Per una cartografia decoloniale

Postattivismo creativo

art by Curiot

Riprendendo i nostri dialoghi vorrei poter inaugurare una serie di discussioni su come si possa intendere il “postattivismo”:  non come una sorta di superamento dell’attivismo, ma come una via verso una  maggior efficacia e respons-abilità in una nascente ecologia della cura e della riparazione. L’epistemologia critica è importante ma non basta e nessun “soluzionismo”  esce in fondo dalla logica coloniale della pretesa efficienza della modernità. Una architettura in cui abitano persino i privilegi “etici” delle migliori ragioni e che alimenta negli stessi movimenti il narcisismo delle piccole (o grandi) differenze.

Anche se siamo ancora incapaci di fermarci davanti allo sfacelo –  come l’angelo della storia di Benjamin catturato dal moto perpetuo dei più alti ideali –  forse cominciamo a intravedere quanto l’intreccio costitutivo e relazionale della realtà ci inviti ad abitare e trasformare  diversamente le rovine. Specialmente quando il confine tra simbolico e reale si assottiglia: quando i satelliti iniziano a cadere “La caduta del cielo” – la profezia sciamanica di Davi Kopenawa – non è più solo un affascinante viaggio dislocante verso esotiche prospettive.

Qui condivido non una sintesi ma tre  brani che assemblo perché li ho appena letti e ascoltati – contributi di di Bayo Akomolafe, l’autore che in questo momento mi sollecita più di altri a pensare ed esplorare il potenziale del pensiero decoloniale “fuggitivo” e diasporico: la costellazione della crisi,  il post-umanesimo, il neo-materialismo, le alleanze in fieri degli undercommons, il rovesciamento delle prospettive generato da un animismo relazionale ecosistemico intrecciato con le scienze della complessità… 

Forse la sfida si pone a un crocevia: andando di là si resterà intrappolati nei ricordi di passate militanze – che è anch’esso una sorta di imprinting identitario – nell’altra direzione invece rischiamo di rimuovere le eredità che ci costituiscono – non resta che riconoscere e rendere creativa l’impasse imparando a intra-agire  con quelle urgenze immanenti in cui il passato è strettamente intrecciato con questo presente…

C’è forse una terza via tra il militantismo risentito del conflitto permanente e la resa alla dipendenza atomizzante agli algoritmi dominanti. Una via che prende forme provvisorie a partire dalla consapevolezza emergente che ciò che agisce non può essere che affettivo, intra e inter-relazionale.

L’attivismo militante, le lotte per il respiro negato, per i diritti, lo stesso slancio critico, sono stati e restano imperativi necessari  oltre che storicamente cruciali,  come lo sono gli imperativi locali del presente. Il postattivismo mi sembra tuttavia un tentativo “clinico” di esplorazione collettiva di forme di  cura, riparazione e creazione collettiva in un tessuto relazionale (e percettivo) profondamente ferito, un tentativo che tenta di ripensare le alleanze necessarie a farlo nel contesto di in una più ampia e inclusiva costellazione o cartografia spazio-temporale.

Mi piace in particolare il modo in cui Bayo decostruisce le identificazioni razziali rideclinandole in termini storico-simbolici: la bianchezza come eredità escludente, culto della purezza e del controllo all’interno di un’architettura modernista e come dice Mbembe “brutalista” capace di accomodare nei suoi dispositivi giuridici la costruzione di moltitudini di “corpi-frontiera”. E la nerezza come decostruzione forzata del rapporto con “terra e sangue”, ma anche opportunità diasporica animata dalle radici di un rapporto permanente con la complessità visibile e invisibile e con l’idea di cura come trasformazione…

Da questo punto di vista le considerazioni di Bayo offrono una diversa cornice di riferimento per l’idea di riparazione che anche in questo caso fanno eco a quelle di Mbembe e degli autori di Undercommons. Se la riparazione delle ferite coloniali e patriarcali tocca il tema di fratture profonde nella relazione col vivente essa rappresenta qualcosa di altrettanto irriducibile, qualcosa che ha la forza di un evento e che trascende sia le supposte virtù giuridiche della modernità che il concretismo di un risarcimento impossibile. E tuttavia dalla stessa frattura diasporica nuove fonti di pensiero e performatività aprono inedite possibilità di cura.

Mi rendo conto mentre assemblo che i frammenti arbitrariamente condivisi non fanno giustizia alla ricchezza degli argomenti che una lettura più organica del lavoro di Bayo Akomolafe può offrire – ma forse possono servire come pratica di compostaggio se fecondati dallo slancio immaginativo di chi legge. 

A presto,

fab

art by Curiot

Qualche brano da una conversazione in podcast che potete ascoltare per intero in inglese qui https://newrepublicoftheheart.org/podcast/064-bayo-akomolafe-getting-lost-meeting-the-more-than-human-vibrancy-of-the-world/?fbclid=IwAR2fCsQTIA_6bxQxiFUUVvhY4P-tU-cpFmzEe3LdB6j6ruyUg4aDnOY6_VE

«Come creiamo qualcosa di nuovo? Come facciamo qualcosa di diverso dal parlare nello stesso modo, scrivere nello stesso modo, ritrovarci nello stesso modo? Come faccio o come facciamo noi – e dico “noi” perché c’è una complessità irriducibile e perché l’io è già accompagnato da quegli “altri” che cerca di ignorare mentre sforza di nominare sé stesso così assiduamente… 

Come facciamo, a partire da questo denso noi, a uscire dai confini di ciò che ci è famigliare, per entrare in ciò che è portentoso e  impensato,  per intrecciarci con altre modalità del pensare e del conoscere? 

Le cose che cerco di esplorare nel campo dell’invenzione  e della sperimentazione, nei margini liminali delle cose e che a volte definisco nel linguaggio della “fuggitività”, delle “piantagioni”,  della fratture , delle nascite messianiche e delle notizie sperimentali, mi rendono sospettoso nei confronti del “soluzionismo”, mi rendono guardingo nei confronti di chi dice: “ho la soluzione”.  Sto cercando una dimensione di “incapacità generativa”, un posto per il compostaggio che possa rendermi capace di cose nuove e ovviamente il compostaggio non dipenderà dalle mie azioni, perché un nodo nel filo non può sciogliersi da solo, ha bisogno della compagnia di altri per farlo, così in un certo senso la mia ricerca ha come focus gli altri, tutti quelli che la modernità ha escluso, altri alieni, microbiomi-altri, tutti quelli che non abbiamo pensato come particolari o cruciali per ciò che succede sulla terra, perché pensiamo sempre nei termini di ciò che conta per gli umani, ci poniamo sempre come esseri senzienti al centro, mentre il mio desiderio va verso  i mostri, le fate, gli outsider, le cose che escludiamo, e io confido in un coro di esseri che generi alleanze più ampie, per trovare nuovi modi di stare insieme. Queste sono le mie priorità e il modo in cui procedo su questo piano, per esempio, è quello di incontrare i miei bambini ogni volta come se fosse la prima. Ci sono faglie creative nel tessuto della realtà (…)

[Domanda: “dopo George Floyd e di fronte ai suprematisti bianchi qui in America non c’è più modo si sentirsi “virtuosi” ci sembra di ereditare tutti un crimine  e quando entriamo in dialogo con qualcuno dal Sud Globale, con qualcuno nero, vorremmo in fondo non essere associati ai colpevoli, vorremmo poter riconquistare una virtù impossibile e vorrei nominare queste cose in uno spirito di apertura e vulnerabilità…”]

Se tu andassi a trovare uno sciamano Yoruba – in realtà non si definiscono sciamani, ma guaritori, il termine è babalayo,  un “medicine man” che è una sorta di avvocato cosmico, che non si limita a guarire ma che negozia la guarigione, il benessere e la prosperità con con la miriade di agencies multiple che popolano il mondo e che noi riassumiamo con nome ayé,  termine che con una sana dose di povertà viene tradotta con il termine “vita”, ma è qualcosa di più ampio, c’è quasi un sapore di cospirazione nel termine ayé…., comunque il babalayo incontra tutte le forze o il maggior numero possibile di forze che sono rizomaticamente connesse con la tua situazione per intercedere a tuo favore, con una capra o dell’igname (yam), ma un guaritore o babalayo non smette di essere gentile quando si avvicina con un coltello…c’è qualcosa che può apparire brutale nell’approccio, non credo che loro ne parlerebbero esattamente in questi termini ma su un certo piano si può dire così: “la guarigione può essere un rischio”… se la guarigione si china su una forma particolare con cui ci identifichiamo allora fa correre dei pericoli. Abbiamo questo desiderio di salvezza e redenzione. Ma salvezza e redenzione si declinano a partire da una ontologia specifica che stabilizza determinate modalità di “essere” e questo è il motivo per cui spesso dico che la “giustizia” che è un ideale immenso, no?, potrebbe anche ostacolare alcuni processi di trasformazione… e il lavoro del babalayo è la trasformazione.

Sa che il tuo problema non consiste nel maggiore o minor benessere, ma nell’aver assunto un determinato stato corporeo…uno stato corporeo che ti permette di sperimentare quello che stai sperimentando…. Così viene verso di te con un coltello per ferirti, per ferirti di più, non per ucciderti ovviamente, ma per incidere cicatrici nel tuo corpo, e da dove vengo io questo ha generato la tradizione delle scarificazioni, l’apertura della carne corrisponde al desiderio della carne di altre modalità di essere nel mondo e la spietatezza di quello che dico deriva da questo, che se parlo a partire dal paradigma all’interno del quale nasce la domanda allora divento parte del problema, imbrigliato nelle dinamiche del problema (…) ho cominciato a pensare “cosa potrebbe funzionare meglio di una risposta a un problema?” e sento che la risposta a questa domanda è “una sorta di stupore meravigliato e sbigottito” (bewilderement)… perché lo stupore ci fa uscire dalle economie relazionali dove le domande e le risposte si contaminano a vicenda… ti trasporta in una diversa economia relazionale, in una prospettiva del tutto diversa…da mio punto di vista può essere più efficace di una risposta. Così quando mi fai una domanda sulle dinamiche Floydiane della nostra epoca, la domanda centrale che emerge dalla modernità è “ come reagiamo, come affrontiamo il senso di colpa che questa situazione genera?”  E non ho una risposta definitiva, ma anch’io mi pongo una serie di domande:   mi chiedo anche se il modo con cui formuliamo queste domande non facciano parte del problema… facciano parte della crisi…. E se l’enfasi sulla colpa – e non è che voglia svalutare l’importanza della colpa, il senso di colpa può avere una funzione, ma il dubbio è che l’enfasi sulla colpa non faccia altro che consolidare la centralità bianca che vorremmo decostruire o dalla quale vorremmo allontanarci…e che anche il paradigma dei soggetti che cercano riconoscimento da parte dello Stato faccia parte del problema…

Così quando una persona bianca si presenta e chiede “ma noi ora che facciamo di questa situazione?” io sento che la domanda stessa risuona con il paradigma dominante che tenta di arruolare quei corpi come attori nel consolidamento della modernità…e non credo che abbiamo risposte …a queste domande su quello che possano fare i bianchi… credo che questo sia un momento in cui sia cruciale ascoltare insieme, potresti chiedermi “ma ascoltare cosa?” – credo che il mondo più-che-umano ci stia invitando a una posizione di ricerca e questo luogo di ricerca è razziale, spirituale, psicologico, economico, gastronomico, batterico, microbiotico è contemporaneamente tutte queste cose…ed è qui che penso che sperimentare nuove modalità di essere sia necessario, per andare da una politica che mette al centro queste ansietà, perché le ansietà sono il prodotto delle forme cha abbiamo assunto…e abbiamo bisogno di nuove storie e nuove cornici di riferimento ontologiche con cui pensare o ripensare le nostre identità, ripensare cosa significhi essere nera, che è un concetto diasporico, ripensare che significhi essere bianca, che è una moderna imposizione identitaria e trovare altri modi di essere nel mondo…

Non va assolutamente ignorato il grido urgente, la domanda di salvezza e attenzione… faccio parte di quel grido, ma so che la critica mi può portare solo fino a un certo punto…la critica mi colloca in piena modernità e ho bisogno di qualcosa che mi porti più in là [Bayo qui racconta la storia degli schiavi Igbo che ho pubblicato in Ballando con lo spirito dell’acqua)… quella idea di una nerezza più-che-umana mi interessa perché non voglio essere salvato da corpi bianchi, non voglio essere l’oggetto di compassione moderna, voglio altri spazi di potere.

[Domanda sintetizzata: “abbiamo ereditato una narrazione di progresso… e l’abbiamo poi intrecciata con un’idea spirituale, perché non possiamo considerare la vita solo come una storia catastrofica, la vita è miracolosa non stiamo forse andando verso la vitalità vibrante di un mondo consapevole e meraviglioso?”]  

Sono di solito molto riluttante nel descrivere il mondo come IL mondo. Credo che Marcus Gabriel nel suo libro “perché il mondo non esiste” abbia lavorato per decostruire l’idea che il mondo sia un tutto coerente… non è che neghi l’evidenza empirica sta solo dicendo che il linguaggio non può nominare ogni cosa in una qualche forma totalizzante, non vi è un termine che copra tutto, la “cosapevolezza” non basta, l’Universo neppure, perché persino l’immaginazione è reale, ha veri e propri effetti non è necessario che abbia validità empirica per avere effetti. Non è che vi sia UN mondo e nemmeno mondi MULTIPLI, il mondo è resiliente nella sua indeterminatezza e navigandolo noi operiamo dei tagli operativi in un punto o nell’altro, lo definiamo e chiediamo che ci definisca…. Non siamo solo degli utlizzatori e il mondo non è solo uno strumento – di nuovo il linguaggio mi tradisce – noi non siamo utilizzatori e Un Mondo o Mondi Multipli o il Mondo a Venire siano uno strumento, piuttosto capiamo che  i ruoli vengono costantemente capovolti. E questo mi porta a discutere l’idea di “che cosa ci aspetta” e sono acnora più riluttante a parlarne – qualche volta mi chiedono: “cosa pensi che accadrà nel 2050? Entreremo in un Età della compassione?” O qualcosa del genere. E davvero non so come rispondere a questo tipo di domande…Vengo da un popolo che non poteva vedere cosa sarebbe accaduto la settimana dopo perché non ne avevano la possibilità… quando leggo della scarsa visibilità in California per via degli incendi, sento compassione ma sento anche “certo, questa cosa la conosco, l’ho vista, l’ho vissuta…” il fatto di non sapere cosa succederà dopo… l’urgenza, l’immediatezza del mondo è ciò che cattura la mia attenzione – e so che rischio di lasciar fuori un universo di considerazioni – ma c’è lavoro da fare nella immediatezza immanente del mondo, a partire da come viviamo nella densità del presente…e al di là delle categorie con cui proiettiamo il presente nel futuro. Preferirei mettere a fuoco il passato. Per esempio, c’è un proverbio indigeno che dice che il lavoro serio lo fanno quelli che guardano il passato. Non considero il passato come qualcosa di concluso, perché mi interessa un diverso paradigma temporale, “il passato deve ancora accadere”, posso guardare in avanti, per così dire, e guardare il passato. Se pensi al tempo in termini circolari allora il passato non è solo ciò che è passato, il passato è ciò che sta ancora accadendo, l’eco di voci nelle pieghe della modernità, gli archetipi di cui parlava Hillman per cui gli dei che non sono mai svaniti, sono diventati parte dei nostri apparati, dei nostri pixel e delle nostre tecnologie…L’idea che il passato sia presente che dobbiamo le nostre vite e i nostri corpi al cosiddetto passato, e che lo elaboriamo continuamente in una qualche forma transcorporea quando per esempio ci chiediamo: “che significa avere un corpo? Che significa essere vivi in questo tempo?” questo è un tema che mi appassiona, tanto che non riesco a pensare a quale forma il mondo potrebbe avere in un tempo futuro – non so se posso avere fiducia – e forse questa è una prospettiva postmoderna – non so se posso avere fiducia in queste grandi metanarrative – l’ ”Età della Ragione”, l’ “Età dell’Acquario”…o qualcosa del genere (ride) certamente non c’è stato niente del genere per persone come me…sono molto sospettoso rispetto a quel modo di nominare le cose anche per restare umili rispetto a cosa potrebbe accadere – non è per negare la creatività con cui nominiamo le cose, ma dobbiamo resistere all’urgenza di farlo da soli…»

Da un altro post sulla pagina fb bayoakomolafe

«La modernità non ha eliminato il sacro. Lo ha riposizionato nel confine delle coordinate umane – in primis nel corpo bianco, il suo principale avatar. Qui nei vortici del rifiuto post/moderno di ogni autorialità non umana, nello stesso progetto antropologico, si nasconde un tempio dedicato alla venerazione delle quando riusciamo a criticare queste forme di devozione religiosa –  siamo tutti arruolati al servizio di questa configurazione: puliamo panche, passiamo il cestino delle donazioni, ammiriamo i preti nel sanctum sanctorum. Ma il sacro non si fa ingabbiare. Oggi, se ascoltate, potreste sentire che la presa contratta dell’umano comincia ad allentarsi, mentre la nostra pretesa centralità non regge il confronto con argomenti non umani assai convincenti. Se ascoltate un po’ più a lungo, potreste persino iniziare a discernere i passi caotici del sacro che migra dal suo precedente confine, fischiettando mentre saltabalzella con determinazione  sulle rovine asfaltate del nostro mancato arrivo…»

carnevale a Haiti

 

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«Insieme a Bruno Latour, in una “perversa” deformazione del suo aforisma ma che credo egli approverebbe possiamo dire: “Non siamo mai stati umani”. In un sorprendente rovesciamento del copione non siamo né gli eroi né l’unico focus affascinante di un pluriverso eccedente. Il sapere strumentale umano capace di concepire l’uso di strumenti e attrezzi è diventato (o è sempre stato) strumentalizzato. La dimensione [evolutiva] ultima, definitiva è diventata  penultima (…) il mondo è vivo e performativo – suffuso di elementi di agentività relazionale, quelli che attribuiamo senza pensarci a noi stessi.

art by Curiot

In breve l’Antropocene richiede una ontologia radicalmente nuova e smantella quella aristotelica-cartesiana che la maggior parte degli abitanti della modernità hanno dato per scontato. Aspetti di questa performatività materiale che prende atto di processi “molecolari” (nel senso attribuito alla parola da Deleuze) sono i corpi transcorporei, le specie amiche, il tempo queer e l’agentività non umana. Questo vibrante mondo ecologico emergente, de-sacralizza l’attività umana, inserendola in una rete di altri effetti efficaci che scorrono da un mondo incalcolabilmente perverso e rizomatico. Un mondo processuale di azioni performative in divenire.

(…)

Invece di considerare solo i soggetti indipendenti nel loro agire – cioè l’unità  privilegiata di analisi del cambiamento sociale, e le cui intenzioni, motivazioni ed esaurimenti costituirebbero la fucina del cambiamento mondiale  – prestiamo lttenzione all’attrezzatura che circonda il soggetto intento ad agire,   considerando l’assemblaggio complessivo,  tentando ci capire cosa e come stia operando questa concatenazione di corpi. 

L’attivista non è più l’umano separato dal dispositivo necessario al suo attivismo, ma è l’ ”umano” e i suoi attrezzi: gli schermi dei computer, i concetti, le classificazioni, le categorie di pensiero, e la città nei suoi effetti di soggettivazione.

In quanto tale il “Sé” classico viene così decentrato come focus dell’attenzione e delle suppliche; il cambiamento sociale non dipende da mosse unilaterali del sé umano, ma dalle concatenazioni emergenti che attraversano altre concatenazioni (deterritorializzioni e riterritorializzazioni).

Come definire una ricerca postattivista? Quali questioni potrebbero emergere? Non c’è spazio qui per esplorare le metodologie di un impegno postattivista, ma qualunque esse siano, tale vocazione è promettente  – specialmente in tempi di sconforto, quando l’approccio alle questioni da veterani dell’attivismo non appare generativo. 

Come figlio del cosiddetto Sud Globale, il mio popolo è stato per molto tempo beneficiario della “benevolenza” occidentale. Le Ong sono altrettanto numerose delle chiese predatorie ad ogni angolo di strada. Molti [subalterni] si  ribattezzano “attivisti”  per  mettere la bocca sotto il rubinetto  del “foreign aid” e della filantropia Euro-Americana. Tuttavia non ci sono grandi cambiamenti. L’attivismo si traduce sovente nel fatto che scafati ragazzi di strada siano pronti ad ingannare un altro straniero in cerca di virtù. Per i volonterosi ed ingenui neo attivisti le lezioni sono dure e presto imparate: non importa quali siano la tua giusta causa, o le tue nobili intenzioni, per sopravvivere devi portare avanti il programma.

Il possible invito del postattivismo è di restare con i vari elementi dell’arredamento che compongono l’assemblaggio attivista. Invece di mettere a fuoco solo l’umano, veniamo invitati a prendere nota dei dispositivi, di  cosa essi stabilizzino, di che cosa riproducano, di che cosa escludano. 

Per esempio – prendendo sul serio l’invito postattivista di de-privilegiare l’ “attore” umano – potremmo scoprire che i nostri problemi fanno spesso parte del problema: che le nostre soluzioni, pensieri, contributi e idee sono secrezioni delle concatenazioni con cui intra-agiamo. E che come tali – e questa è un’ulteriore importante considerazione post-attivista – spesso rafforzeranno le situazioni problematiche che vorremmo evitare: le nostre “soluzioni” sovente si riveleranno come un aspetto della crisi che si ripiega e moltiplica, magari in modo più intelligente e con più sfumature.

La cosa più importatnte è che la ricerca postattivista potrebbe aiutarci a ritrovare un sentimento di meraviglia e re-incanto indicandoci “altri luoghi di potere”. Forse questo è il suo dono più grande: scombinare gli schemi percettivi e le forme di impegno per riorientare l’attenzione su altre bolle di potenzialità che emergono dai paesaggi chimici dell’Antropocene.

***

In ultima analisi, il più grande sacrificio dell’attivista è la sua identità, la sua verginale separatezza. Con la sua dipartita disperde i suoi resti impollinando ogni banale superficie con agentività e promessa. Ed è lì che dobbiamo andare, nella distanza performativa in cui vortica l’altrimenti.»

street art stencil a Betlemme

Humus Sapiens

Victor Brauner – Germination (1955)

In questo post vorrei porporre una breve ricognizione di alcuni temi che sento emergenti e trasversali e con cui in parte abbiamo cominciato a confrontarci

  1. Identità e politiche dell’identità 

L’identità come eccedenza. Ogni mattina quando sono a Milano vado a bere un cappuccino ai giardinetti dietro casa, mi siedo su una panchina a fumare la pipa . Stamane, dall’altra parte dello spiazzo, c’è una tata con un bambino di circa due anni. Che mi sbircia un po’ poi si volta verso di lei e indicandomi chiede “nonno?” 

– “No non è il tuo nonno”, dice lei. 

– “papà?”  

– No, non è neanche il tuo papà”.

– “mamma?”

A questo punto scoppiamo tutti a ridere.

Ciò che rappresentiamo per gli altri (e per noi stessi) si intreccia con un numero tale di fattori sistemici e rizomatici da essere pensabile solo in termini di eccedenza. Un’eccedenza che preclude ogni definitiva essenzializzazione. Ogni definizione escludente. La fisica delle particelle sembra dirci che la struttura profonda della realtà non è qualcosa di dato ma un processo generativo di possibilità emergenti.

Forse anche “quello che pensiamo” individualmente non dovrebbe essere così centrale nelle dinamiche con cui giudichiamo i processi…. Mi sembra che l’idea di identità si definisca a partire dal suo essere più-che-individuale piuttosto che immutabile. Il terreno della gerarchia morale è pieno di trappole. Quando per esempio giudichiamo le politiche dell’identità considerandole un segnale di essenzialismo, non attraversiamo il lutto accanto a chi lo attraversa e finiamo per chiuderci anche noi in una posizione essenzialista “evoluta”.  E’ indispensabile non erigere monumenti alla memoria traumatica,  uscire dal pensiero binario, pensare rizomaticamente, moltiplicare il molteplice! Ma mi chiedo da tempo se non sia possibile polarizzare e ideologizzare proprio ogni prospettiva, anche la più illuminata, trasformandola in un nuovo polo identitario escludente. La realtà è ancora più queer, difratta, intrecciata, “entangled” di qualsiasi illusione di identità individuale. 

Fare ricognizione nel territorio dell’identità e delle sue politiche non è facile. Come se bastasse eliminare la parola razza dal nostro vocabolario per cancellare automaticamente il fatto di subire o infliggere discriminazione e violenza Come se questo bastasse a riscattare magicamente secoli di storia. Se chi subisce il razzismo sulla propria pelle osa dire in un momento di rabbia: “sono stufo di voi bianchi”, attribuendo una supposta identità razziale a chi per secoli non ha fatto altro, reagiamo come se non ne avesse il diritto. Achille Mbembe descrive bene il senso storico di alcune politiche dell’identità che pure si ribellavano proprio contro la deformazione essenzializzante, il velo “ontologico” che il razzismo aveva collocato e tuttora colloca sui volti di chi il razzismo (o altre forme di discriminazione) lo vive in prima persona.

«Proprio quando parliamo di identità e di differenza un conto è poter dire liberamente chi si è, poter pronunciare il proprio nome, poter dire da sé da dove si viene e dove si va . Un’altra è di vedersi affibbiare una maschera ed essere costretti a portarla, una maschera che da quel momento funziona come il doppio di ciò che si è veramente.»

Mbembe aggiunge che lotte identitarie dei popoli assoggettati e colonizzati erano necessariamente lotte per il riconoscimento e l’autodeterminazione, lotte che fanno parte di un grande racconto collettivo di emancipazione in cui la differenza viene messa in gioco contro ogni astratto universalismo «non per escludersi da ciò che è in comune, ma come una leva per rinegoziare i termini dell’appartenenza e del riconoscimento.» 

 Ma per la costruzione di un mondo-in-comune «Dovremo imparare a riparare insieme il tessuto, il volto del mondo (…) abbracciare con gli occhi aperti l’inestricabile del mondo, la sua struttura non dipanabile; il suo carattere composito. Il progetto di un mondo in comune significa aprirsi a chi passa, a chi transita. Passare rimanda in ultima istanza a ciò che costituisce la nostra condizione comune, quella di mortali, in cammino verso un avvenire per definizione aperto. Essere di passaggio – è questa la condizione umana terrestre…. Assicurare, organizzare e governare il passaggio e non istituire nuove chiusure, questo è il compito della democrazia nell’era planetaria.»

Anonimo – street art sulle scale

2. Sfuggire a ogni “soluzione finale” (“Inside the museums infinity goes up on trial – voices echo: “this is what salvation must be like after a while”.)

Alcuni avranno subito notato che la citazione nel titolino è il verso di una canzone di Dylan.  La prima parte dice: “Dentro i musei l’infinito viene rinviato a giudizio”… 

E’ questo il dono tossico della modernità, la pretesa quadratura del cerchio, la ricerca perenne di una soluzione, di un algoritmo, di una soluzione che chiuda ogni crepa. La mappatura “museale” che opera per categorie e discipline, certa del suo universalismo, della sua superiorità etica, del suo potere di governance, della “linea politica giusta”, delle ragioni efficaci della tecnoscienza.

Bayo Akomolafe parla della materia coloniale come dell’imposizione di un prodotto finito, di una mappa completa, pietrificata che nega ogni altra idea di luogo come a un tempo casa, transito, esilio, musica. Lo chiama “Il dono tossico dell’arrivo.”

Il verso della canzone di Dylan continua così: “voci ribadiscono: ‘la salvezza – dopo un po’–  ha questo aspetto’ ”. L’aspetto in cui l’infinto si congela come nei musei. Benjamin ci ha insegnato che l’idea di salvezza, la proiezione ideale  di un futuro radioso (che sia il progresso o la rivoluzione) fa parte del problema. Ogni aspirazione a una “soluzione finale” ci rinchiude in una prigione identitaria negazionista che rifiuta le politiche della relazione e la possibilità di riparare qualcosa nelle rovine del presente, proprio come l’istituzione museale o una certa forma di educazione pietrifica la cultura e la vita, la cataloga, la ordina, la rappresenta, uccidendone il potenziale germinativo. Altre istituzioni umane che immaginano fe il potere in termini di controllo e sicurezza, di governance dei processi e delle paure, murano le eccedenze e rappresentandole sotto la forma del mostruoso.

Fermarsi, rallentare, è indispensabile per creare altrimenti

street art by Curiot

3. Stare nel mezzo (“We sit here stranded though we are doing our best to deny it”)

Tre giorni fa era il sette aprile – senza pensare alle date mi tornava in mente l’incipit della Commedia “nel mezzo del cammin di nostra vita….”

Siamo sempre e solo nel mezzo. Siamo nel mezzo perché nasciamo in un dato contesto, in una lingua, in un sistema famigliare, sociale, culturale, nei suoi codici comunicativi verbali e non verbali, nel suo ethos, nelle forme che circolano – che so – nelle filastrocche che cantiamo ai bambini: “Questa bimba a chi la do – la darò alla Befana che la tenga una settimana; la darò all’uomo nero che la tenga un anno intero”…

E poi….  Immaginiamo per un momento – con la consapevolezza emergente  che ci offre ìl prospettivismo Amerindiano – che l’incipit dantesco sia frutto di una autentica visione…

“mi ritrovai per una selva oscura ché la diritta via era smarrita”…

lo smarrimento necessario ra cui portano le vie diritte , le vie senza paradossi, senza vicoli ciechi, senza trickster selve e animali. La direzione obbligata della via diritta è di portarci a smarrirla, a (ri)trovarci   nella foresta, nel nagual, nella complessità intrecciata del reale, a frequentare le rovine, le crepe, le fratture, a riconoscerci abitati da altre creature,  E nella foresta chi incontra Dante? Tre animali: una lonza, un leone e una lupa. Che vengono poi interpretate allegoricamente secondo il bestiario medievale alla stregua  di pulsioni e desideri umani (lussuria, orgoglio, avidità) proiettati sulle loro figure. Ma dopo aver frequentato un po’ le ecologie degli “altri” sappiamo che in una visione Yanomami queste fiere sarebbero state interpretate ben altrimenti.

Qui chiudo con un altro passaggio di Akomolafe che sintetizza l’importanza di questo nostro poter stare nel mezzo:


“«La vita non è una scala il cui gradino più alto ha più valore di quelli precedenti ; la vita non è una gara per vedere chi taglia per primo il traguardo; la vita non è un cerchio con un centro percepibile o una circonferenza obbligata. Il linguaggio del debito ti precipita in un discorso lineare, dove non basti mai, dove quello che fai nello schema più ampio delle cose conta ben poco, dove ti senti in colpa per non aver fatto abbastanza per salvare il pianeta e dove non sempre sei all’altezza delle tue più care parole d’ordine e dei tuoi valori. Il tuo compito allora sembrerebbe  quello di riuscire a cogliere successi più velocemente di altri, arrivando il più possibile prima. E se la vita fosse invece un frattale di immagini intrecciate, con le parti che riflettono il tutto? Se  fosse invece una tela dove passato, presente e futuro si fondono in una esilarante immediatezza, che intravediamo per un attimo in momenti particolari? E se non fosse necessario fare tutti questi sforzi per essere in forma? Se non ci fosse nessuna forza esterna con cui misurarsi? Se le tue domande, i tuoi impicci e denti scheggiati fossero sacri quanto  l’idea di “essere sul pezzo”? Se dove sei in questo momento fosse proprio il posto più interessante? In questa casa che danza con l’esilio? (…)

Questo è il tempo di indugiare ai margini, di entrare nei punti di intersezione problematici dove le differenze tra me e te, noi e loro, tra queer e straight, natura e cultura, vivente e non-vivente, umano e mondo, non sono fatte e finite, ma ancora in divenire. Questo è il momento di restare con il problema di sapere che non c’è divenire che non sia un divenire-con.

Le cose che si mettono di traverso sono aspetti della nostra riconfigurazione presente. Nemici, strettoie, ricordi brucianti, feticci ringhianti, credenze persistenti, spettri urlanti, spauracchi neri, schegge impazzite, nuvole minacciose, giganti verdi, abissi che si aprono, foreste che sogghignano. L’invito non è quello di “attaversarle” e uscirne indenni. (…)

Un po’ alla volta stiamo imparando a vedere che le cose che definiamo ostacoli sono inviti alla metamorfosi – a riconsiderare la genealogia delle forme che abbiamo ereditato, e a lavorare insieme per vedere cosa potremmo diventare. Se cercate la via che sembra più promettente, cercate quella che apparentemente porta in un vicolo cieco. Quella non mappata, abitata da ambiguità vorticose e da fantasmi lamentosi e dagli indovinelli della Sfinge e da ombre che ci sbirciano con occhi gialli come fessure. Un buon viaggio ha a che fare con lo smembrarsi non con l’arrivare.»

Da “Lo zio Boonmie che ricorda vite precedenti” di Apichatpong Weerasethakul

4. Per un ecologia del compostaggio come cura.

Altri due punti su cui non mi dilungo qui, sono il passaggio da un posizionamento solamente critico che finisce per corrodere se stesso a una riflessione  per immagini, parole e percezioni che mi sembra abbia ha molto più a che fare con la possibilità che atti di creazione o meglio di co-creazione includano questo stare nel mezzo e questa porosità del mondo, ma anche il marronage, l’abitare le rovine, il vuoto e l’esilio diversamente.

Ho provato a tradurre “clinica della crisi” in inglese e e veniva fuori qualcosa di molto etno-centrico – come se si trattasse di una questione per specialisti, per “clinici” che dovrebbero occuparsi del paziente “crisi”, chinarsi in consulto sul suo letto. Ma poi – chi si china su chi? Mi piacerebbe ripensare la clinica come un’ecologia della cura nella diffrazione di un dream-time  in cui gli alberi e il mondo e le macchie sui marciapiedi, le dissonanze stesse si chinano su di noi e ci curano – o ci invitano al risveglio. 

Il dream time – il tempo del sogno della mitologia dei popoli primari dell’Australia – è un tempo non-tempo,  precede la creazione, ma è anche il tempo del suo poter-prender-forma e  anche la leggibilità delle tracce che le creature primordiali – giganteschi Spiriti creatori – lasciavano nel loro passaggio: la natura percepibile come  mappa transtemporale. 

Wintjiya Napaltjarri
WOMEN’S CEREMONIES AT WATANUMA, 2007

A  volte mi pare che persino nelle nostre città cementificate, o guidando in autostrada sia  possibile percepire la punteggiatura degli alberi come una discontinuità biofila, non assimilabile, una sorta di memoria dell’altrove, un territorio colonizzato ma non assimilabile, una persistenza che tenta di resistere e parlarci. 

Torino

Il tema del compostaggio, l’invito a diventare humus sapiens, a cui ci invitano Donna Haraway e Bayo Akomolafe  si colloca su tutt’altro versante rispetto ai miti pseudo-eroici del povero identitarismo del nostro Triste Occidente.

Decolonizzare l’immaginario Decolonizzare il tempo

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a sinistra immagine dello sperma di una falena al microscopio – a destra “donne che raccolgono larve” dell’artista indigena australiana Jennifer Napaljarri Lewis

In questo post vorrei iniziare a ragionare sull’intreccio del pensiero critico decoloniale con un’emergente coscienza eco-sistemica  – un piccolo tributo alla ricchezza di pensieri e pratiche che ci giungono dai margini, per aiutarci a pensare il rapporto tra la crisi globale e ciò che è possibile comprendere e auspicare per la costruzione di un mondo in-comune. Pratiche di trasormazione diventano sostenibili se animate dal desiderio e da una visione condivisa.

Guardare alla crisi climatica da sud del mondo genera pensieri ed emozioni che mi sembrano più radicalmente immaginative rispetto alla pretesa di governare algoritmicamente una supposta transizione ecologica. Come scrive Bayo Akomolafe «L’universo è troppo promiscuo per restare fedele a un solo modo di rappresentarlo.»

Bayo è uno psicologo clinico nigeriano che si occupa di formazione a partire dal l’idea che è necessario decolonizzare le forme progettuali che fanno parte del problema. Ci difendiamo dalla prospettiva di un’irreversibilità della crisi. Prenderne atto costringerebbe a un lutto condiviso e all’intreccio di nuove e antiche risorse per imparare a vivere nelle rovine e immaginare un’ecologia della cura. Non a caso Bayo ci dice che l’Antropocene andrebbe percepito su una scala ben più grande – come quella battuta d’arresto che ci costringe a fermarci e a decolonizzare: innanzi tutto la pretesa di governare il futuro e il cambiamento a partire dalle medesime gerarchie cognitive che hanno generato il disastro. (vedi il suo sito «http://bayoakomolafe.net»)

Nuovi Assemblaggi come santuari aperti. 

Ecco un passaggio dal suo blog:

«Mentre si avvicina l’anno 2030 (soglia irreversibile del riscaldamento globale NdT), la concatenazione di un potente assemblaggio di corpi in  dispositivi macchinici tende a rafforzare la logica problematica dell’imperialismo. C’è un invito a fermare il cambiamento climatico diventando benevoli padroni del pianeta, a continuare ad affidarsi alle politiche elettorali anche quando non fanno che mettere in atto temporalità coloniali, a resistere al fascismo facendo propri i suoi colori, a resistere al razzismo senza fermarsi a prendere atto di quanto siano inquietanti i contenitori identitari dell’immaginazione occidentale, e a resistere alla bianchezza ritirandosi negli spazi di potere che la bianchezza ha reso possibili. Tutto ciò attiva un desiderio di fuga che pur non essendo una risposta adeguata  o risolutiva ha il merito di turbare la fiducia in una supposta normalità.

Nel tracollo climatico non ci troviamo semplicemente a combattere un qualche “cattivo” di fronte a noi. E il tracollo non è qualcosa che deve ancora accadere ma qualcosa che è ormai la condizione per tutto ciò che può accadere. Non si creerà una breccia nel muro a partire da un ordine temporale lineare, la diga si è rotta.  Nuotiamo in correnti che sono sempre state nostre. Abbiamo bisogno di forme organizzative che non hanno precedenti. Abbiamo bisogno di qualcosa di più della speranza e qualcosa di più di un programma. Abbiamo bisogno di compostaggio, di una scentratura disciplinata dalle diverse metafisiche di distruzione. Credo che la condizione di esilio e disperazione a cui siamo stati abituati, questo stesso invito alla fuga, lontano dal dualismo integrazione/ esclusione, possa creare uno spazio per qualcosa che chiamo “santuario”, non solo pratiche isolate ma un movimento di ricerca condivisa sul nostro presente. Un festival intergenerazionale di ricerca dell’altrimenti. Una rete di prospettive in una ecologia eterogenea di approcci multipli su come far santuario, ognuno dei quali connesso grazie a ciò che sappiamo di non sapere insieme a una responsabilità nei confronti di chi ci accompagna. Una teologia della liberazione post-umana e post- umanista in cui alberi e tavoli siano invitati come relatori e discussant.

Questo è il santuario di cui abbiamo bisogno: quello in cui sapendo che i tempi sollecitano urgenze si permette di rallentare.

“Questo mondo sarà diverso se ne modifichiamo la rappresentazione”

Un’altra voce emergente di rilievo sulle politiche della relazione e della riparazione è quella del senegalese Felwine Sarr, l’autore di Afrotopia (edizioni dell’Asino) e promotore con Achille Mbembe degli Ateliers de la Pensée (laboratori del pensiero) che riunisce 30 studiosi e artisti della diaspora Africana a Dakar per riflettere sulle trasformazioni contemporanee del mondo. ecco un brano da un’intervista in occasione dell’uscita del suo ultimo libro “Il sapore degli ultimi metri” (inedito in italiano).

«Questa ragione tecno-strumentale che ha preso il sopravvento era già humanitas, prima di diventare Ragione con una «R» maiuscola, ragione scientifica, ragione tecno-scientifica che è diventata egemonica nel corso degli ultimi cinque secoli. Utile, a volte, in determinati spazi ma che si corrompe quando esula da quelli in cui è pertinente. Uno dei problemi, quando si affrontano le questioni ecologiche, è l’immaginario che sottende il nostro rapporto col vivente. Con il pensiero abbiamo costruito un certo tipo di rapporto del quale non possiamo, temo, disfarci. Sono allora necessarie fratture per cambiare sistema. Senza voler generalizzare, penso che l’America latina, l’Oceania e l’Africa abbiano tuttora mantenuto rapporti con il resto del vivente molto più armoniosi, rapporti di cooperazione, di negoziazione. Direi persino rapporti di “plasticità ontologica” – di co-presenza degli esseri – tra le differenti identità. Le cosmo-visioni di questi popoli, che hanno altri orizzonti di pensiero, autorizzano la discussione, la negoziazione, la condivisione tra le specie. È a tali condizioni che si diventa possibile una unità del vivente –siamo parte del vivente, non ne siamo separati (…)

È dar troppo credito all’Europa pensare che sia stata la culla di un pensiero della riparazione. Dalla mia prospettiva,  mi sembra meno interessante ciò che ha prodotto rispetto a ciò che si genera in altri luoghi del mondo. In particolare tra le popolazioni indigene dell’America latina, dell’Amazzonia, dove da molti anni esiste un profondo pensiero sulla riparazione del vivente. Come anche tra gli  Xhosa, in Sudafrica, con la filosofia morale Ubuntu. Si può criticare la ragione europea per non aver pensato a sufficienza la riparazione, per essersi separata per ciò che chiama la natura. È il senso, credo, dei lavori di Philippe Descola, di Bruno Latour che sono oggi all’avanguardia di un nuovo pensiero ecologico europeo. Ma anche in questo caso credo che si possa criticare una misura di antropocentrismo. In molte regioni del mondo – dall’Equatore, alla Colombia, all’Australia, all’India – si è più avanti e si inizia a ragionare a seriamente di riconoscere diritti alla natura, di farne un soggetto giuridico. Tuttavia poi ci si comincia a chiedere­ – chi parlerà in nome della natura, in quale lingua, e chi sarà autorizzato a parlare in nome di… ? La discussione diventa allora antopocentrica a meno che non si consideri la possibilità di apprendere il linguaggio della natura, la possibilità di vedere che la natura presenta se stessa attraverso le modalità di significazione che le sono proprie. Un’area deforestata o devastata per anni dalle multinazionali ci parla se guardiamo le fotografie di quel sito scattate nel corso di 10 anni. Ma la natura significa senza necessariamente parlare la nostra lingua. Come possiamo dialogare? Ce ne facciamo un’idea quando andiamo dai popoli della foresta del Camerun, dai pigmei: questi gruppi hanno imparato a comprendere tutta una biofonia, il linguaggio degli animali, degli uccelli, cosa che permette la sussistenza. Hanno anche saputo far passare nella loro lingua queste stesse biofonie, questi rumori questi suoni onomatopeici. Così, hanno creato uno spazio condiviso tra due ordini del vivente. Su queste questioni mi sembra che le cosmovisioni africane, australiane, amerindiane siano molto più avanti …»

dal film Baka di Thierry Knauff

Nel suo libro “Abitare il mondo – saggio di politica relazionale” (inedito in italiano) parlando della crisi radicale del nostro immaginario relazionale sempre desolidarizzato e frammentato, Sarr evoca pratiche di resistenza e sottolinea quanto il mondo sia il risultato di intrecci multipli tra umani, istituzioni, la materia, il vivente e il cosmo. Relazioni – dice – che si articolano su più livelli (nano, micro, meso e macro) Scrive:

«Essere significa essere connessi. La relazione ci realizza e ci rivela. Ed è così che si articolano gli esseri, le cose, come pure gli elementi di una totalità. Le relazioni definiscono i rapporti e le modalità di concatenamento per legame, coalescenza, combinazione, risonanza, dissonanza, disgiunzione o fratturazione. La relazione può vampirizzare può essere energivora e cronofaga; ma può anche anche essere nutriente vivificante o feconda (…) è necessario rinnovare l’immaginario relazionale che stabiliamo con gli esseri e le cose che ci circondano: la questione di come rappresentiamo il mondo è cruciale, (…) questo mondo sarà diverso se ne modifichiamo la rappresentazione. 

C’è animismo e animismo

Maschera di elefante Bamileke (Camerun)

Da tempo Achille Mbembe sotiene che abbiamo molto da imparare dagli intrecci multipli che costituivano la trama simbolica di alcune pratiche pre-coloniali. 

Non è questa la sede per dar conto della ricchezza di temi del suo ultimo libro “Brutalismo” ancora inedito in italiano – Brutalismo è il nome con cui Mbembe nomina le forme di potere materiale illimitato del capitalismo neoliberale che intreccia  ragione economica, ragione digitalizzata e ragione neuro-biologica. In questo processo le macchine digitali appaiono nuovamente come oggetti animati e animanti, ma di un’animazione carica di programmazione, e sovente a partire dall’intento di suscitare e estrarre le nostre emozioni per renderle merce.

Questa inedita forma di estrattivismo animista è al centro della riflessione di Mbembe che  in Brutalismo scrive:

«Di fatto, questo nuovo animismo si confonde con la ragione elettronica e algoritmica che lo contiene, lo struttura e lo mette in movimento. Sul piano politico questo nuovo animismo è un groviglio di paradossi. Nel suo nucleo più profondo vi sono potenzialità di liberazione perché forse annuncia la fine delle dicotomie. Ma potrebbe anche servire come vettore privilegiato di quel neovitalismo che anima il neo-liberismo.

Ologrammi in un circo virtuale – Germania

La critica di questo nuovo spirito animista è dunque necessaria. Lo scopo di questa critica sarebbe quello di contribuire alla protezione del vivente contro le forze di ciò che prosciuga. È qui che emerge il valore e la forza significante dell’oggetto africano per il mondo contemporaneo. 

Pensandola a partire a questi oggetti, la critica diventa anche critica della materia considerata come principio meccanico. A tale principio meccanico l’oggetto africano oppone quello del respiro che è proprio ad ogni forma di vita. In realtà gli oggetti africani sono sempre stati la manifestazione di ciò che si situa al di là della materia. Fatti di materia sono in realtà un appello stridente al suo superamento e alla sua trasfigurazione. Nei sistemi africani di pensiero, l’oggetto è un discorso sull’aldilà dell’oggetto. Agisce, insieme ad altre forze animate, nel quadro di un’economia rigenerativa e simbiotica. Una critica rigorosa della  civiltà nella quale siamo immersi che è una civiltà in corso di smaterializzazione, ne trarrebbe profitto e ispirazione. E cosa ci insegnano quegli oggetti se non che la vita non basta a sé stessa? Che non è inesauribile… Il neovitalismo, invece, sostiene che la vita sopravviverà comunque ad ogni sorta di situazioni estreme se non catastrofiche. Secondo questa logica diventa allora sostenibile ogni sorta di distruzione. Il neovitalismo non accetta di vivere le perdite.[Dovremmo prendere atto che] man mano che l’umanità prosegue la sua corsa sfrenata verso gli estremi, spoliazione e deprivazione coinvolgeranno tutti. È sempre più probabile che ciò che ci viene tolto sia inestimabile e che non ci potrà mai essere restituito. (…)

Le culture africane precoloniali erano ossessionate da ogni sorta di domande ontologiche e metafisiche. Queste domande riguardavano i confini della soglia,  le frontiere della vita del corpo e del sé, la tematica dell’essere e della relazione, il soggetto umano come assemblaggio di entità multiple in cui la possibilità e il compito di condurre azioni efficaci era un compito da riattualizzare ogni volta. Come dimostrano i miti, le letterature orali e le cosmogonie, tra le grandi domande umane poste c’erano quelle che riguardavano il mondo al di là del percettibile, del corporeo, del visibile e del cosciente. Il cosmo stesso era immaginato nella forma di un viaggio continuo verso l’ignoto. Tutto si giocava agli incroci, là dove si pensava che si condensasse un sovrappiù di realtà. Il tempo degli oggetti non era estraneo al tempo degli umani. Gli oggetti non erano visti come entità statiche. Erano piuttosto percepiti come degli esseri mobili e viventi, dotati di proprietà magiche, originali e a volte occulte. Erano depositari di ogni sorta di energie, di vitalità e di potenzialità e, in quanto tali, invitavano costantemente alla trasformazione e persino alla trasfigurazione. Alcuni oggetti (…) appartenevano al mondo degli incroci e del rituale. Servivano come soglie a partire dalle quali si poteva misurare il grado di trasgressione dei limiti esistenti. Riuscire a varcare tali limiti permetteva di accedere agli orizzonti infiniti dell’universo. “Fare cosmo” significava operare senza sosta nei campi di ciò che è reversibile, reticolare e fluido (…)

Oggi parrebbe che i mondi digitali parlino quasi senza mediazione a questo inconscio arcaico o alla memoria più profonda di queste società. (…)

Con la digitalizzazione del mondo, sia l’umano che il divino vengono scaricati in una moltitudine di oggetti tech, di schermi interattivi, e di macchine fisiche. Questi oggetti sono divenuti veri e propri crocevia in cui visioni e credenze, le metamorfosi contemporanee della fede, vengono forgiate. Da questo punto di vista le religioni tecnologiche contemporanee sono un’espressione di animismo. Ma ne divergono anche nella misura in cui sono governate dal principio dell’artificio mentre l’animismo ancestrale era governato dal principio della forza vitale. E tuttavia, nell’animismo ancestrale, né la vita né il corpo esistevano senza l’aria, senza l’acqua e senza un terreno comune. Nei sistemi africani precoloniali per esempio, la vita il corpo e dunque l’umano erano fondamentalmente aperti all’aria e al respiro, all’acqua e al fuoco, alla polvere, al vento, agli alberi e alla loro vegetazione, Agli animali e al mondo notturno. Ogni cosa era viva all’intersezione dei linguaggi. Quest’essenziale porosità riconosceva anche una essenziale vulnerabilità. Si pensava che l’avventura umana sulla terra si giocasse nella realtà dell’aria e del respiro. Un’avventura che poteva durare sono se veniva fatto spazio alla rigenerazione dei cicli vitali. La vita consisteva nel riassemblaggio inclusivo di ogni cosa. Il nucleo della questione era la ricomposizione, non l’eccesso.

In quanto luogo di nascita dell’umanità, l’Africa ha forse sperimentato più esperienze catastrofiche di altre parti del globo. E ha appreso che la catastrofe non è un evento che accade una volta per tutte e che poi se ne va dopo aver fatto suo sporco lavoro…. Per molti popoli è stato un processo infinito di accumulo e sedimentazione.

In queste condizioni, aprire canali per un mondo che abbia più respiro potrebbe essere il fondamento di una nuova etica necessaria nell’epoca virale, nell’epoca in cui si espande una nuova forma di colonialismo: il nano-tecno colonialismo.

L’età del brutalismo – vale a dire dell’effrazione permanente – è un’età in cui macchine sognanti e forze catastrofiche diventeranno attori sempre più visibili nella storia. L’aria che respiriamo sarà sempre più carica di polveri, gas tossici, sostanze, rifiuti, particelle e granulosità – in breve di ogni sorta tdi emanazioni. Invece di uscire dal corpo grazie alle tecnologie di visualizzazione immersiva, si tratterà di tornarvi, specialmente a partire dagli organi più esposti all’asfissia e al soffocamento.

Tornare al corpo significa anche tornare alla terra, intesa non come territorio ma come un evento che in fin dei conti sfida fondamentalmente i confini degli Stati. Intesa in tal modo la terra appartiene a tutti i suoi abitanti, Senza distinzione di razza origine etnicità, religione, o persino specie. Non presta alcuna attenzione alla cieca individualità o alla nuda singolarità. Ogni corpo, per quanto possa essere singolare reca su di sé e in sé, in un essenziale porosità, i segni non di una diafana universalità ma di ciò che è in-comune e incalcolabile.

Entanglement

Ho estratto alcuni temi da quadri di ragionamento molto più articolati sulla costellazione del presente per sottolineare quanto le forme di un’immaginazione ecologica implichino un’interdipendenza complesse.  Non a caso la questione dell’intreccio viene sovente nominata come “entanglement”. Un termine preso a prestito dalla fisica quantistica e che nomina quel legame di natura fondamentale che esistente fra le particelle subatomiche. Un grande divulgatore come Carlo Rovelli ne parla così: “Fra un evento e l’altro, spazio, tempo, materia ed energia sono sciolti in una nuvola di probabilità (…) la dinamica che lega gli eventi è probabilistica (…) Emerge una struttura elementare del mondo che non esiste nello spazio e non evolve nel tempo…in cui il pullulare di quanti genera attraverso una fitta rete di interazioni reciproche, spazio, tempo, particelle, onde e luce… la struttura delle cose nasce dall’informazione reciproca che tessono le correlazioni tra le regioni del mondo.» 

Nella sua struttura più profonda la realtà non è essenzialista ma genera in ogni istante il mondo. Dovremmo forse iniziare a comprendere in che modo facciamo parte di questo processo.

Per un’ecologia della riparazione

Condivido per Clinica della Crisi l’importante contributo che Achille Mbembe ha tenuto per il programma pubblico delle Diasporic Schools, organizzato dal Kunstenfestivaldesarts di Bruxelles e che preannuncia la direzione delle sue attuali ricerche. 

Qui il link al video per chi vuol seguire in inglese

La responsabilità della trascrizione, della traduzione dei titolini e delle foto è mia…

xx  fabrice

Secondo Science gli elefanti sono cruciali per l’ecosistema africano dato che trasportano semi per 65 chilometri

La terra mondo in comune e l’eredità diasporica

 «Quello che vorrei fare è condividere con voi un insieme di riflessioni la maggior parte delle quali derivano dal mio lavoro di ricerca attuale sui Futuri della vita e sui Futuri della Terra e da quello che chiamo l’emergere di una coscienza planetaria, un termine che vorrei ben distinguere dai vecchi concetti di universalismo e anche di cosmopolitanismo. 

La riflessione su un mondo comune e su come farlo nascere  è da   molto tempo in relazione alla questione diasporica perché l’emergere delle comunità diasporiche è stato visto come una manifestazione di quello che un mondo comune potrebbe essere, fondamentalmente grazie al movimento delle persone, alla loro mobilità.

Suggerirei che uno dei modi per pensare il fatto diasporico e l’idea di un mondo in comune – che dopo tutto resta un’aspirazione – è di tornare a qualcosa che noi umani tendiamo a dare per scontato e cioè il fatto della nostra esistenza sulla Terra. 

In realtà la Terra è il terreno stesso della nostra esistenza. Noi viviamo sulla terra e da nessun’altra parte, perché di tutti i pianeti la Terra è l’unico – almeno per il momento – dove forme complesse di vita sono possibili. 

Tutto ciò potrebbe sembrare irrilevante ma non lo è – perché? Perché abbiamo ereditato un modo tradizionale di pensare in cui la terra è prevalentemente considerata come una ricchezza naturale che sta lì per esser conquistata e di cui impossessarsi. E il risultato di questo processo di parcellizzazione della Terra viene codificato come legge –  il fine ultimo di questa codifica  è  di determinare quale sia la propria parte, e chi si debba appropriare di quale territorio. In altre parole la terra sta lì per essere presa, per essere suddivisa, per essere posseduta e infine per essere saccheggiata. Dopo aver preso possesso della nostra parte di terra creiamo frontiere che devono segregare, dividere chi sta dentro e chi sta fuori e di fatto questa è la storia della espansione e della colonizzazione Europea dal quindicesimo secolo in poi. 

Il mondo esterno all’Europa è stato dunque considerato per tutti questi secoli come uno spazio libero,  a nel senso di un’area aperta all’occupazione europea dove guerre di conquista, espropriazioni e se necessario sterminio potevano accadere.

Vorrei suggerire che se siamo davvero interessati a un’idea di un mondo comune o a un mondo in comune dovremmo abbandonare questo genere di concezioni della terra.

Dovremmo invece ripensare la Terra non come una massa di materia – certo è anche quello – ma come  una casa e un rifugio per tutti quelli che la abitano, umani e non umani. 

Quello che dobbiamo fare è immaginare delle modalità di essere nel mondo e di abitare il mondo in cui ci occupiamo consapevolmente della terra.

Ma cosa ha a che fare tutto ciò con le comunità diasporiche?

Vorrei condividere una serie di osservazioni riguardo alla più antica moderna diaspora africana quella verso l’America. A causa dei lunghi secoli di schiavitù da questo punto di vista la terra non è quasi mai stata considerata nel contesto delle diaspore come quella vasta estensione che è  – come quel deposito di vita abbondante che la Terra di fatto è o in ogni caso dovrebbe essere. 

Invece a causa di questi secoli di schiavitù la Terra è stata interpretata come uno spazio di segregazione piuttosto che come uno spazio di rifugio e protezione.

Questo è stato particolarmente vero negli Stati Uniti.

Ora come sapete uno sviluppo cruciale negli Usa è stata la nascita nel 2012 dell’ organizzazione Black Lives Matter. Ciò è accaduto dopo la morte di Trayvon Martin e Michael Brown Non sono stati gli unici a perdere la vita, la lista dei morti è quasi infinita. 

Il che solleva la questione di perché alcune morti segnino l’epoca o la nostra immaginazione più di altre. Ma questa è una cosa che potremmo discutere più tardi.

Quel che voglio dire è he non c’è modo che la questione della Terra, della sua abitabilità, o che la questione delle diaspore africane odierne possano essere affrontate senza riferimento a Black Lives Matter, una organizzazione ombrello che riunisce tutti quelli che vogliono protestare contro le uccisioni arbitrarie di neri in America. Un fenomeno tra l’altro, quello dell’uccisone di neri che non è assolutamente limitato agli Stati Uniti.

Ora devo aggiungere che ci sono molti tipi diversi di diaspore. Diaspore religiose,  diaspore commerciali, diaspore intellettuali. La specificità delle nostre è la storia di diaspore che nascono come conseguenza del commercio di schiavi e dunque diaspore nate da traumi storici profondi, nate sotto il segno di una delle forme più profonde di disumanizzazione, e sterminio, nate   cioé nel crogiuolo di due cose, il capitalismo e il razzismo. 

Potete dunque vedere che anche solo col suo nome Black Lives Matter esprime la preoccupazione per come vengono trattati gli afrodiscendenti americani.

Ma al di là del caso specifico degli Usa, mi sembra che Black Lives Matter esprima anche una preoccupazione sul modo in cui le nostre diaspore in particolare e le persone nere in generale ovunque siano, incluso in Africa, siano deprivate di dignità e di diritti umani fondamentali.

Ovunque guardiamo,  africani e afrodiscendenti devono far fronte a una maggior vulnerabilità fisica all’arresto, alla deportazione,  all’incarcerazione, a essere fermati, a essere immobilizzati e questa è una realtà di massa. C’è evidentemente un modo in cui le vite sono maggiormente superflue – basti pensare alle sparatorie gratuite della polizia, agli atti gratuiti di aggressione e insulto. 

Aggiungerei che tutto ciò è una caratteristica cruciale non solo del paesaggio americano contemporaneo, ma anche del paesaggio nigeriano, keniota, camerunense, brasiliano, francese, tedesco, belga, italiano – si tratta di una questione planetaria.

Storicamente tutte queste caratteristiche sono caratteristiche delle società coloniali e schiaviste. Sappiamo bene che in queste società i neri non venivano considerati cittadini. Dal punto di vista giuridico erano governati da statuti speciali. Per esempio con i cosiddetti “Black Codes” durante la schiavitù e i “Codes de l’indigenat” durnate il colonialismo. 

Entrambi i codici testimoniano che queste categorie di persone non avevano importanza – lasciandoci in eredità la percezione che se un domani la  loro dignità e diritti umani fondamentali fossero anche riconosciuti potrebbero essere molto facilmente ignorati. 

Entrambi questi testi giuridici – Black Codes e Native Codes – incorporarono nella legge una precarietà fondamentale, istituzionalizzando l’ imprevedibilità delle vite… per quale motivo? Si presumeva che [queste vite] appartenessero a una diversa categoria di umani.  Questa era una caratteristica cruciale delle società schiaviste e coloniali… società in cui i linciaggi erano comuni, in cui la giustizia dei vigilantes era la norma, specialmente nel XIX secolo: 

Così,  riflettere sulle diaspore africane ci obbliga a riflettere sul genere di legame di continuità che esiste tra il presente e il colonialismo e la schiavitù, ma con questo legame di continuità intendo sottolineare una realtà onnipresente, quella per cui in un solo istante, a causa della sola nerezza, la vita possa  essere drammaticamente minacciata o tolta, la realtà dunque di ciò che può esporre a una morte prematura… è questo che intendo quando parlo di un legame ininterrotto tra il momento presente e il colonialismo e la schiavitù. 

Così per ripensare la modernità diasporica da una prospettiva africana o nera dobbiamo riconoscere questa insicurezza fondativa a cui le persone di origine africana devono far fronte – e non importa dove siano – per la loro sicurezza fisica e per difendere la loro integrità corporea e psichica e le condizioni che sono costretti a sposare in contesti resi sempre inospitali e inabitabili.

Questa è la prima serie di considerazioni che volevo condividere rispetto al tema di un globalismo riparativo.

Il razzismo come disordine relazionale fondante che tenta di sopprimere la colpa e la possibilità di riparare

«Lasciatemi ora passare a una seconda serie di osservazioni:

Qui devo dire che ripensare la moderna diaspora africana e ripensare da questa prospettiva l’idea di un mondo comune o di un mondo in comune significa una seconda cosa: se,  come sostengo,  le logiche di inospitalità e inabitabilità sono state così centrali nella nostra esperienza del mondo , nella nostra esperienza come abitanti della terra, è anche vero che le diaspore e le comunità africane non si sono rassegnate a questo stato di fatto.

Voglio dire che innumerevoli lotte politiche dei neri o a favore dei neri in generale hanno certamente tentato di garantire i diritti civili e politici fondamentali. E nella maggior parte dei casi – anche se non in tutte – queste lotte sono state vinte. Ma come è dolorosamente evidente, la schiavitù e il colonialismo possono anche essere stati aboliti formalmente, dovrei aggiungere l’apartheid a questa trinità, ma il razzismo non è stato eliminato – nemmeno in Sud Africa il paese dove i neri sono maggioranza e governano su un numero significativo di bianchi molto potenti, potenti in termini di capitale economico, finanziario, materiale,  culturale e intellettuale. 

Potenti anche nei termini delle dense connessioni con cui controllano i luoghi centrali della forza lavoro. Ora il razzismo non solo non è stato eliminato ma aumenta ovunque nel mondo. Questa è una questione che dobbiamo affrontare con la massima urgenza se siamo seri nel desiderio di costruire un mondo in comune o un mondo comune. 

La questione che non possiamo più rimandare è  di chiederci perché il razzismo,  in questo caso il razzismo bianco contro i neri ha acquisito il genere di durata che ha oggi, una durata che sembra resistere ad ogni molteplice evidenza, scoperta o qualifica comprese quelle addotte dalla scienza e dalla stessa ragione. Chiederci perché – con forse la sola eccezione della casta – solo il razzismo – per utilizzare un termine coniato dal mio amico Arjun Appadurai – chiederci perché il razzismo sia un tale mostro di resilienza.

Quali sono i meccanismi che mantengono in piedi il razzismo? Credo che Black Lives Matter ci obblighi a ripensare le politiche diasporiche nella nostra epoca, le politiche di una Terra futura, da questo punto di vista, dall’esperienza fondamentale dell’insicurezza e della vulnerabilità. E’ chiaro che, per molti di noi, queste preoccupazioni sono per così dire ontologicamente prioritarie rispetto a qualsiasi politica di integrazione o di diritti civili. Perché queste preoccupazioni descrivono una realtà politica più profonda dove l’integrità corporea, fisica e psichica – non è mai del tutto sicura. Significa vivere con la minaccia permanente che il tuo stesso corpo, che la tua integrità corporea e psichica possano esserti sottratte in qualsiasi momento. Si tratta di un’incertezza radicale che circonda la logica dell’ esistenza.  E questo mi fa dire che queste questioni ontologiche siano prioritarie rispetto a ogni logica di integrazione e di lotta per i diritti civili. E di fatto a me sembra che il lavoro che fa il razzismo nelle sue modalità più elementali e primitive e nelle sue radici inconsce, il lavoro che fa è di costantemente attivare, di costantemente aggiornare, di costantemente rieditare e rimobilitare queste minacce, le minacce permanenti all’integrità fisica, corporea e psichica. Il razzismo consiste proprio in questo, questo è il lavoro che sente di dover mettere in atto.

Direi che questo fa del razzismo una forma di disordine relazionale – un disordine relazionale nel senso di una prospettiva che non riesce a riconoscere i neri o le persone di discendenza africana, di riconoscerle come esseri umani singolari per quello che sono e non come emanazione di bisogni bianchi, di desideri bianchi, di fantasie bianche. 

Questo è il primo motivo per cui sostengo che il razzismo, il razzismo contro i neri in particolare sia una forma di disordine relazionale. l razzismo nella sua tenacia e apparente intrattabilità dev’essere confrontato in questo modo. Perché il razzismo non è solo una costruzione sociale, certamente è anche quello, ma non solo, come dicono alcuni è come quella crepa nella Liberty Bell (famosa campana simbolo del movimento abolizionista che  ha effettivamente una crepa mNdT).

Il razzismo è fondativo per il tipo di ordine mondiale reso possibile ed ereditato dalla schiavitù e dal colonialismo. Il razzismo non solo abita le menti ma ha anche una realtà psichica propria, le proprie regole e logiche. Ma ancor più importante, i meccanismi che potrebbero allentarlo restano segregati nell’inconscio. Ciò che testimoniamo è un’insaziabile domanda di razzismo nel nostro mondo contemporaneo. Per quale motivo le cose vanno così? Se non perché il razzismo serve a sopprimere la colpa? Perché soffoca la possibilità di identificazione empatica e da questo punto di vista il razzismo  è un apparato psichico cruciale nell’assicurare – per esempio nel caso degli Usa –  che non venga messa in discussione quella idea di una nazione suprematista bianca che esclude ogni idea di riparazione. 

Quando parlo di una domanda  insaziabile di razzismo nel mondo oggi, a cosa alludo se non alla possibilità di non sentirsi in colpa, di essere razzisti in modo del tutto impenitente. 

Il divenir nero del mondo – disarmare l’appartenenza

Vorrei ora affrontare una terza serie di considerazioni prima di passare alla discussione.  All’inizio parlavo dell’esperienza diasporica africana. il fatto è che con le politiche anti musulmane, con le politiche anti migratorie quello che stiamo sempre più testimoniando dappertutto è il dispiegamento ovunque di una straordinaria crudeltà contro popolazioni minoritarie a prescindere dal colore, dal colore della pelle. E’ ciò che ho definito nella mia ‘critica della ragion nera’ come la potenziale universalizzazione della condizione nera. Il modo in cui i neri venivano trattati si applica sempre più a persone che da un punto di vista fisico e visibile non sono considerate nere. Mi sembra che qui si rinnovi la vecchia questione di determinare chi appartenga e chi non appartenga a un dato contesto.

Per alcuni solo quelli di un medesimo ceppo vi appartengono. Per altri quelli che appartengono sono quelli a cui è stato concesso un documento ufficiale dallo stato. E da quel documento scorrerebbero diritti e vita. 

Quello che stiamo testimoniando è un modo di armare l’appartenenza.  

E tutto ciò non accade nel vuoto accade in un momento in cui innumerevoli regimi antidemocratici vanno al potere ricevendo una sorta di investitura democratica, accade in un tempo i n cui lo stato si prende il potere assoluto di definire l’affliazione,  l’appartenza, e l’esistenza legale, e questo processo si sta sviluppando a un ritmo senza precedenti. 

Per rendere tutto ciò possibile, è necessario uno sforzo sistematico che prenda di mira alcune categorie della popolazione… 

Lo stato diventa lo sponsor di ogni sorta di violenze nel prendere di mira i leader di alcune comunità, le loro istituzioni, imponendo la loro segregazione in nome della pace e della sicurezza. In altre parole numerosi stati stanno sperimentando l’organizzazione di orde, mobilitando dispositivi legali e burocratici polizieschi e militari, nell’intento di ridurre numerosi strati della popolazione a esseri a malapena umani. 

Questo accade anche in un momento in cui proliferano i conflitti. E tuttavia la possibilità di accordarsi sulla legittimità o illegittimità dei conflitti stessi si sta erodendo. Il numero di confitti che possono esseri contenuti all’interno di un processo politico, quel numero sta diminuendo ovunque molto rapidamente. Di conseguenza posizioni opposte non possono più coesistere all’interno di un ordine discorsivo e istituzionale e ancor meno all’interno di uno spazio simbolico condiviso. 

Quello che sto sottolineando è che nella nostra epoca le fondamenta normative minime condivise per una vita democratica stanno evaporando e insieme ad esse le soglie di coerenza minima e di accuratezza empirica – nel senso che non siamo più d’accordo su ciò che è vero e su ciò che è falso , su cosa sia finto e… non che fossimo d’accordo su tutto in passato, ma vi erano determinati meccanismi attraverso i quali quel genere di disaccordi potevano essere regolati. 

La novità è che punti di vista antagonisti e quasi inconciliabili sulla realtà sociale tendono a prevalere, e le democrazie liberali parlano sempre meno nel linguaggio della negoziazione e sempre più in quello della soppressione. Cosa che mi porta a farmi delle domande sul futuro della dimensione politica, e, potremmo aggiungere, delle politiche.

Sembrerebbe che abbiamo ereditato due concezioni cruciali della dimensione politica. Nella prima accezione, la politica includeva la dimensione conflittuale che era considerata intrinseca alle relazioni umane, coinvolgeva decisioni che comportavano o di raggiungere un consenso o di arrivare a una scelta tra alternative 

Ora ci sono sempre più conflitti per i quali non esistono soluzioni razionali o per i quali non può essere raggiunto un consenso razionale. Le alternative stesse non sono semplicemente conflittuali – sono inconciliabili

Questo era il primo concetto del politico, ereditato dalla modernità. Ce n’era un altro in cui il compito della dimensione politica era quello di organizzare una coesistenza pacifica, di renderla possibile. E la coesistenza pacifica era resa possibile nella consapevolezza che le condizioni che la rendevano possibile erano sempre instabili, e che il ritorno della conflittualità, se volete,  era sempre possibile. 

Oggi,  simili ordini politici e sociali,  apparentemente stabili,  affrontano la possibilità di cader preda di spirali di violenza alcune delle quali sono inconciliabili e allo stesso tempo ineliminabili.  Mi sembra che in tal modo le democrazie liberali finiscano in un vicolo cieco a meno che non riescano a rigenerarsi e uscire dal dilemma mortale tra inconciliabilità e ineliminabilità. 

Per sfuggire a questo dilemma abbiamo bisogno di impegni minimi condivisi – forme di vita se preferite o schemi concettuali. Dobbiamo concordare che una serie di credenze collettive non sono accettabili come nel caso del razzismo, e ce ne sono molte altre a partire dal sessismo e così via. 

Credo anche che ci tocchi re-immaginare una sorta di impulso a riparare. Se avessi tempo, potrei condividere con voi l’esempio del Sudafrica non perché sia un successo – non lo è – ma perché ha proposto un’immagine di abitabilità e coesistenza che sarebbe un errore trascurare.

Lasciatemi concludere brevemente – abbiamo assolutamente bisogno di costruire un mondo comune e un mondo in comune… quel mondo in comune,  quella comunanza,  dev’essere composta,  dev’essere messa insieme,  elemento su elemento,  attraverso molte prove e conflitti – e non dovrebbe essere limitata agli umani ma dovrebbe includere tutti gli elementi o entità ritenute parte di questa composizione di un mondo comune. Solo così sopravviveremo sulla Terra e prolungheremo la nostra storia in questa parte dell’universo.»

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Ecologie della cura e della riparazioneaggiustare ciò che è rotto

Domanda: «Hai detto altre volte che dobbiamo fare simultaneamente un lavoro di critica e di proposta – in questo contesto della costruzione di un mondo in comune quali proposte intravedi?  Recentemente hai parlato del “diritto universale al respiro” –  possiamo connettere questa cosa allo slogan di Black Lives Matters “I can’t breathe” ed estenderlo alla biosfera…?» 

«Più che vere e proprie proposte c’è un lavoro preliminare che va fatto per comprendere che cosa sta davvero accadendo – cosa ci impedisce di immaginare un mondo in comune? Dato che di questi tempi ovunque si guardi c’è una richiesta insaziabile di razzismo e apartheid cioè di separazione e sopravvivenza, dovremmo chiederci – Che forma prende e perché siamo giunti a questo punto della nostra storia come umanità sulla terra? – perché in questo momento la domanda di razzismo è così alta? 

Questo lavoro è essenziale e questo dovrebbe far parte del lavoro della critica. 

L’altra parte del lavoro della critica è la cura – le ecologie della cura a anche della riparazione. Ci sono miriadi di piccoli esempi di comunità e di individui che cercano di rimettere insieme quello che è stato rotto. Se viaggiamo nel continente africano,  quello che più mi colpisce quando sono a Nairobi,  a Lagos,  a Kinshasa,  Abidjan,  Dakar,  Douala è il numero di persone occupate a riparare qualcosa. Di fatto,  una gran parte del mondo per restare vivo deve riparare qualcosa,  riparare delle scarpe,  una bicicletta una macchina,  una casa,  un pezzo di stoffa certamente moltissima conoscenza deve essere coinvolto in questo lavoro di riparazione,  certamente un diverso concetto di comunità e di coesistenza tra umani e oggetti deve essere vivo in queste pratiche – mi sembra un immenso laboratorio e se lo esploriamo con l’attenzione che merita cominceremo a vedere emergere modelli che ci allontanano da quel dilemma perverso che il mondo sta sperimentando in questo momento.»

La sfida planetaria alle pragmatiche dell’identità 

Domanda «In questa prospettiva in cui si ripensa l’agency come riparazione come vedi il pensiero coloniale rispetto a un’ apertura non solo in termini di critica dell umanesimo o dell’universalismo europeo ma in una   prospettiva aperta sul futuro o come critica a un modello unico di progresso?» 

«Devo dire innanzitutto che non mi considero un pensatore postcoloniale malgrado i miei dinieghi molta gente mi considera tale – si vede che quando lo dico non mi prendono sul  serio …ma devo dirlo seriamente che non sono un pensatore postcoloniale anche se non ho nulla contro il pensiero postcoloniale o decoloniale anzi mi verrebbe da difenderlo,  vedendolo assediato in alcune sfere dell’opinione ideologica o politica europea, specialmente in quei luoghi in cui è accusato di tutto e di nulla,  come nel caso dell’accusa poco misurata di complicità con l’antisemitismo … detto questo, il pensiero postcoloniale ha passato troppo tempo a pensare alla differenza. E, di fatto, ciò che mi distingue dal pensiero postcoloniale è che non sono così interessato alla differenza e all’identità penso che per certi versi siamo stati catturati dalla pragmatica dell’identità e della differenza e in questo momento specifico della storia della terra del pianeta nell’era dell’Antropocene mi sembra che il potenziale critico e politico che abbiamo debba essere diretto verso ciò che è comune perché le sfide che abbiamo di fronte è di natura planetaria – non è una sfida che si pone solo all’umanesimo è una sfida a quello che chiamo in francese “le vivant”  – il vivente – e se non siamo in grado di ricalibrare il nostro pensiero in relazione al futuro della vita o al futuro del vivente allora la nostra storia sulla terra potrebbe anche aver fine  – così se il pensiero postcoloniale  vuole mantenere la sua utilità dovrebbe fare questo passaggio dalle politiche dell’identità e delle differenze alla politica di ciò che è in comune.»

Aprire l’Africa a sé stessa

Domanda: «Rispetto alle questioni diasporiche nel presente come metti in relazione il momento presente con i momenti storici del passato come la negritudee il movimento panafricano – quella storia può insegnarci qualcosa in termini di politiche della diaspora?»

«Da un certo punto di vista credo che il compito che abbiamo – quelli di noi che si definiscono africani – che si viva o no sul continente perché l’Africa è ovunque e non scherzo quando dico che l’Africa è ovunque e che l’Africa è in movimento – così il compito che abbiamo è di prendere sul serio una serie di passaggi,  innanzi tutto di prendere sul serio  il fatto che l’Africa è il suolo originario  la prima casa dell’umanità… e lo dico in un senso filosofico perché ci sono molti conseguenze importanti che derivano da questa proposizione. L’umano, è qui che l’umano è apparso per la prima volta e l’Africa dev’essere letta da questa prospettiva,  nei termini della nostra responsabilità – verso noi stessi naturalmente, cura di noi stessi – ma anche come responsabilità verso la razza umana nel suo complesso, le due cose vanno insieme e siamo in qualche misura responsabili,  essendo stati il luogo di nascita dell’umano siamo responsabili per il destino di ciò che è umano, tanto che la svolta planetaria della condizione africana mi sembra cruciale dal punto di vista intellettuale e politico. La seconda cosa  in relazione al panfricanismo e di tutti i movimenti che hai menzionato, la seconda cosa è che nessun africano o persona afrodiscendente assicurerà la sua integrità fisica, corporea psichica  in nessuna parte del mondo se il continente non diventa la casa e il territorio e luogo di rifugio e protezione per il proprio popolo… se continuiamo a brutalizzare  il nostro stesso popolo sul continente ci sarà ancora più brutalizzazione altrove senza alcuno scrupolo – così che dobbiamo trasformare il nostro continente in un luogo di speranza, una casa, un rifugio per chiunque stia fuggendo dall’oppressione a prescindere dal luogo di provenienza o a prescindere da chi lui o lei.  Così dobbiamo fare questa inversione, dobbiamo avere un posto sulla terra dove essere neri non sia uno svantaggio – e un modo di farlo sarebbe di abolire le frontiere che abbiamo ereditato dal colonialismo e di trasformare il continente in un vasto spazio di circolazione perché questa è stata la nostra storia, una storia di mobilità forzata in cui ci siamo dovuti muovere su percorsi obbligati e ora è giunto il momento di muoverci liberamente. 

Così mi sembra che il panafricanismo  abbia posto un problema di liberazione ed emancipazione umana – e dev’essere ricalibrato e ripensato a partire dall’idea di aprire il continente a sé stesso.» 

La vita futura del pianeta – le basi di una convergenza cruciale

Domanda : «quale discorso e quali pratiche sarebbero più efficaci nel creare un più ampia alleanza antirazzista per un mondo in comune in questa epoca antropocenica al conte​​​mpo nazionalista e globalizzata?»

«Sono d’accordo sulla necessità di creare convergenze e alleanze – se leggiamo di fatto  prospettive come quelle di DuBois la maggior parte dei nostri antenati, che erano implicati nella lotta globale contro il razzismo, nella lotta abolizionista per l’abolizione della schiavitù, per l’abolizione dell’apartheid, per l’abolizione della schiavitù – nella questione dell’abolizionismo tutti coloro che erano coinvolti in quelle lotte insistevano sulla necessità di alleanze – la morte di George Floyd ucciso su un marciapiede in Minnesota ha portato a un grande scontento in cui i neri si sono mobilitati a non solo i neri – e possiamo intravedere,  a partire da questi elementi ancora frammentari,  l’embrione di una coscienza planetaria. Affinché queste alleanze solidali possano essere ricostituite dovranno essere costruite su un fondamento e questo fondamento deve avere a che fare con la vita futura del pianeta in una sorta di convergenza tra le lotte globali contro il razzismo e le lotte globali per il pianeta,  perché di fatto le due cose storicamente sono sempre state connesse. Di fatto il razzismo è sempre stato storicamente per lo meno dalla nostra prospettiva storica una forma di disastro ecologico – Così dobbiamo immaginare nuovi modi di nutrire questo inizio di coscienza planetaria emergente che metterebbe insieme diverse forme di lotte per la vita nella nostra epoca.»

Secondo Science gli elefanti sono cruciali per l’ecosistema africano dato che trasportano semi per 65 chilometri

C’è spazio per tutti

Domanda – «quale puo’ essere il ruolo di noi meticci in questo processo? una domanda dalla Colombia»

«Guarda c’è un ruolo per tutti non solo per neri bianchi per persone cosiddette miste – il punto è uscire dalla gabbia di ferro delle identità razziali o della razzializzazione che assegna alle persone una prigione dalla quale non possono fuggire e se provano a fuggirne pagano un prezzo molto alto – la prospettiva che cerco di coltivare è quella del deconfinamento l’abolizione di tutte le frontiere comprese le frontiere identitarie e il recupero di una coscienza planetaria che gli impulsi di riparazione possono contibure  a far nascere Così in questo genere di processo c’è spazio per tutti.»

Attingere all’archivio profondo – il ruolo dell’Africa

Domanda – «cosa pensi dell’accelerazione dei capitali di investimento in Africa e come metterli in relazione con la necessità di sviluppare un nuovo genere di co-umanizzazione?»

«E’ una grossa questione complicata Quello che credo veramente è he dobbiamo rimettere sul piatto la possibilità di chiederci se esista un cammino per l’Africa un cammino di uscita dalla povertà che non si fondi su ulteriori danni all’ambiente – e credo che sia possibile.  Credo che buona parte dell’accelerazione dei capitali di investimento sul continente siano basati sulla predazione ed estrazione delle ricchezze dei nostri suoli. Dobbiamo istituire una rottura con quella modalità predatoria ed estrattivista e con quel modello di abitare il mondo. Abbiamo già detto come immaginare un diverso rapporto con la Terra basata sull’idea di cura, l’idea che possiamo essere custodi della Terra non solo per noi stessi ma anche per le generazioni che verranno dopo di noi. Un modello che poggia sull’idea di un equilibro tra umani e non umani che di fatto era una grande parte della metafisica africana nel periodo che precedette il colonialismo. Per dire che non entriamo nel merito di queste questioni da sprovveduti. Abbiamo un archivio profondo che non abbiamo sfruttato sufficientemente per disotterrare un certo numero di proposizioni cruciali non solo per noi ma per il mondo in generale…continuo a pensare a quell’ingiunzione intellettuale che è anche artistica – come   fare cioè per offrire una via d’uscita dall’impasse presente una via d’uscita per tutti che esprima anche la responsabilità per il fatto che siamo i più anziani l’Africa esprime questa posizione di precedenza, voglio rispondere così alla tua domanda.

Farsi carico dei conflitti rifiutando l’ingiunzione a uccidere – rifornire le riserve immaginative.

Un’ ultima domanda –  «dobbiamo liberare la nostra immaginazione e lo spazio dell’immaginario liberandoci dalla coscienza vittimaria e persino nel modo di immaginare tecniche e tecnologie oggi tecniche che  a volte erano anche preesistenti – qual è lo spazio dell’immaginario nell’arte cosa può fare l’arte o la narrativa o pratiche di questo genere?»

Credo che l’immaginazione – come dice sempre il mio amico Arjun Appadurai – sia una delle risorse più rare e preziose specialmente oggigiorno.

 Per questo la politica della critica  deve rifornire le riserve immaginative perché esse sono severamente erose dalle forme contemporanee del capitalismo e dalle forme contemporanee di brutalizzazione – le due cose vanno insieme. Il razzismo è una delle forme di brutalizzazione – quello che fa il razzismo è impoverire l’immaginazione perché si diventa prigionieri dei demoni delle finzioni narrative e delle fantasie e delle ansietà e paure di qualcun altro. In quel contesto le arti in genere devono svolgere un ruolo di riparazione come ecologie della cura e della riparazione: l’arte dev’essere un ingrediente fondamentale nella costituzione di quelle ecologie, il compito è quello di liberarci dalle finzioni narrative di qualcun  altro, smettere di essere il prodotto della narrativa altrui e in quel senso mi sembra che possiamo prendere in carico quel disordine relazionale di cui ho parlato, un disordine relazionale – che significa andare nella direzione dell’altro e anche di noi stessi in un processo di guarigione che non è romantico ma politico e si fa carico del conflitto al di fuori dell’ingiunzione di uccidere –  la metterei in questi termini.

I sogni della pandemia

Car* se cliccate sul link che segue si aprirà “L’archivio dei sogni” – una bozza di “instant graphic novel” compilata durante il lock down su alcune tipologie di sogni raccolti nel cuore della pandemia. E una sorta di compagno di viaggio di “Sognare la Terra” (Exòrma 2020).  Ci mette un attimo a caricare ma dovrebbe aprirsi – fatemi sapere se si legge e i vostri feedback! xx fab