Il futuro inizia dal passato

Riproponiamo qui per Clinica della crisi una buona parte della lectio magistralis di Georges Didi-Huberman letta al Festival Mimesis (dovreste ancora trovare l’intervento completo in streaming qui https://www.youtube.com/watch?v=zy6PpIN3Bb4 – dal minuto 17:57) in occasione del Premio Udine Filosofia.

Il tema del passaggio di una soglia tra impossibile e possibile e della trasformazione radicale che questo implica nell’osare una prospettiva (e non una mera opinione!) ci sembrano anche al cuore di ciò che ha ispirato il nostro lessico della Crisi e del Possibile. Buona lettura e sopratutto ascoltate Didi-Huberman

“Il passato non è mai interamente passato. È ancora con noi, dispone sempre di una piccola porta che si apre sul presente, sull’avvenire o ancora sulla redenzione”, si legge nella conferenza del 1946 di Gershom Scholem su Memoria e utopia. Inoltre, in La Cabala e il suo simbolismo, si trova questo richiamo esegetico in cui si parla, finalmente, di Kafka: “Origene racconta, nel suo commentario ai Salmi, che un dotto ‘ebraico’, certamente un membro dell’accademia rabbinica di Cesarea, gli ha detto che le Sacre Scritture assomigliano a una grande casa con molte, molte stanze; di fronte a ogni stanza si trova una chiave, ma non è quella giusta. Le chiavi di tutte le stanze sono state scambiate e bisogna (compito importante e, al contempo, difficile) trovare le chiavi giuste, in grado di aprire le stanze. Quest’analogia, che la situazione kafkiana trae dalla tradizione talmudica in pieno sviluppo, senza che essa perda in alcun modo il suo valore, ci mostra quanto il mondo kafkiano appartenga profondamente alla genealogia della mistica ebraica”.

Le porte, in Kafka, si rivelano definitivamente inscindibili da una spazialità che si potrebbe definire “condizionale”, nel senso equivoco, anzi minaccioso del termine, ma anche nel senso in cui Benjamin notava l’importanza delle frasi o “proposizioni condizionali” (Konditionalsätze) nell’autore del Processo. Non a caso, gli esempi che egli dava allora erano tutti di tipo spaziale: “i soffitti bassi, […] i gradini di una scala che conduce sempre più in basso […], le soffitte” e, in generale, tutti gli spazi concepiti per delle cose segrete o “scartate”.  Benjamin notava infine, in una serie di riflessioni sulle nozioni – temporali e giuridiche, se non teologiche – di “sospensione” o di “rinvio”, che i ritratti dei giudici nello spazio del Processo funzionano, a loro modo, come degli apparati di potere, di giudizio, se non di sentenza: “Significato dei ritratti dei giudici. Appesi alla parte superiore del telaio della porta, come la lama tra i montanti di una ghigliottina.”

Basterebbe dunque, in un siffatto “mondo di immagini”, ritrovarsi di fronte a una porta affinché – al pari di Atlante, del “giusto nascosto” o del “piccolo gobbo” della canzone popolare a cui Benjamin era tanto affezionato – “tutto pesi sulle spalle”. E affinché, di contro, lo spirito di emancipazione si traduca semplicemente con la formula che conclude il saggio del 1934 su Kafka: “L’essenziale è che le spalle siano liberate dal loro carico (wenn nur die Last vom Rücken genommen ist)”. Oltrepassare la soglia significherebbe liberarsi da un peso – al contempo psichico, di una colpa, di un dolore – che il non oltrepassare fa subire alla nostra intera esistenza.

Molto è stato detto sul gesto aporetico – come irrigidito nella sua contraddizione – dell’Angelus Novus che gira ostinatamente il volto verso il passato, benché la tempesta del progresso lo spinga irresistibilmente verso l’avvenire… Ma Benjamin ha suggerito, un po’ più avanti, che un altro gesto – umano e non più angelico – era possibile: un gesto desiderativo e non eternamente teso tra il passato e l’avvenire.

Questo gesto desiderativo instaura il movimento durante cui una porta sarà attraversata. Da qui l’ultima precisazione di Benjamin: “L’avvenire [non era] agli occhi degli Ebrei un tempo omogeneo e vuoto, poiché, in esso, ogni momento era la porta stretta (die kleine Pforte) attraverso cui il Messia poteva entrare”. Come si legge in certi testi cabalistici e in certe storie chassidiche, non siamo noi che aspettiamo il Messia: è piuttosto lui che ci aspetta. Cosa si aspetta da noi? Il nostro gesto decisivo, la nostra “presenza di spirito”. La nostra capacità di aprire una porta e di varcare una soglia. È proprio in quel momento che egli “entra” nelle nostre vite, nel nostro tempo. Bisogna, indubbiamente, leggere queste ultime frasi di Benjamin come Benjamin stesso avrebbe letto le parabole di Kafka: non come una religione o come un’affermazione di fede, ma come un problema sollevato, sollevante: un “racconto per dialettici”. Non è forse questo toccare con mano l’essenziale tenore profetico di questo modo di pensare, presente in Benjamin o in Kafka?

Che “l’energia rivoluzionaria e la debolezza” possano formare “le due facce di un solo e medesimo stato”, come Benjamin dice di Kafka, si appellerebbe nientemeno che a una nuova comprensione della politica stessa. Vi è nella politica qualcosa che si trova al di qua dei rapporti di forza oggettivi, storici, come i conflitti tra poteri o egemonie: alla base, più sotterraneo, meno dispiegato ma comunque fondamentale. È una sorta di gioco di forze soggettive o psichiche: un rapporto, spesso drammatico, tra potenze come il desiderio e la paura, e al centro di cui opera costantemente la nostra facoltà immaginativa. In una prospettiva come quella di Kafka, non è sufficiente la liberazione dai poteri esterni, il non essere più costretti, per non sentirsi più oppressi: “[…] tu sei libero ed è per questo che sei perduto”. È qui che al materialismo storico manca il contro-motivo di un’etica e di un’antropologia.

L’errore politico del povero diavolo di fronte alla “porta della legge”, nella parabola kafkiana, è il fatto che egli pensa che tutto ciò che aspetta – o che lo aspetta – sia stato, in qualche modo, previsto. Sebbene sia ignorante, egli è ancora troppo teologo, se così si può dire. Non ha rischiato l’imprevisto, il passaggio intempestivo: ciò che Paolo Virno ha definito, leggendo i profeti, una “politica dell’esodo”. Non ha fatto il passo verso quell’avvenuto [survenu] che comportava anche, sulla scia del desiderio, il ricordo [souvenu] del gesto di ricominciare, là dove poiesis e praxis potrebbero ricongiungersi, così come propone Virno – contro Agamben – nel suo testo su L’uso della vita.

Immaginare di ricominciare? Si tratterebbe allora di praticare un’apertura nel tempo o di rischiare di varcare la soglia di una porta, per quanto stretta. È giunta l’ora delle catastrofi, dicono ovunque. Ma Donald Winnicott, nelle sue riflessioni su La paura del crollo, ha mostrato proprio che questa paura era quella di una catastrofe già avvenuta – ma non “sperimentata”, come egli dice. Ciò che è tanto temuto o rimosso in una tale paura ha già avuto luogo e, infatti, si ritrova ad essere cercato secondo un’anamnesi della paura. A proposito della speranza, bisognerebbe allora invertire lo schema di Winnicott e sostituire, alla “paura del crollo”, un modo di sperimentare il passato tale che, per il futuro, possa verificarsi il crollo della paura. È il compito del filosofo, dello storico o dell’antropologo riportare alla luce – dandolo a immaginare – questo modo di sperimentare un passato in maniera che doni al presente, in vista di un avvenire, il desiderio di fare il passo, di ricominciare. È giunto dunque il momento di non temere più le porte e di passare nonostante tutto.

“Siamo il mondo tutti contemporaneamente”

Condividiamo in clinica della crisi la traduzione di un luminoso intervento di Virginie  Despentes al seminario del Centre Pompidou animato da Paul B. Preciado che per 5 giorni ha lavorato sul diritto al respiro dei viventi, in una inedita prospettiva di alleanze, e di trans-intersezione per una ‘cospirazione dei perdenti’, delle minoranze discriminate, razzializzate, confinate, scoperchiando la retorica necropolitica del ‘cambiare non si può’ e dei dualismi escludenti. Delineando le forme di una costellazione patriarcale e coloniale che include le derive tecno-politiche del presente ma anche la forza delle contaminazioni generate da “corpi rivoluzionari”.
In attesa di una versione ufficiale  la traduzione (ufficiosa, corsara e provvisoria) di Fabrice Dubosc e Letizia Buoso si basa sulle note prese e sull’audio registrato su Soundcloud. Ci scusiamo per eventuali errori (segnalateli!). Abbiamo semplicemente sentito l’urgenza di rendervi partecipi di un evento di straordinaria tensione immaginativa e trasformativa.

disegno di Kara Walker

L’invito è di leggere la traduzione seguendo il file audio a questo link:


«[Quando mi è stato chiesto di partecipare e ho] chiesto a Paul B. Preciado di che cosa si trattasse, mi ha risposto: “creazione di un corpo rivoluzionario”.

Dunque ecco. Ho scritto un testo su questo tema. Non ho mai letto un mio testo. Non so come andrà. Ma in ogni caso, è emozionante essere qui con voi l’ultima sera prima del coprifuoco, dunque sono contenta, di essere qui con voi.

Ho l’impressione di vivere con diecimila sbirri nella testa, i veri sbirri, gli sbirri degli altri, degli avversari, dei miei amici. [la registrazione inizia qui: ] Sono diventata un campo penitenziario tutto mio, tutta sola, con frontiere ovunque: tra ciò che è bene e ciò che è male, tra ciò che mi piace e ciò che non mi piace, tra ciò che mi serve e ciò che mi nuoce, tra ciò che è benefico e ciò che è morboso, tra ciò che è permesso e ciò che è proibito… tutte le propagande mi attraversano e parlano attraverso di me.

Non sono impermeabile a nulla e sono stufa di sorvegliare ciò che dico senza nemmeno avere il tempo di rendermene conto. Non ho bisogno che la polizia mi metta in gabbia, mi metto in gabbia da sola. Non ho bisogno di un coprifuoco per chiudermi in me stessa, non ho bisogno dell’esercito sotto le mie finestre per sorvegliare ciò che penso, perché ho interiorizzato talmente tanta merda che queste cose non servono proprio a niente. Striscio sotto fili spinati perfettamente inutili ma che ho mandato giù e non ne posso più di pretendere di avere la forza di individuarli e di polverizzarli, mentre mi lacerano a ogni passo. Nulla mi separa dalla merda che mi circonda.

Consumo talmente tanta energia nell’asfissiarmi a dire che si tratta di una scelta morale. Passo il tempo a infiltrarmi in radar di controllo e ad aspettarmi di prender botte ogni volta che apro bocca, mentre le vere botte me le infliggo io stessa perché gli sbirri più efficaci sono ormai quelli che mi sono entrati in testa e arrivo a sorvegliare ogni mia minima intenzione. Come se qualsiasi mio atteggiamento possa far sì che io meriti di essere dichiarata innocente, che io meriti il primo premio in purezza, che io meriti di essere riconosciuta come il migliore, come se esistesse una frontiera che ci separa gli uni dagli altri. L’illusione che ognuno sia il suo stand, ognuno la sua biografia, ognuno la sua ricompensa in funzione del suo comportamento, ognuno il suo pezzo di marciapiede per battere o chiedere l’elemosina, ognuno il suo piccolo numero gloriosetto, mentre è lo stesso marciapiede per tutti. Ma ognuno ha i suoi limiti e ognuno ha il suo prestigio, ognuno ha la sua cattedra universitaria, ognuno ha il suo pubblico, tutti con un proprio universo, bullshit, ce n’è uno solo di universo, lo stesso per tutti, e riuscire a cavare un ragno dal buco non è mai una questione di forza e ancor meno di merito, solo di posizionamento e  fortuna. E nulla mi separa dalla merda che mi circonda.

La frontiera del mio corpo non è la punta delle mie dita, né la punta dei miei capelli. La frontiera della mia coscienza non è la forza delle mie convinzioni: è l’aria viziata che respiro e l’aria viziosa che rifiuto, il circuito in cui mi inscrivo è molto più ampio di quello che definisce la mia pelle, l’epidermide non è la mia frontiera. Tu non sei protetto da me, io non sono protetto da te. La tua realtà mi attraversa anche se non ci guardiamo, anche se non scopiamo, anche se non vivo sotto il tuo tetto. Siamo in contatto permanente. Il processo che la pandemia rende visibile sotto forma di contagio è di prenderne atto ora sotto forma di guarigione. Ogni volta che hai il coraggio di fare ciò che ti va di fare, la tua libertà mi contamina. Ogni volta che io ho il coraggio di dire ciò che ho da dire la mia libertà ti contamina.Abbiamo mandato giù questa storia delle frontiere, questa favola di ognuno per sé, ognuno a casa sua, questa favola che vuole che le cose come le conosciamo siano la sola realtà possibile e che essa sia immutabile, la favola secondo cui la razza umana non avrebbe che un solo destino collettivo possibile: lo sfruttamento implacabile degli uni da parte di una élite, il potere esercitato dalla forza cieca e la disgrazia per tutti.

Tutte le propagande mi attraversano e mi abitano e mi gestiscono. Non sono un territorio di purezza né di radicalismo e non sono dal buon lato della barricata, nulla mi separa dalla merda che mi circonda, nulla salvo il desiderio di credere che questo mondo è una materia molle: ciò che è vero oggi può esser scomparso domani e non ne posso più di credere in frontiere che non servono a nulla, di aderirvi come se fossero già state tracciate da una mano divina che non si sbaglia mai, quando sono state scarabocchiate a caso da deficienti, e non ne posso più di credere in cose che non mi servono a nulla. È la rabbia di aver ragione che ci stende,  la rabbia di tracciare frontiere tra il dominio del bene e il dominio di una qualunque cosa a cavolo. La rabbia di essere dal lato giusto, come se esistesse qualcosa in questo casino come una posizione giusta, una posizione pura, una posizione ideale, una posizione definitiva da cui non ci si dovrebbe più spostare, ma così utilizziamo le armi del nemico, le armi di coloro che non ci vogliono alcun bene perché ai loro occhi costituiamo una minaccia, gli strumenti dell’esclusione e della squalifica e dell’umiliazione e del silenziamento e dell’invisibilizzazione, e in fin dei conti è come voler fare la rivoluzione ma solo per popolare diversamente le prigioni, per dare altri ordini agli stessi poliziotti, dare altre consegne agli stessi giudici, è come cambiare i giocatori ma non cambiare né terreno né regole del gioco. Allora questa rivoluzione si trasforma in un succedersi di gruppi dirigenti, con la medesima stupidità ma con altri che ne traggono profitto, e non dico che questo non serva a niente: questo movimento ha qualcosa di giusto tranne che non c’è nessun sogno lì dentro. Nessuno. In una rivoluzione nella quale non si mettono né sogni né gioia, non restano che la distruzione, la disciplina e la giustizia. E se diciamo rivoluzione, bisognerà dire dolcezza: vale a dire iniziare ad accettare di essere dal lato di una strategia non produttiva, non efficace, non spettacolare e che solo il fervore permette di accendere. Solo la convinzione che non abbiamo bisogno né di aver ragione né di dar torto, per dare un corpo collettivo a qualcosa di diverso da ciò che già esiste e allora la cosa che conterebbe di più non sarebbe più di accumulare il massimo di like per il giorno del giudizio, ma di cominciare a sentire che siamo in una posizione di forza. Perché già facciamo l’esperienza di una vita diversa nei nostri corpi diversi, di cui non ci vergogniamo più. Modifichiamo le nostre vite, modifichiamo i discorsi, modifichiamo lo spazio della nostra stessa presenza ed è la gioia che ne caviamo che fa di noi dei corpi collettivi rivoluzionari, ecco perché molti di noi qui hanno già fatto l’esperienza dell’esclusione confinata e assassina da parte di coloro che non ci sopportano semplicemente per quello che siamo, perché sono convinti – sempre – che la dolcezza debba essere riservata al focolare domestico, con la propria donna, il proprio cane e mai nello spazio pubblico e mai nel mondo nel quale viviamo noi. Dobbiamo capire che, se costoro sono ebbri di rabbia, è perché abbiamo cominciato a vincere. E vorrebbero poter pedalare all’indietro con tutte le loro forze per tornare al tempo in cui potevano dire “nasconditi e taci, la tua parola non è politica, nasconditi e taci” ma sanno che, una volta uscite fuori, le nostre libertà contaminano e che abbiamo già cominciato a cambiare il mondo.

Quelli che pensano che dovrebbero farci tacere pensano “prigione, sottomissione forzata a una realtà unica”, pensano “diritto divino, polizia, bagno di sangue, rapimento, interrogatorio, tortura, censura, sorveglianza, prigione”, sognano un papà assoluto, un adulto che saprebbe tutto su tutto e li proteggerebbe da loro stessi, sognano “obbedienza, sottomissione, disciplina”, hanno questo vantaggio di sognare un mondo che già esiste, che ha ragione – ovunque – e noi abbiamo il vantaggio di non credere che sia immutabile. Ciò che è irrimediabile è la morte di tutto ciò che conosciamo come realtà, ciò che è irrimediabile è il cambiamento, ciò che è irrimediabile è la rapidità con cui la realtà si reinventa contro la pesantezza delle nostre coscienze, in rapporto alla plasticità del reale.

La loro narrazione non è solida: ecco ciò che il covid ci insegna. Si difendono come diavoli e prendono tutte le decisioni più stupide, si sfregano le mani e pensano “approfitteremo della situazione per volgere tutto questo a nostro vantaggio”. La loro narrazione non è solida: si raccontano delle storie, quest’ultimo tour de force è un ultimo giro di giostra. La loro realtà finisce in polvere. Sono baracconi innamorati di sé stessi, imbecilli convinti della loro importanza. Si sgolano, ma se gridano tutti in coro non significa che dicano il vero. La loro strategia del rumore dà l’impressione di essere tanto efficace, ma se gridano tanto forte e sembrano soffrire così sinceramente è perché sentono di avere il fiato corto e, per dirla in parole povere, questa autorità dall’alto dei potenti se la possono ficcare nel culo. Hanno più o meno la mia età e sanno che presto moriranno e in un modo o nell’altro dà loro un certo piacere immaginare che dopo di loro non resterà nulla. Nel frattempo i potenti lasciano ai loro figli le redini del potere e il loro solo potere è la forza della distruzione: la sventagliata di pallottole è reale, l’impatto della bomba è reale, l’efficacia delle armi è reale. Chiunque sia l’imbecille che se ne serva, è lui che scriverà la storia: ma anche se hanno le armi e il comando degli eserciti, e gli sbirri per proteggersi, avranno sempre bisogno di corpi gratuiti per le loro guerre e per mettere in atto la loro repressione. E nulla ci dice che domani questi soldati e questi sbirri non cambino idea, nulla ci dice che domani questi soldati e questi sbirri non decidano di cambiare programma e di non sparare più sugli uomini e sulle donne e sui bambini. Nulla ci dice che gli uomini non diranno: «lo stupro non me lo fa rizzare, violentare le donne e i bambini davanti ai genitori sgozzati non me lo fa rizzare, non ho più voglia di appartenere a questa storia di merda col pretesto che tre dementi al potere non sono ancora sazi.» Nulla ha mai impedito alla storia di biforcarsi, che ci ripetano il contrario dalla mattina alla sera non ne fa una legge, nulla ha mai impedito alla storia di disgiungersi e nulla si oppone alla possibilità che la specie umana cambi la sua narrazione collettiva: al contrario, per la prima volta nella storia dell’uomo non ha alternative. I mercati non esistono: non si parla di montagna, uragano, incendio, oceano, inverno che arriva, non si parla di cose reali quando si parla di mercati, non sono giganti in collera dai quali non si sfugge.

Ciò che ci insegna il covid,tra le tante cose, è che il giorno in cui smettiamo di andarci tutto si ferma ed è finita lì. Noi non siamo governati da divinità onnipotenti che possono fare a meno del nostro accordo per sistemare il loro casino. Siamo governati da vecchi imbecilli che temono che i loro capelli diventino crespi sotto la pioggia, che si mettono in posa mezzi nudi a cavallo per esibire la loro gran virilità, siamo governati da vecchi impossibili a cui sarà del tutto possibile domani dire: “ma vacci tu, a far la tua guerra.” Se è così cruciale affidare sempre tutto ai più violenti, organizzate allora grandi combattimenti tra i leader e che se la sbrighino tra di loro sul ring, con il gusto che hanno per il sangue. È ora di sottrarsi a ciò che sembra evidente: il mondo così come lo conoscevamo si sbriciola, non è una cattiva notizia, è il momento di ricordarsi che non siamo obbligati alle armi, non siamo obbligati alla guerra, non siamo obbligati alla distruzione delle risorse, non siamo obbligati a tener conto dei mercati. Il patriarcato è una narrazione e ha fatto il suo tempo. È finito il tempo di passare la nostra vita a quattro zampe sotto i tavoli dei vostri banchetti, rosicchiando i vostri resti e a succhiarvi il cazzo alla cieca, gratuitamente, amabilmente, ringraziando abbondantemente ad ogni eiaculazione: ci fa tanto piacere vedervi felici, voi quando siete a tavola. Basta. Ora quando apriamo la bocca, è per mordere, o per parlare: parlare è più importante che mordere, parlare è la cosa più importante che abbiamo fatto negli ultimi anni, noi che non abbiamo mai parlato. E ciò che conta oggi è aver cura delle nostre parole: se vogliamo dire “rivoluzione” dobbiamo permettere alla parola di prender presa dove non l’ha mai fatto, dobbiamo aprire spazi non “safe”, perché “safe” non esiste quando devi smaltire la tua merda, ma di ascolto sincero. Non è una questione di benevolenza ma di sincerità, ascoltare sinceramente è forse quello che dobbiamo imparare a fare. Non ascoltare per trovare conforto in ciò che ci conviene, non ascoltare chiedendoci se questo può migliorare la bottega delle nostre rispettive botteghe: ascoltare, sinceramente, prendendo il tempo di capire. Non si può ascoltare la parola se è confiscata dai tribunali, bisogna imparare ad ascoltare senza che il nostro fine sia quello sistematico di dichiarare qualcuno colpevole o non colpevole. Tutto il ciclo del giudizio viene dal vecchio mondo: ce ne freghiamo di sapere chi è colpevole. Per capire come intendere, ricevere, curare per poi trasmettere qualcosa di diverso dell’abuso di potere dobbiamo imparare a destituirci dalle autorità.

Io so e io sento che non esiste separazione netta nemmeno tra me e il ministro dei registri razzisti, tra me e l’idiota in menopausa che viene a parlarci della dolcezza degli uomini, tra me e la femminista secondina di una nuova prigione, tra me e il branco dei tarati aggressivi che insorgono ogni volta che ci si dimentica un po’ troppo in fretta l’importanza del testicolo nell’arte, tra me e gli odiatori di merda che esigono il silenzio di colei che evoca la nostra comune storia coloniale e tra me e gli utili idioti dei sottodotati del terzo reich – nemmeno tra me e loro c’è una frontiera fissa. Sono anch’io gli imbecilli, sono la loro collera, il loro disprezzo, sono anche la loro fetida agonia poiché nulla mi separa dalla merda che mi circonda.

Cosa che non equivale a dire che tutto si equivale: ma che c’è contagio, propagazione, impatto e che ogni idea di purezza, di isolamento, di protezione è più o meno credibile quanto mettersi una mascherina di carta nella bolgia dei servizi della rete metropolitana delle 19 e 30. Probabilmente utile, ma del tutto irrilevante: siamo esposti gli uni agli altri.

Ciò significa che tutto ciò che viene emesso ha un impatto su di noi e viceversa. Perché se comincio a dire che non ci sono frontiere così chiare tra me e gli altri, non lo dico poeticamente: dico l’armena e la sua sofferenza, la libanese e il suo sconforto, la senza tetto e la sua erranza, la donna in prigione e il suo dolore, la cantante a Hong-Kong e la sua determinazione, la studentessa precaria in un convitto e la sua rabbia, quando dico «siamo il mondo tutti contemporaneamente» non vado a cercare la colpa nel mio corpo per il fatto di non sentire abbastanza. Non ho freddo, non dormo in una cella, oggi non sono stata picchiata, i miei polmoni non sono compromessi, non stringo i denti quando arriva una fattura, ho i documenti, ho la pelle bianca, ho mangiato bene, eccetera, eccetera… il senso di colpa è un isolamento che non serve a nient’altro se non a renderci impotenti. Sì, i vestiti che porto oggi è la vita distrutta dei bambini che li hanno fabbricati, è l’inquinamento dei Paesi, è la vergogna di appartenere alla classe di coloro che hanno avuto la faccia tosta di decidere di delocalizzare. Sì, il cibo che assimilo è avvelenamento della Terra e la distruzione delle specie animali, la ristrettezza del lavoratore agricolo, la fatica del camionista spagnolo che sorpasso a tutta velocità sull’autostrada. Sì, l’istituzione museale che occupo stasera è una storia di esclusione di rara violenza, sì i libri che scrivo e che vendo sono l’onta della mia esibizione mediatica, sì ogni parola che pronuncio oggi è infangata non solo dalla somma dei miei privilegi, ma anche dalla mia passività e anche dalla mia capacità di godere delle ingiustizie per il fatto di denunciarle. Sì mi sento colpevole, no non sono pura ma il senso di colpa è tossico e non mi serve: di questa vergogna non posso fare nulla di utile. Sì, sono consapevole anche di un altro privilegio che è la notorietà, nella misura in cui la notorietà è diventata un meta-valore. Il separatismo tra coloro che, come me, hanno un nome che provoca ondate di shock su internet e coloro che si dannano per farsi sentire, per singolarizzarsi, per farsi notare, che vogliono sbucar fuori e io che siedo sul trono come un invincibile foruncolo che non si finisce mai di bucare e sono consapevole di tutte le mie posizioni di privilegio e non voglio dire che tutte le condizioni di vita di tutti  i corpi si equivalgano, tutte le condizioni di vita di tutti  i corpi non si equivalgono solo perché sono collegate tra di loro ma quello che dico è: bisogna essere consapevoli dei legami invisibili.

Perché è di questa trama che sarà fatta la rivoluzione, non della giustapposizione dei nostri sensi di colpa.

Il mio corpo bianco non sottomesso al lavoro forzato, che non è stato violato impunemente, il mio corpo cristiano che festeggia l’11 novembre[1]senza pensare alla città di Sedan[2], il mio corpo goy[3]che sopporta la propaganda antisemita, il mio corpo ben nutrito, troppo curato, per cui il capitalismo lavora e fa il lavoro sporco senza che io abbia a preoccuparmene e posso persino rifiutarlo emotivamente e approfittarne allo stesso tempo, questo corpo bianco per il quale abbiamo definito tante frontiere: ne ho piene le scatole di rispondere ai secondini e ai padroni, quel che voglio nutrire oggi è la mia facoltà di ascoltare quando quelli che non hanno mai parlato aprono la bocca. Ciò che voglio nutrire è la mia facoltà di desiderare altro. Quello che voglio sentire è che appartengo alla razza umana e a nessun’altra e voglio capire cosa si dicono i giovani, quelli che hanno l’età per essere figli dei miei figli e creder loro quando dicono “faremo la rivoluzione”. E sapendo quello che so desidero aiutarli.

disegno Kara Walker

Non voglio più dire “intersezione” perché alla lunga il termine dà l’impressione che io venda dei pomodori e che mi interroghi sul fatto che sia pertinente o meno, che io venda qualche patata del mio vicino nel mio bancone, quando de facto le tue patate crescono sullo stesso terreno dei miei pomodori. Ma in ogni caso il fatto di sapere se sono interessata a che le mie lotte coincidano o meno con le tue è una preoccupazione da bottegaio che non ha nessun senso: non abbiamo a che fare con una mappa stradale o con un problema di matematica. Quando diremo “rivoluzione” voglio ricordarmi che non sono lontana isolata da te e tu non sei protetta da me. Possiamo erigere muri, gettare reti in mare, moltiplicare le frontiere e le procedure per attraversarle: alla fine non serve a niente. La tua realtà attraversa la mia, la mia realtà pesa su di te, le frontiere fisse sono tossiche e non servono a niente. Ciò che è immutabile è che tutto è attraversato. Che non equivale a dire che tutto si equivale. 

Ascolto persone della mia età parlare di persone che oggi hanno 20 anni e sento dir loro «come tutte le generazioni prima di loro questi vorrebbero cambiare il mondo», con il tono blasé e sereno di quelli che ne han viste tante, di quelli che sanno come va a finire. Ma posso testimoniare che la mia generazione non voleva cambiare il mondo: alcuni di noi lo desideravano, ma la mia generazione non ha mai voluto cambiare il mondo, ci credeva troppo a questo mondo e credeva – a tutto quello che le dicevano. Non tutte le generazioni hanno voluto cambiare il mondo: non a tutte le generazioni è toccato il dovere di cambiare il mondo. Alla mia generazione non è mai stato detto, prima ancora che sapessimo leggere, “se non cambiate il mondo, creperete tutti”. Sono fluidi rispetto al genere e sono pansessuali, sono razzializzati o solidali con i razzializzati, non vogliono più essere rinchiusi e definiti dalla miseria e dall’ingiustizia, sono sciamani, sono streghe e quello che mi interessa oggi non è più la mia vergogna, né il mio senso di colpa, né la mia rabbia, né i miei sbirri interiori, ma piuttosto diventare capace di dire loro «tutto è possibile – a partire dal meglio – e si tratta allora di desiderare altro. Ho scelto di credergli quando dicono che vogliono salvarlo  questo mondo. Ho scelto di credere che non sappiamo nulla di come saranno fabbricati i giorni a venire. Ho scelto di credere che, quando i più potenti ci ripetono dalla mattina alla sera «sappiamo tutto dell’avvenire perché conosciamo il passato, non c’è alternativa, le cose vanno così perché è nella natura umana di finire così, è così che Dio ha voluto nella sua infinita saggezza e se c’è crudeltà gratuita e ingiustizia e grande saccheggio è perché la crudeltà, l’ingiustizia e il saccheggio fanno parte del reale» e ci dicono «guardate gli animali» e ogni volta che li guardano è per vedere come si ammazzano, allora anch’io guardo gli animali che uccidono e osservo. Non vedo i loro campi di confinamento per migranti, non vedo le loro frontiere, non vedo l’elefante che mette filo spinato sul suo territorio perché ha deciso che le zebre non dovrebbero esistere, non vedo gli animali che seppelliscono i loro rifiuti nucleari: e allora mi chiedo “cosa devo imparare dagli animali?”. Nelle nostre storie di umani, la dolcezza è utile. La dolcezza e la benevolenza sono le nozioni più antinomiche che ci siano rispetto al sistema che ci opprime. La dolcezza e la benevolenza sono il contrario dello sfruttamento capitalista: chiedimi il permesso, chiedimi se consento. La dolcezza e la benevolenza sono ciò che non troviamo sui mercati, ciò che non troviamo nell’esercito, è quello che non si insegna nelle scuole di polizia.

Tutte le propagande mi attraversano, tutte le propagande parlano attraverso di me. Niente mi separa dalla merda che mi circonda, niente tranne il desiderio di credere che questo mondo sia una materia molle, che ciò che è vero oggi può scomparire domani e che non è ancor detto che questa sia una cosa malvagia.»


[1][data dell’armistizio con la Germania – in Francia è la festa che commemora la vittoria nella Prima Guerra mondiale NdT]

[2][teatro di una disastrosa battaglia nella guerra franco- prussiana del 1870 che venne a lungo commemorata come vittoria in Germania NdT]

[3][parola ebraica che sta per “nazione” e oggi per estensione indica chiunque non sia ebreo NdT]