicizzare il mondo, categorizzarlo, stabilizzarlo e renderlo funzionale ai nostri obiettivi (per “nostri” si intenda “moderni e bianchi”). L’avvento dei big data e la continua Google-izzazione del mondo sono solo esempi di come il mondo moderno costruisca il suo sapere. Tuttavia, come la tartaruga nella storia Yoruba, nell’Antropocene la modernità si trova di fronte a uno scandalo e non se ne capacita: gli eventi degli ultimi decenni hanno turbato quella versione lineare della conoscenza. Siamo testimoni di un mondo che si rovescia, di un mondo che devia dalle categorie assegnate, di un mondo che supera le nostre modalità di rappresentarlo.
Questo imbarazzante eccesso di mondo mette in discussione la nostra centralità colonizzatrice, costringendoci (3) a prendere atto di come abbiamo ridotto il mondo a nostra immagine e somiglianza.
Prima dell’introduzione del termine Antropocene, i movimenti femministi del cosiddetto “Nord e Sud globale” hanno lottato per dare potere alle donne in un sistema dominato dagli uomini e, in tempi più recenti, hanno sottolineato come anche la relazione con l’ambiente sia stata dominata dal patriarcato bianco. Gli ecofemminismi, i nuovi materialismi e i postumanesimi critici sono nati da questo impegno energico, dalle domande sulla vitalità delle ecologie, sull’influenza della terra sul pensiero e sull’interdipendenza degli esseri umani. Queste nuove discipline segnalano una “svolta” un “riorno” verso la natura – non la natura come risorsa, ma la natura come agency, come continuità vitale che resiste a ogni articolazione definitiva.
Ri/volgersi alla natura
Molte saggezze indigene non occidentali hanno preceduto questi sviluppi accademici. Da sempre parlano di una terra viva, di un mondo animato che non si limita ad assecondare i nostri ansiosi desideri di intelligibilità. Gli Yoruba, per esempio, parlano di “Awon Iya Wa” ovvero delle “Nostre Madri” come di una misteriosa forza terrestre, fonte segreta di potere che si manifesta e incarna maestosamente, nei corpi delle madri anziane. Queste vengono chiamate “Aje”, che i contenitori concettuali coloniali hanno tradotto con “Strega”. I concetti yoruba di “aje” e “aśe” sono simili alla forza misteriosa di “Manitou” ben nota ai popoli algonchini. La ricercatrice indigena Vanessa Watts parla di un “pensiero del luogo”, un concetto che de-sacralizza gli umani e situa la persona in una dimensione relazionale che procede dalla terra. Anche la ricercatrice occidentale N. Katherine Hayles scrive di reti cognitive non coscie, dimostrando che la “mente” e le sue presunte proprietà non si celano nel cranio. In altre parole siamo estensioni performative degli ambienti che abitiamo.
In breve, questi campi indicano la possibilita di una diversa ontologia della ricerca e mettono in discussione le abitudini eurocentriche delle modalità di rappresentazione e osservazione. Ancora una volta, conoscere il mondo non significa porsi in una posizione di fredda esteriorità; conoscere significa riconfigurare ciò che si conosce ed essere a propria volta riconfigurati. C’è un’intima reciprocità che lega “soggetto” e “oggetto” in uno stretto intreccio relazionale
Il richiamo dell’ecoversità
La promessa delle ecoversità, a mio avviso, risiede nella destabilizzazione dell’umano come categoria separata e del mondo come qualcosa di stabile da conoscere o da ricercare, nel senso passivo del termine. Le ecoversità di oggi possono contribuire collettivamente a disturbare le forme di indagine “umaniste” che abbiamo adottato e che hanno contribuito a generare indifferenza nei confronti delle agenzie più-che-umane che ci plasmano. Possono contribuire a segnalare la fine del progetto illuminista, del soggetto indorato e del ricercatore privilegiato.
L’ecoversità è l’ambiente del ricercatore postumanista. Con “ricercatore postumanista” non intendo il filosofo addestrato all’arte di pensare la porosità della figura umana o il postumano. Se dico “ricercatore” non intendo privilegiare lo sguardo umano. Con ricercatore postumano mi riferisco all’intreccio di soggetti-oggetti ancora da nominare; intendo dire che il mondo è così ricco, così abbondante, che supporre di essere gli unici incantati da questa meraviglia significa perpetuare una sorta di cecità oggi particolarmente problematica; intendo richiamare l’attenzione su coalizioni più ampie e selvagge di cui abbiamo sempre fatto parte; Intendo dire che gli alberi, i cetacei e le comunità batteriche che vivono come ecosistemi immigrati nelle viscere umane stanno conducendo una propria ricerca; e vorrei fare un cenno agli antenati che indugiano in luoghi spettralmente ontologici [hauntological sites], infestando i nostri mobili e alludere ai corpi esotici/mostruosi che disturbano la fissità di ciò che significa essere umani; intendo cantare un mondo che è più-che-mondo, più-che-sapere, più-che-essere, sempre in divenire.
L’ecoversità non può che resistere a mappature definitive, ad articolazioni finali, perché ci invita a un’alterità inquietante, e ad abbracciare altri spazi di potere al di fuori delle torri d’avorio e del loro umanesimo liberale (o forse in dimore troiane clandestine). L’ecoversità è un “non dire” apofatico, un rifiuto di essere assolutamente certi di cosa sia una foglia, il rifiuto di strumentalizzare il mondo con certezze tali da togliergli ogni meraviglia. L’ecoversità è una postura di umiltà, in un universo incommensurabile che ridimensiona il privilegiato conoscitore umano – è un ritrovarsi nelle crepe dell’asfalto riconoscendo che il non sapere non è meno prezioso delle abilità e dei gesti che reifichiamo come sapere, anche se solo per un istante. L’ecoversità è ciò che potremmo fare se ci immaginassimo all’improvviso su un pianeta alieno, immersi nell’eccentricità di un mondo che non risponde alle nostre solite spinte, alle nostre provocazioni, ai nostri atteggiamenti etici e alle nostre razionalizzazioni puritane, e se ci rendessimo conto di essere in una situazione che in buona parte ci sfugge.
Toccare il mondo ed essere toccati a nostra volta
Lo scrittore e professore di Black Studies, Fred Moten, parla dello studio come del superamento dei contenitori in cui lo abbiamo rinchiuso. Proprio come la musica non inizia quando il direttore d’orchestra entra nella sala e impugna la bacchetta, ma prende forma nell’attesa e nella preparazione che precede l’evento poi permea il godimento nell’esecuzione e indugia anche dopo, nelle conversazioni all’esterno dell’auditorium, studiare è un’impresa più complessa e selvaggia di quanto si ritenga. Questo vale anche per la ricerca.
Che aspetto avrebbe la ricerca se immaginassimo che si svolge al di là dei documenti, dei laboratori e delle pratiche di peer review? E se anche le radici stessero conducessero una ricerca sul campo? Magari in questo momento le particelle virtuali stanno svolgendo una loro ricerca sul mondo nel suo essere-divenire. E se la ricerca significasse metterlo al mondo il mondo? Immaginare questo significherebbe decentrare la funzione umana (soprattutto la figura maschile bianca e benestante) dagli algoritmi della ricerca. Momenti apparentemente insignificanti, casuali e per lo più invisibili, verrebbero considerate forme di ricerca.
Le nonne che raccontano ai bambini storie della buonanotte sarebbero una forma di ricerca. Condividere sentimenti di gelosia in una cerchia di amici e sconosciuti sarebbe una forma di ricerca sull’ontologia della gelosia – non per scoprire cosa “sia” la gelosia in una qualche riduzionistica modalità, ma per sentire come si sta manifestando, per percepire l’inappropriatezza delle nostre categorie e per essere aperti a quali altre questioni potrebbero emergere. Sì, anche il sentire potrebbe essere considerato costitutivo di come il mondo vien messo al mondo, all’interno di un arazzo di affetti che va oltre le impressioni atomistiche dei nostri sé individuati e che coinvolge nella sua eccessività corpi ancestrali, segreti, rituali, poteri e profezie.
In breve, l’ecoversità fa uscire di prigione la ricerca, quasi nello stesso modo in cui la tartaruga libera e riversa il contenuto della sua zucca nel mondo.
Andrebbe al di là degli obiettivi di questo breve saggio delineare tutti i possibili approcci, le metodologie e istanze di “studio fuggitivo” evitando di reificare il progetto dell’ ecoversità come sito vitale per la produzione di nuovi corpi. Questo esercizio richiederebbe un lavoro di mappatura che contatti la moltitudine di approcci, cosmologie e impegni in atto in questi tempi. Questa mappatura sarebbe un processo continuo, da non confondere mai con il lavoro di indicizzazione che la colonizzazione propizia. Una condivisione di ricette, non di prototipi. Una raccolta vivente di esempi, non di documenti statici. Una bussola di domande, non un’arringa biblica di risposte definitive.
Sebbene un elenco di pratiche non sia possibile in questa sede, possiamo almeno offrire alcuni esempi e poi cercare di contestualizzarli all’interno del nostro travagliato ambiente – dimostrando perché abbiamo bisogno di avvicinarci al mondo in modi così diversi da quelli che il mondo classico delle università ci invita a fare.
In effetti, l’ecoversità è una risposta all’urgenza di rallentare. L’Antropocene, nella sua stranezza aliena, introduce un senso pervasivo di mancanza di dimora e di qualcosa che manca negli insediamenti moderni: il mondo che una volta escludevamo ci sta precipitando addosso, confondendo le equazioni e gli algoritmi a cui siamo abituati. Il cambiamento climatico, un eufemismo per indicare l’Antropocene, ci stressa, tirandoci per la giacca. Una risposta ricorrente degli Stati nazionali, delle istituzioni e persino dei movimenti per la giustizia climatica è stata quella di cercare di bloccare il fenomeno, di chiedersi quali soluzioni tecnologiche possiamo mettere in campo per aspirare il carbonio dall’atmosfera. Per forzare una legislazione che imponga limiti alle emissioni. Sebbene questa linea di indagine sia importante, occlude altre forme di ascolto, di creazione di senso e di conoscenza. Annulla il tipo di domande che una sensibilità postumanista (cioè una metafisica che rifiuta la centralità degli esseri umani e pensa agli ambienti come vivi e attivi nella creazione del mondo) potrebbe consentirci di porre.
Le metodologie di ricerca post-umaniste (4) e post-qualitative sono modi di condurre l’indagine e di porre domande che privilegiano il non umano e tengono conto del modo in cui l’inclusione del non umano nell’assemblaggio della ricerca riconfigura la ricerca stessa. La fretta di trovare soluzioni lascia il posto a una modalità in cui stare con i problemi, a un rallentamento che riconosce che il “mondo” è più scaltro di quanto i nostri sforzi di strumentalizzazione possano o vogliano affermare.
Le metodologie postumaniste sono approcci diffrattivi, mettono in gioco le interferenze, invece di riprodurre le posizioni precedenti. Un metodo che ho sviluppato e messo in pratica in circoli ccreativi di intelligenza collettiva, il Trail of Enlivenment, invita i partecipanti a porsi domande che ritengono importanti, e poi di incontrare e interagire con gli “oggetti” del loro ambiente in un modo “nuovo”, avvicinandoli non come oggetti da studiare ma come parenti e potenziali alleati (o anche elementi perturbanti) della propria ricerca. I partecipanti sono poi invitati a tornare alle domande iniziali e a modificarle, a prescindere dalla percezione che ciò che è emerso abbia o meno senso o ne abbia di più rispetto alle domande iniziali. Il processo è immaginato come espansione ontologica, per turbare il ricercatore nella certezza delle sue considerazioni.
Nelle pratiche di scrittura creativa, l’insegnamento abituale enfatizza il ruolo dell’autoriflessività nella vita dello scrittore. Scavando nella propria interiorità, lo scrittore può estrarre gemme di intuizioni sul funzionamento soggettivo che possono servire per l’apprendimento trasformativo. Tuttavia, come alcuni ricercatori sottolineano, questo “scavare” presuppone che il sé e il suo archivio di esperienze possiedano un’interiorità assoluta che rende invisibili i contributi del mondo circostante al nostro divenire. Kay Are, ricercatrice dell’Università di Melbourne, fa eco alla biologa Donna Haraway affermando che gli oggetti che ci circondano sono “storie congelate” e che, quando “tocchiamo” il mondo, esercitiamo un’attenzione diffrattiva che rompe l’insularità del ricercatore privilegiato chiuso nella sua introspezione (5). I “tranelli dell’autoriflessività” sono di perpetuare il rischio di restare con ciò che ci è familiare, di rafforzare il razionale e di stabilizzare le dinamiche problematiche del potere. Abbiamo bisogno di approcci conoscitivi che ci avvicinino a una disciplina dell’altro mostruoso, di quel mondo che ci mette in riga.
Ci sono altre forme di ricerca, esistono rituali e “tecnologie del compostaggio” che possono trovare spazio nell’ecoversità. Proviamo a “immaginare santuari”, non come luoghi sicuri (il santuario non è un rifugio), ma come luoghi in cui si può cadere a pezzi, in cui si può co-sensualizzare con il più-che-umano. Ho dedicato una parte significativa delle mie energie a pensare a forme di organizzazione o assemblaggio che potremmo sperimentare in un periodo di collasso climatico. La mia idea di santuario, ripresa dalle pratiche medievali che aprivano la via dell’esilio a chi era in fuga, privilegia la figura del mostro/gargoyle come agente di cambiamento. Iniziamo ad avvicinare il mostruoso nei luoghi in cui convidiamo un impegno che nasce dal nostro comune combussolamento, in cui iniziamo a nutrire una maggiore consapevolezza della nostra preoccupante tentacolarità (che corrode le solite categorie identitarie) e in cui speriamo di essere accolti da un mondo più grande di noi, questo è l’invito del santuario.
Ho scritto altrove che: “L’invito del santuario non è quello di riconquistare padronanza sugli elementi, di affermare il nostro dominio, di proporre il controllo, di sconfiggere i sistemi oppressivi con la critica e la resistenza, non è di diventare cittadini più giusti e più buoni, non è quello di diventare illuminati e non è quello di sperare troppo fervidamente in una qualche soluzione alla crisi climatica. C’è un non sapere che si agita nel cuore di questa impresa, che riecheggia nella lettera di Paolo ai Romani: ‘Non sappiamo per che cosa dobbiamo pregare, ma lo Spirito stesso intercede per noi con gemiti senza parole.’ Questo gemito intercessorio, inter-carnazionale del santuario è un luogo di fragile indagine, di celebrazione festosa, di studio rigoroso e di attenzione a ciò che vuole essere conosciuto”.
Che sia all’interno dell’organizzazione di un “santuario”, o nell’abbraccio ammaliante dei racconti di una nonna o nella morsa psichedelica delle piante medicinali, lo “studio” (nel senso di Fred Moten) può dimostrare che noi “umani” non siamo gli unici in grado di produrre conoscenza. In definitiva, il movimento dell’ecoversità può trovare una vocazione nell’alchimia dei metodi, nella mappatura delle strategie, nella conduzione di tour di ascolto e nella condivisione di ricchi spazi di non-sapere collettivo – come mi sembra stia già accadendo. Mettere in rete queste onto-epistemologie nomadi e queste soggettività nomadi potrebbe contribuire a generare mondi potenzialmente più saggi, economie, politiche e tecnologie più sagge. Potrebbe contribuire a sviluppare approcci, sensibilità, domande, ricette che difficilmente disponibili nelle epistemologie di ispirazione occidentale. Potrebbe aiutarci ad affinare i nostri sensi su come stiamo mutando attraverso la ricerca. Non basta essere d’accordo sul fatto che il mondo è vivo: dobbiamo mettere in pratica questa affermazione. Se non lo facciamo, rischiamo di dispiegare i soliti imperativi epistemici dello sguardo illuminista e di riprodurre le dinamiche da spettatori che ci lasciano intatti.
Una conseguenza che è una via di mezzo
Mi sono spesso chiesto cosa ne sia stato della tartaruga dopo che aveva riversato il suo tesoro sull mondo, ora che si era improvvisamente impoverita senza nulla di proprio se non una zucca vuota. Forse è scesa avvilita dall’albero; forse si è messa a camminare lentamente per i campi, spenta e come morta. Ma le conseguenze e i finali non sono mai state strategie narrative adeguate quando ragioniamo di una figura trickster come la tartaruga. L’imbroglione ha bisogno di continuare a vivere, di continuare a sventare tutti gli sforzi di stabilizzazione e i convenienti porti di approdo, di disturbare l’architettura che privilegia il narratore rispetto all’ascoltatore della storia. Chiedersi cosa succede dopo significa tornare al centro del racconto.
Con l’ecoversità, la fine è indeterminabile, l’inizio è inconsolabile. Tutto ciò che abbiamo è questo denso mentre, nel bel mezzo. Questi momenti postumani. Questi inviti allo stupore e alla meraviglia. Questi modi di conoscere che non esitano a lasciarci tremanti in estasi, dolore e confusione. Questo rientrare in un mondo che non ci siamo mai veramente lasciati alle spalle. Questo scendere a terra.
Incontriamoci lì. Nel mezzo.
Note:
(1) Il nuovo materialismo è il campo interdisciplinare che intreccia studi critici e meraviglia e riunisce gli approcci teorici per ripensare il mondo materiale come agenziale, vitale, vivo e intelligente – rifiutando l’enfasi storica sulla figura umana come unico contenitore o emittente di questi attributi.
(2) Uno straordinario team ha costruito una bambola a grandezza naturale di nome “Emma” per rappresentare come potrebbero diventare i nostri corpi se non modificheremo il modo in cui sono composti gli spazi e gli ambienti di lavoro. Emma ha le gambe gonfie, le vene varicose, la gobba, gli occhi arrossati per aver fissato troppo a lungo lo schermo del computer, è sovrappeso e soffre di un eczema causato dallo stress. https://www.sciencealert.com/this-representation-of-the-next-generation-s-office-worker-is-terrifying. Conoscere lo spazio dell’ufficio significa essere conosciuti dallo spazio dell’ufficio.
(3) Di quale “noi” stiamo parlando? Non intendo certo ripetere o perpetuare le generalizzazioni del termine Antropocene, né nascondere le eredità delle colonizzazioni estrattive, imperialistiche e colonizzatrici che costituiscono in buona in parte la storia dell’Antropocene. Ma nell’uso del termine Antropocene si può dedurre qualcosa di più della complicità e della colpevolezza. Si può intuire l’intreccio. Il termine può essere letto come se suggerisse quanto sia problematica l’idea di una nostra indipendenza, quanto sia già problematica la purezza etica e quanto siano intra-connessi sia il colonizzatore che il colonizzato.
(4) Il postumanesimo ha molti filoni e resiste a una definizione univoca. Ma il ricco campo condiviso è il ripudio del dualismo. Il rifiuto di ri-privilegiare e centralizzare gli esseri umani come fonte di agency o guida al cambiamento. La letteratura è ricca di esempi di termini come more-than-human, not-quite-human, com-post-human e di ciò che gli Yoruba chiamano “aye”. Ho scelto di usare questi termini nel mio lavoro per segnalare un mondo di differenze senza far naufragare la comprensione dell’intreccio [entanglement] in quella semplificazione colloquiale che ritiene che “tutto è connesso” e indifferenziato. Inoltre, con umiltà, scrivo in quanto creatura ibrida che ricombina le mie radici indigene Yoruba e la ricerca euro-americana. Queste posizioni teoriche sono offerte fragili e modeste che non parlano (e non possono parlare) delle particolarità di tutti i contesti.
Una nota dei redattori di Ecoversities: “Questo saggio è una trasversalità di corpi. Spero che sia diffrattivo e che non dica alle persone cosa devono fare. Spero che aiuti a sciogliere i vincoli che legano le persone che lo leggono ai quadri etici, materiali ed epistemologici della modernità”,
[estratto da una conversazione con i curatori durante il processo editoriale.]
Il saggio originale in inglese è stato pubblicato da Ecoversities vedi il link
«il primo passo verso la costruzione di un mondo alternativo dev’essere ilrifiuto dell’immagine del mondo impiantata nelle nostre menti e di tutte le false promesse usate ovunque per giustificare e idealizzare il bisogno criminale e insaziabile di vendere.»
Nel 2001 veniva pubblicato sulla rivista Lo Straniero un articolo di John Berger che mi sembra ancora straordinariamente efficace nel descrivere lo stato delle cose. E’ stato ripubblicato da Bollati Boringhieri nella raccolta Modi di Vedere (2004). Il brano era stato scritto all’epoca di ‘un nuovo mondo è possibile’ , prima del G7 di Genova, prima dell’11 settembre, prima di Trump, di Elon Musk e dei viaggi su Marte, prima della pandemia e della guerra… Ma dai sette frammenti di cui parla Berger capiamo che questi eventi hanno alle spalle una storia o un’ombra lunga – l’ideologizzazione del religioso, la battaglia per recuperare agency ma compensando la perdita di referenti simbolici che permettono di leggere e interpretare il mondo. Insieme alla critica serrata alla logica intrinseca dell’economia finanziaria e del liberismo selvaggio e alle conseguenti miopi geopolitiche che frammentano ulteriormente e violentemente il mondo. Contro il senso di impotenza e minorità che affligge buona parte del mondo, non ci si può stancare di demitizzare, come fa Berger, la favoletta dell’economia sovrana. Ora lo ripropongo.
«A volte nella storia della pittura si possono trovare strane profezie che l’autore non ha inteso come tali. Quasi come se il visibile potesse vivere i suoi propri incubi. Per esempio, nel trionfo della morte di Brueghel, dipinto negli anni immediatamente successivi ai 1560 e oggi al Museo del Prado vi è una terribile profezia dei campi di sterminio nazisti. La maggior parte delle profezie, quando sono specifiche, sono forzosamente cattive, poiché nel corso della storia vi sono sempre nuovi terrori. Persino quando qualcuno di essi si easurisce non compaiono nuove felicità – la felicità è quella di sempre. Sono le forme di lotta per raggiungerla che cambiano. Mezzo secolo prima di Brueghel, Hieronymus Bosch dipinse il suo Trittico del millennio, anch’esso al Prado. Il pannello di sinistra del trittico mostra Adamo ed Eva in Paradiso, il grande pannello centrale raffigura il Giardino dell’Eden, e il pannello di destra descrive l’Inferno. E questo inferno è diventato una strana profezia del clima mentale imposto al mondo (…) dal nuovo ordine economico.
Lasciate che provi a spiegare come. Il simbolismo impiegato nel dipinto non c’entra. Probabilmente i simboli di cui Bosch si serve provengono dal linguaggio segreto, proverbiale, eretico di certe sette millenaristiche del xv secolo, le quali ereticamente credevano che, se si fosse potuto sconfiggere il male, si sarebbe riusciti a costruire il paradiso in terra. Gli studi che parlano delle allegorie presenti nella sua opera sono innumerevoli. Tuttavia, se la visione che Bosch ha dell’inferno è profetica, la profezia non sta tanto nei dettagli … che pure sono ossessivi e grotteschi – quanto nell’insieme. O, per dirla in altro modo, in ciò che costituisce lo spazio dell’inferno.
L’orizzonte è del tutto assente. Non vi è continuità nelle azioni, non vi sono pause nei percorsi, non vi è un disegno, un passato, un futuro. Vi è solo il clamore di un presente disparato e frammentario. Le sorprese e le sensazioni sono ovunque, ma manca qualsiasi via d’uscita. Niente porta a niente: tutto si interrompe. Siamo di fronte a una specie di delirio spaziale.
Confrontate questo spazio con quello dell ‘inserto pubblicitario standard, o del notiziario tipo della CNN o di qualslasl commento alle notizie del giorno proposto dai mass media. La stessa incoerenza , la stessa giungla di emozioni sconnesse tra loro, lo stesso parossismo. La profezia di Bosch annuncia l’immagine del mondo che ci viene comunicata oggi dai media (…) Entrambi sono come un puzzle i cui molti pezzi non stanno insieme. Ed è esattamente questa la parola usata dal subcomandante Marcos in una lettera dell’anno scorso a proposito del nuovo ordine mondiale. Scriveva dal Chiapas, dal Sud-Est del Messlco. Marcos vede il pianeta di oggi come il campo di battaglia della quarta guerra mondiale. (La terza è stata la cosiddetta Guerra Fredda). Lo scopo dei belligeranti era la conquista dell’intero mondo attraverso il mercato. Gli arsenali sono finanziari; e turtavia non passa momento senza che milioni di persone vengano mutilate o uccise. II fine di chi conduce la guerra è governare il mondo da centri di potere nuovi e astratti – megalopoli del mercato, che non saranno soggetti ad altro controllo che quello della logica dell’investimento. Nel frattempo nove decimi delle donne e degli uomini del pianeta vivono con i segmenti scomposti di un puzzle che non sta insieme.
La segmentazione del pannello di Bosch è talmente simile che quasi mi aspetto di trovarvi i sette frammenti nominati da Marcos.
Il primo frammento porta il simbolo del dollaro ed è verde Consiste nella nuova concentrazione della ricchezza mondiale in mani sempre più numerose e nell’estensionme senza precedenti di disperate povertà.
Il secondo è triangolare ed è fatto di di una bugia. Il nuovo ordine afferma di razionalizzare e modernizzare la produzione e la fatica degli esseri umani . In realtà si tratta di un ritorno alla barbarie degli inizi della rivoluzione industriale, con l’importante differenza che oggi tale barbarie sfugge a qualsiasi opposizione o principio etico. Il nuovo ordine è fanatico e totalitario. (All’interno del suo stesso sistema non vi sono appelli. Il suo totalitarismo non riguarda i politici – che, in base a un suo preciso calcolo, sono stati soppiantati – rna il controllo monelario globale). I bambini, per esempio. Nel mondo ci sono cento milioni di bambini che vivono nelle strade e duecento milioni che fanno parte della forza lavoro globale.
II terzo frammento è rotondo come un circolo vizioso. Consiste nell’emigrazione forzata. I più intraprendenti tra coloro che non possiedono nulla tentano di migrare per sopravvivere. Eppure il nuovo ordine opera notte e giorno sulla base del principio che chiunque non produce, non consuma e non ha denaro da mettere in banca, è ridondante. Dunque i migranti, i senza terra, i senza tetto sono trattati come rifiuti del sistema: vanno eliminati.
Il quarto frammento è rettangolare come uno specchio. Consiste nella scambio ininterrotto tra banche commerciali e racket mondiali, perche anche il crimine va globalizzato.
Il quinto frammento è grossomodo un pentagono. Consiste nella repressione fisica. Sotto il nuovo ordine gli Stati nazionali hanno perso la loro indipendenza economica, la loro iniziativa politica e la loro sovranità (La nuova retorica di molti politici è il tentativo di mascherare la propria impotenza politica) (…) Il nuovo compito degli Stati è gestire ciò che viene loro assegnato, proteggere gli interessi delle mega-imprese di mercato e, soprattutto, controllare e sorvegliare il ridondante.
Il sesto frammento ha forma di scarabocchio ed è fatto di rotture. Da un lato il nuovo ordine abolisce frontiere e distanze attraverso la telecomunicazione istantanea di scambi e transazioni, zone di libero commercio obbligate (NAFTA), e l’imposizione ovunque dell’unica e indiscutibile legge del mercato; e dall’altro provoca la frammentazione e la proliferazione delle frontiere minando gli Stati – per esempio, l’ex Unione Sovietica, la Iugoslavia ecc. «Un mondo di specchi rotti – ha scritto Marcos – che riflettono la vana unità del puzzle neoliberista».
Il settimo frammento ha forma di sacca, ed è fatto delle tante sacche di resistenza al nuovo ordine che si stanno sviluppando in tutto il globo. Gli zapatisti nel Sud·Est del Messico sono una di queste sacche. Altri, in circostanze differenti, non hanno scelto necessariamente la resistenza armata. Le tante sacche non hanno un programma politico comune in quanto tale. Come potrebbero, dal momento che esistono all’interno di un puzzle spezzato? Eppure la loro eterogeneità può essere una prornessa. Ciò che le accomuna è che difendono il ridondante, ciò che sta per essere eliminato, e la loro convinzione che la quarta guerra mondiale è un crimine contro l’ umanità.
I sette frammenti non riusciranno mai a ricomporsi in modo da avere un senso. Questa mancanza di senso, questa assurdità è caratteristica del nuovo ordine. Come Bosch previde nella sua visione dell’inferno, non c’e orizzonte. II mondo sta bruciando. Ogni figura cerca di sopravvivere concentrandosi sul proprio bisogno immediato, sulla propria personale sopravvivenza. La claustrofobia, che qui raggiunge il suo grado estremo, non è provocata dall’affollamento eccessivo, ma dal vuoto di continuità tra un’azione e l’altra, che pure le è così vicina da toccarla. L’inferno è questo.
La cultura in cui viviamo è forse la più claustrofobica che sia mai esistita; (…) come nell’inferno dl Bosch, non si vede neppure di sfuggita un altrove a un altrimenti. Cio che è dato è una prigione. E, di fronte a un tale riduzionismo, l’intelligenza umana si riduce all’avidità. Marcos concludeva 1a sua lettera dicendo: «E’ necessario costruire un mondo nuovo, un mondo capace di contenere molti mondi, capace di contenere tutti i mondi ».
Il dipinto di Bosch ci ricorda – se le profezie possono essere definite un promemoria – che il primo passo verso la costruzione di un mondo alternativo dev’essere il rifiuto dell’immagine del mondo impiantata nelle nostre menti e di tutte Ie false promesse usate ovunque per giustificare e idealizzare il bisogno criminale e insaziabile di vendere. Abbiamo un bisogno vitale di uno spazio diverso. Innanzi tutto dobbiamo scoprire un orizzonte. E per farlo dobbiamo ritrovare la speranza – malgrado tutto ciò che il nuovo ordine pretende e perpetra. La speranza, però, è un atto di fede e va sostenuta con atti concreti. Per esempio, l’atto di avvicinare, di misurare le distanze e di camminare verso. Ciò porterà a collaborazioni che negano la discontinuità. l’atto di resistenza significa non soltanto rifiutare di accettare l’assurdità dell’immagine del mondo che ci è offerta, ma denunciarla. E quando l’inferno viene denunciato dall’interno, smette di essere inferno.
Nelle sacche di resistenza oggi esistenti, gli altri due pannelli del trittico di Bosch, dove compaiono Adamo ed Eva e il Giardino dell’Eden, possono essere studiati a lume di candela nell’oscurità… abbiamo bisogno di loro.
Mi piace citare ancora una volta il poeta argentino Juan Gelman:
La morte stessa è giunta con la sua documentazione
Sud di Gisella Modica, pubblicato nel Lessico della Crisi e del Possibile (SEB27, 2019)
Puglia 1955
Sud: terra del numinoso, del meraviglioso, del sogno, disseminato di Madonne nere, colore della rigenerazione e dell’invisibile; di Sibille che richiamano la cultura sommersa della fiaba; di Sante, porte di accesso casalingo al soprannaturale, figure liminali, metà prefiche metà guaritrici, che assumono su di sé il dolore e facendo spazio all’altro creano possibilità di vita nuova.
Sud: terra del sacro come compresenza dei vivi e dei morti; dilatante esperienza conoscitiva oltre il confine della coscienza originata dal bisogno di sconfinare della mente; dall’intima consapevolezza che c’è qualcosa di essenziale per la propria esistenza che resta nell’ambito del non dicibile e del non visibile.
Sud: soglia tra centro e periferia, isola e continente. Punto “d’intersezione di derive opposte che si mescolano da cui gettare uno sguardo singolare che sottraendosi alla logica della globalizzata omologazione del fare e del pensare, è capace di cogliere punti di contatto tra due estremi”. “Posizione terza dove posso invitare l’altro ad entrare, ma anche l’altro può invitare me a venire fuori”.
Sud: “pozzo mare” della propria infanzia. Luogo dell’immaginario che ha sede nell’anima o nel sogno. Polo sud del pensiero a cui si approda attraverso i sentieri dell’emozione e dell’esperienza facendo largo fra stereotipi e rimozioni.
Sud: Condizione permanente di precarietà. “Senza una casa dove stare”. “Luogo dell’assenza e di non ritorno, o del ritorno ogni volta da reinventare” da cui si va e si torna sostituendo al cerchio un moto a spirale. Fare su e giù. Fare e disfare per non perdere di vista il punto d’origine, geografico e simbolico, senza rimanerne intrappolate.
Sud: “Terra di forte impatto emotivo dove il grigio paludoso delle discariche e l’azzurro del mare si fondono e coabitano con uguale forza aprendo ad un immaginario caratterizzato dal contrasto e dall’ambivalenza. Fa sud sentire forte il contrasto tra la bellezza e l’orrore di una terra violentata, e di violenza così compatta da non fare passare niente. Tra l’amore e lo strazio per il suo degrado che sembra trascinare con sé affetti e cose care, causa di dolore. Vivere il dolore, stare sulla ferita può insegnare a relazionarsi all’altro. Un approccio che attiva una forma di conoscenza empatica. Un sentire-vedere. Un’arma per incidere sul potere camorristico e mafioso, sulla legge del più forte.
Il sud dentro di sé fa ruggine, come un meccanismo che s’inceppa costringendo a tornare sempre sullo stesso punto, a ripartire daccapo, dalla contraddizione, a fare continuamente i conti con se stesse.
A sud l’atto di separazione dal luogo, dall’oggetto d’amore, da sé è necessario, come l’atto del respirare, costringendo a vie di fuga. Alcune le trovano nella scrittura, altre nell’emigrare.
Il sud è “resto” è “rovina” è “rimosso”, e il tipo di immaginario che trascina con sè è legato alla cultura del resto, del rimosso. Imparare dai resti – figure non chiuse, tracce, frammenti, scarti materiali e umani (rifiuti urbani, immigrati, clandestini, precari) – ti invita a lavorare su quello che manca, sulla perdita, sul non finito, sull’ immondo. Insegna a fare attenzione ai dettagli; ai margini; a ciò che muta continuamente e velocemente sotto i nostri occhi: indefinito, irregolare, contingente, asincrono.
Ripartire dai resti insegna a fare dello spaesamento un punto di avvistamento, di ricollocamento in una seconda vita.Insegna a fare della cicatrice, una porta.
Nota: Le considerazioni sono frutto del convegno della Società Italiana delle Letterate “Terra e Parole: donne riscrivono paesaggi violati” svolto a L’Aquila nel 2013 e del seminario itinerante “Ripartire da sud” organizzato da Nadia Nappo e da me a Napoli e a Rende nel 2015.
Bello il convegno del 26 febbraio al Giardino dei Ciliegi dove Clotilde Barbarulli ci ha invitato a ricordare Liana Borghi. A cui era carissima la pratica della “diffrazione” , come campo indeterminato di creazione continua del possibile. Di fronte alle catastrofi del pensare e dell’agire che includono il colonialismo discorsivo ed epistemologico gli interventi hanno evocato le eredità generative di Liana e delle suo sentir-pensare, dalle prospettive “post-queer” su cui rifletteva Marco Pustianaz alla constatazione che nelle sue relazioni poetico-politiche Liana coglieva l’emergere di un “entusiasmo che precede” come ci ha ricordato Gaia Giuliani, cosa che porta diffrazione alle “utopie” mettendo in gioco un tempo profondo e dislocato (“deep time”), un futuro passato che si intreccia con le cose a-venire, riattivando capacità esiliate o menti parallele. Una visionarietà sospettosa di ogni ideologizzazione e di cui oggi c’è più che mai bisogno. Nel ricordare Liana e la passione con cui ha accompagnato anche noi in Clinica della Crisi pubblichiamo di seguito l’intervento che Maria Nadotti ha presentato al convegno.
Disseminare
Maria Nadotti
26 febbraio 2022
Potrebbe essere un’epoca straordinariamente interessante questa nostra.
Tutto è in mutazione: il lavoro, la didattica, il rapporto stato/cittadin*, lo statuto dei corpi, il nesso salute/mercato, la strumentazione tecnologica, le forme della comunicazione, i linguaggi, le forme associative e la rappresentanza politica, il concetto stesso di vita e le categorie di valore cui essa tradizionalmente si accompagna (libertà, dignità, bene comune), la relazione tra ‘vivente’ e ‘non-vivente’, la percezione dell’altro da sé, persona/albero/animale/virus/lembo di terra che sia.
Tutto ciò, naturalmente, è in mutazione da tempo. L’elemento di novità è l’accelerazione con cui il cambiamento si sta, grossomodo dagli anni Novanta del secolo scorso, manifestando. Si rischia – alla lettera dall’oggi al domani – di rimanere indietro, di perdere un pezzo, di disorientarsi, di non capirci più niente e, dunque, di delirare, allucinare, scambiare panche per tavoli. Oppure – ed è quello che più umanamente siamo tentati di fare – di rinchiuderci nel nostro particolare, di difenderlo con le unghie e con i denti, di mimetizzarci come fanno i lombrichi quando si acciambellano sotto il terreno, aspettando che passi.
Il fatto davvero inedito di questa nostra epoca è che, forse, quel che oggi è in corso non passerà, perlomeno non in tempi commisurati al nostro modesto tempo di vita. E questo, inevitabilmente, ci costringe a pensare ripensandoci, a guardare/ascoltare con maggiore attenzione l’habitat in cui siamo immersi e a riflettere in modo attivo sull’habitus cui in modo più o meno distratto, inerziale, difensivo o inconsapevole facciamo riferimento. Che margini di scelta abbiamo, per esempio? Quali sono le decisioni che possiamo prendere e quali ci sono interdette? Qual è il nostro bene e quale il nostro male? Di chi possiamo fidarci? A chi dobbiamo affidarci? È ancora possibile, verosimilmente, lottare? E, se sì, per cosa, insieme a chi e contro chi? Che scarto c’è, oggi, tra vita e sopravvivenza? È possibile pensare l’una scissa dall’altra o, in altri termini, separare la sopravvivenza del corpo dalla morte dell’anima, dello spirito, della coscienza cui è stata impedita la vita? Cos’è che tiene in vita una vita e la rende degna di essere vissuta?
In ogni caso, là dove la confusione regna sovrana, dove l’ipotesi vale fino alla sua prossima e prevista smentita, che si obbedisca o si disobbedisca, che si rispetti la legge o ad essa si trasgredisca, fa un’unica differenza: l’obbedienza alimenta il caos, la disobbedienza lo interroga.
Le foglie, quando d’autunno cadono, agiscono liberamente o è il loro destino di foglie a produrre, a tempo debito, il loro distacco dal ramo? Oppure è il vento che spira da Nord a spezzare il filo che le lega all’albero e a condurle a una nuova vita? Può una foglia disobbedire?
La lingua tedesca ha due termini per indicare il corpo. Körper e Leib: il primo è il corpo che occupa uno spazio ed è un oggetto tra gli altri, il secondo è il corpo proprio, umano e mio, come correlato dell’anima, della coscienza, di un soggetto che sente e percepisce. Oscillare tra la libera scelta e la suggestione altrui non è forse esattamente l’esito di questa dualità intrinseca al corpo, corpo/materia, corpo/cosa di contro al corpo/coscienza, corpo/intelletto. Possono, le due cose, essere scisse senza produrre il disastro?
Ed eccomi a Liana, un’amica molto cara e una delle intelligenze più lucide e inascoltate di questa nostra Italia che si sta inabissando nel non-pensiero e in una sorta di opacità emotiva e affettiva. Liana, di sé, diceva che sentiva/pensando, che la sua testa e il suo cuore lavoravano all’unisono. Chi l’ha conosciuta e ha studiato, esplorato, costruito, organizzato, chiacchierato, mangiato, viaggiato, riso insieme a lei sa che per lei non c’era soluzione di continuità tra il pensiero e il corpo con i suoi piaceri, le sue furie, i suoi dolori, le sue paure, le sue vulnerabilità.
È da lì che nasce quell’impasto formidabile di idee e di sentimenti che rendono il femminismo di Liana così peculiare nel panorama dei femminismi italiani, così mosso, così recisamente nemico degli approdi ideologici, così in divenire, così aperto e pronto ad accogliere, così critico e autocritico.
Fino all’ultimo, davvero fino alla settimana prima di staccarsi fisicamente da noi, Liana ha voluto indagare con alcune/i di noi quella che le sembrava una delle proposte politiche e teoriche più interessanti nel panorama mondiale, quella che ci è arrivata da Bayo Akomolafe, interprete amoroso delle analisi femministe neomaterialiste e de-generi di Karen Barad.
Mentre i femminismi italiani continuano, se pur variamente, a parlare di identità di genere, della loro moltiplicazione come fenomeno emancipatorio, atto trasgressivo di indisciplina rispetto a un canone duro, o potenziale e nefasta cancellazione del ‘femminile’, Liana proponeva la via accidentata della disidentificazione, dello sganciamento progressivo dal bisogno di definirsi, di stare dentro o fuori da un riconoscibile e roccioso ‘io sono questo’.
La sua instancabile ricerca non del nuovo, ma dell’a venire e dei segni che già lo annunciano, scompigliando e problematizzando le quiete acque dell’attivismo femminista contemporaneo, prendeva forma in un vero e proprio metodo di lavoro:
Liana faceva e si faceva domande, e poi si metteva in ascolto, alla lettera ascoltava le risposte e tentava di darsene, creando un vortice collettivo di voci e raccogliendo l’ansia, lo smarrimento, la paura che ad esse si accompagnavano e mitigandoli proprio attraverso quell’amorevole lavoro di tessitura che ha caratterizzato la sua pratica femminista. Accogliere, tenere e mettere insieme.
Si situa qui la sua formidabile opera di ‘importazione’, ‘traduzione’ e ‘disseminazione’ di pensieri, scritti, pratiche provenienti da geografie, culture, lingue lontane da noi. Non per convincere o sedurre, ma per discutere e differenziare. Esplicitare la diversità per tenere davvero insieme, esplorando la potenziale ricchezza insita nel difforme e cercando quegli elementi che creano amicizia politica e comunanza anche là dove le idee sembrano divergere.
Un femminismo affettivo quello di Liana, capace – soprattutto in questi ultimi anni – di assumere la dissodisfazione, l’harawayano ‘staying in truble’, la nostra comune e inevitabile mortalità come miccia al pensiero e all’azione, come antidoto tanto alla rassegnata meditazione quanto al generoso ma cieco attivismo.
Segnalo in particolare la fermezza con cui Liana ha messo a tema la necessità di interrogarsi sulle parole, le silenziosità, le disfunzionalità, il senso di disagio che segnano noi e i nostri corpi. Come chiamare, per esempio, il corpo, oggi, qui, tra pandemia, guerre, metaverso e deliri di onnipotenza? Come rientra il ‘femminile’ o il ‘maschile’ in questa desolata terra di nessuno, che fa del corpo (di chi? di quant*?) l’assoluto a perdere e l’assoluto a conservare? Come cercare modi alternativi di capire le cose e come condividere tra di noi forme che ci sembrano funzionare? Come allineare il corpo con il mondo attuale? Come dare voce alla nostra rabbia senza esserne soffocate? Come riconoscere l’inadeguatezza dell’attivismo tradizionale senza precipitare nella passività, nella depressione, nella rassegnazione o nel cinismo? Come fare attivamente comunità in un mondo che sta costruendo la distanza e la separazione come nuova sfera pubblica?
Concludo con un pensiero ‘fantascientifico’ di Liana: se il mondo viene ‘fatto’ nominandolo, urge inventare parole/concetto inedite, spiazzanti, eversive, che non si limitino a rispondere alle parole dell’altro nella lingua dell’altro. Proviamo ad abbandonare il già noto e quel sottile, rassicurante velo di nostalgia che lo accompagna. Proviamo a muoverci al buio, mettendo al lavoro altri sensi e altri sentimenti. Per esempio, oggi, non la solita retorica femminista da cane di Pavlov contro la guerra in Ucraina (con i suoi slogan aberranti, tipo “Fuori la guerra dall’Europa”), ma la dura interrogazione su dove sia la pace oggi nel mondo e su come possa esprimersi, nei fatti e nelle parole, il pacifismo dei femminismi contemporanei.