Neomaterialism

Neomaterialism vs materialism

Neomaterialismo e materialismo storico

Materialism and neomaterialism.

 Marx has had the great merit of emphasising the importance of the material and economic basis of human life: that is, the way wealth and inequality are framed by the modes of production. Which depend on who controls the means of production… So the dialectics of ‘class’ relations between “master/owners” and “Labourers/ Slaves” is crucial in bringing forth the consciousness of inequality. Insomuch that Historical materialism, or the ‘materialist conception of history’, placed the relations of production at the core of a potential evolutionary human process.

Today, it however possible to amplify and find new meanings in Marx’s following phrase: “the production of ideas and of representations (…) is directly intertwined with the materiality of life“. At the time this coincided with the perception that the quality of life – and of consciousness as well – depended on a different distribution of the material goods produced by human labour and its transformation of natural “resources”. It was never questioned whether matter itself might be something other than the material availability of ‘things’ and ‘objects’ . Work and its fruition were re-claimed as the “right” of thinking “subjects” towards the goal of an equalitarian improvement of life for all humans. The aspiration to a generous rebalancing in the ruins of capitalism should not be discarded.

Today, we also know that thoughts and representations are intertwined not only with a better income but with the biome, with the climate, with viruses, with a kicking back nature which is no longer perceived as the mechanical and inanimate ‘thing’ that Descartes considered to be a free gift to the supposed superior performative and cognitive status of humans.It was inconceivable that subalterns (if so defined only from material wealth) had resources, sensibilities, sensorialities, forms of solidarity and implicit rights even where the Enlightenment’s normative and universalising architecture had not reached them or where the word ‘rights’ did not even exist. From a number of different sources today emerges evidence of the systemic complexity, the interweaving, the bio-intelligence of an interdependen trelational ecosystem, right down to the innermost fibres of matter (as witnessed by the astonishing philosophical reflections of physicists dealing with the infinitesimal fractals of reality.

Today, neomaterialism can read Marx’s phrase on how feeling and thinking are intwined with life and matter but in a much wider sense, bringing attention to the materiality of life from the standpoint of  a different relationship with the biological and sociological metabolism of the planet beyond our arrogant hubris of species.  

This is not to deny the aspirations of equality and justice of the old materialism (beyond the illusion of an intrinsic evolutionary certainty). I remember as I revisited my teenage infatuation for Mao Tse Tung that the  “Great Leap Forward” of the industrialising campaign in China had as its own mantra “War on Nature!”

Neo-materialism brings matter and things back into an animated and entgangled field that critically interrogates the mono-sensoriality and epistemologies of the West. Contemporary philosophical and ecosystemic thinkers, posthuman feminisms, attention to indigenous worlding, animistic non binary perspectives recover a different idea and practice of power in the margins. It’s the emerging contemporary challenge on how to find “home” on this planet.

Walter Benjamin had an inkling of this in this limpid passage from a 1935 letter quoted by Hannah Arendt in her collection of benjaminian ntexts ‘L’angelo della storia’ (Giuntina, 2017):

“For the rest, I do not feel any need to find after all an explanation for this condition of the world: many cultures and civilisations have already disappeared amidst bloodshed and horrors. Of course one must hope that this planet will host one day a civilisation that has abandoned blood and horrors – indeed I tend (…) to think that our planet is awaiting this. But it is terribly problematic to know whether we will be able to present it this gift on its one hundred millionth or four hundred millionth birthday. Because if not, the planet itself will bring us the Last Judgment, as punishment for only absent-mindedly wishing it well.” 

Of this absentminded wishful-thinking care we will discuss (and of much else) with Bayo Akomolafe in his “These Wilds” Italian tour. In person and where possible online.  Details soon…

Materialismo e neomaterialismo.

 Marx ha avuto il grande merito di sottolineare l’importanza delle basi materiali ed economiche della vita degli umani: il modo cioè in cui ricchezza e la disuguaglianza vengono generati a partire dai modi di produzione. Che dipendono ovviamente da chi controlla i mezzi di produzione in una dialettica di rapporti di “classe” tra padroni e lavoratori che genera consapevolezza della disuguaglianza. Il materialismo storico, o “concezione materialista della storia”,  poneva dunque al centro delle possibilità evolutive degli umani i rapporti di produzione.


Oggi però è possibile amplificare e trovare nuovi significati nella frase di Marx:  la produzione delle idee e delle rappresentazioni (…) è direttamente intrecciata con la vita materiale All’epoca ciò coincideva con la percezione che la qualità della vita dipendesse da una diversa distribuzione dei beni risultanti dalla trasformazione delle “risorse” naturali, ma non veniva mai messo in discussione che la natura stessa non rappresentasse altro se non la possibilità che le “cose” materiali gli “oggetti”  fossero a disposizione dei “soggetti“ umani se solo lavoro e fruizione si fossero intrecciate equamente per migliorare la qualità della vita di tutti gli umani. E oggi resta vivo il desiderio di generare diversi e più generosi equilibri nelle crescenti rovine del capitalismo.

Oggi sappiamo anche che i pensieri e le rappresentazioni sono intrecciati non solo con il reddito ma con il bioma, con il clima, con i virus, e che una natura che batte un colpo non è più quella “cosa” meccanica e inanimata che Cartesio riteneva donata alla supposta superiorità performativo-cognitiva dell’umano. Non era concepibile che i subalterni (se così definiti solo a partire dalla ricchezza materiale) avessero risorse, sensibilità, sensorialità, forme di esistenza solidali  e impliciti diritti anche là dove l’architettura normativa e universalizzante illuminista non erarrivata o dove la parola “diritti non esisteva nemmeno.  Da ogni dove arrivano oggi testimonianze della complessità sistemica, dell’intreccio, della bio-intelligenza di un’ecosistema interdipendente, relazionale fin nelle più intime fibre della materia (come testimoniano le sorprendenti riflessioni filosofiche dei fisici che occupano dei frattali infinitesimali della realtà.

Oggi il neomaterialismo rilegge diversamente la frase di Marx su come il sentire e il pensare siano intrecciati con la vita e la materia, perché riporta attenzione sulla materialità della vita a partire da una diversa relazione con il limite – con il metabolismo biologico e sociologico del pianeta al di là della nostra arrogante hubris di specie.

Non si tratta di negare le aspirazioni di uguaglianza e giustizia del vecchio materialismo (al di là di ogni illusione di un’intrinseca meccanica evolutiva). Ma ricordo rivisitando la mia fascinazione di quattordicenne per Mao che nel “grande balzo in avanti” della campagna di industrializzazione cinese lo slogan era “guerra alla natura”.

Il neomaterialismo riporta in campo la materia e le cose in un campo animato e intrecciato che interroga criticamente la mono-sensorialità e le epistemologie dell’occidente. Il pensiero filosofico ed ecosistemico contemporaneo, i femminismi postumani, l’attenzione ai saperi indigeni, il recupero post-binario dell’animismo come una diversa forma di potere dai margini rappresentano il campo emergente della sfida contemporanea su come abitare il pianeta.

Del rischio di epistemicidio legato a un’insensibilità ecologica aveva avuto sentore Walter Benjamin in questo limpido pasaggio da una lettera del 1935 citata da Hannah Arendt nella raccolta di testi “l’angelo della storia” (Giuntina, 2017):

“Per il resto non avverto tutto sommato nessun bisogno di trovare una spiegazione per questa condizione del mondo: sono già scomparse moltissime culture e civiltà tra sangue e orrori. Naturalmente bisogna augurarsi che un giorno questo pianeta ospiti una civiltà che abbia abbandonato sangue e orrori – anzi propendo (…) a pensare che il nostro pianeta stia aspettando questo. Ma è terribilmente problematico sapere se noi saremo capaci di presentargli questo regalo per il suo centomilionesimo o quattrocentomilionesimo compleanno. Perché altrimenti sarà lui a portarci il giudizio universale, come punizione per avergli fatto solo distrattamente gli auguri.” 

Di questa cura distratta per il pianeta discuteremo con Bayo Akomolafe durante il suo tour italiano di presentazione di “Queste terre selvagge oltre lo steccato”. Dettagli a breve!

Le politiche peri-ferali dell’altrimenti

Bayo Akomolafe

disegno di Victor Brauner

Da un post di Bayo sulle politiche “periferiche” (o peri-ferali) dell’altrimenti per ripensare il modo con cui consideriamo neurodiversità,  identità e in fondo l’idea di razza come una dimensione stabile e non come una postura legata a dimensioni socio-materiali (che include il modo con cui la società considera e si relaziona con le “cose”).

CENTO NOMI PER L’AUTISMO

“In una recente conversazione con la favolosa autrice Katherine May nel suo podcast, How We Live Now, abbiamo ipotizzato che ci potrebbero essere centinaia di nomi diversi da “autismo”, tutti preferibili  al problematico termine adottato da Eugene Bleuler. 

Naturalmente, quando nel 1908 lo psichiatra svizzero Eugene Bleuler, noto per aver coniato un numero significativo di termini alle nostre moderne narrazioni sulle malattie mentali, diede il nome di “autismo” a una curiosa condizione prevalentemente caratterizzata da un ritiro in se stessi, non poteva prevedere che quel nome sarebbe avrebbe attecchito a tal punto. 

Bleuler scrisse in “Dementia Praecox” di una condizione schizofrenica definita da un “distacco dalla realtà” e da una “predominanza della vita interiore”. Il nome “autismo”, da “autos”, cioè sé, concretizzava lo sguardo di Bleuler su questa condizione: la “persona” autistica sarebbe stata incapace di connettersi con il mondo e avrebbe dimostrato un’incapacità a diventare un vero e proprio sé. Il soggetto autistico veniva considerato un automa insensibile e senz’anima, caratterizzato da una forma di auto-riferimento scollegato dalla realtà. 

Oggi, le immagini popolari dell’autismo promuovono la figura di un legnoso automa, insensibile e intrappolato nella sua fredda bolla. May, che si considera autistica, ricorda di aver sentito il mondo intensamente da bambina, chiedendosi perché tutti gli altri le sembrassero morti. 

Mio figlio, Kyah, non si sente affatto “distaccato” dalla realtà; anzi, in confronto a lui, sembrerebbe che lo siano tutti gli altri. Kyah conosce intensità affettive esotiche e troppo sfumate perché la mia postura neurotipica possa rilevarle. Kyah sente… e sente intensamente. Per Eugene Bleuler, l’ ”anima” andava cercata dentro il corpo. Per Kyah e Katherine, l’ “anima” è ovunque, è una forza desiderante  preindividuale che rimodella, convoca, si muove e si intreccia  attraverso confini porosi, creando sulla sua scia la realtà. Forse è per questo che Kyah manifesta una visualità queer, preferisce guardare lateralmente dall’angolo degli occhi,  in modalità peri-ferica, piuttosto che nella  comoda frontalità della “vista bianca”.

Così, quando Katherine e io abbiamo iniziato a pensare a termini alternativi e depatologizzanti per rinominare l’autismo, abbiamo giocato con nomi come “micelismo” e “rizomismo”, tentativi un po’ impoacciati di collegare alle menti umane la vita delle piante, le iniziative dei funghi e le attività ecologiche. Dopo l’intervista, molti altri  termini hanno bussato alla mia porta per candidarsi: c’era il politicamente potente “dis/umano”; “granchiesco” – che sarebbe piaciuto a Enyd Blyton e che celebra il modo in cui mio figlio cammina spesso “di traverso” in pubblico; i giocosi “coddiwomplism” [sbalzarellismo] e “tippie-toes” [detto di chi balla sulla punta dei piedi] , così come il termine caro a Deligny, “aracneo”. 

Poi c’era il lovecraftiano “Cthulhu”, l’archetipico “Ercolismo” (dal nome di Ercole, che in alcuni ambienti incarna simbolicamente l’autismo, dato che Ercole nasce come improbabile amalgama di divino e mondano) e l’Ecatonchirismo, oltre a molti altri nomi che mi venivano proposti da quel corteo di parole che si accalcava alla porta.

Ma il mio preferito è stato il silenzio che è venuto dopo, alla  fine di quella febbrile processione. Non un silenzio vuoto: un silenzio che applaudiva dolcemente, ma che pure mi ricordava che nessuno di quei nomi funzionava del tutto. Ogni nome è un rischio, un’immagine che taglia fuori qualcos’altro. Nello spazio di quel silenzio, posso riconoscere che anche la patologia ha i suoi usi e che, nel tentativo strategico di rinominare e ripensare il termine di Bleuler, rischiamo di romanticizzare l'”autismo”, di decontestualizzarlo o di inserirlo in una narrazione eroica soffocante e a sua volta  violentemente normativa. 

Forse cento nomi non sono sufficienti. Forse un nome solo basta e avanza. Ma dobbiamo continuare a navigare in queste tensioni senza sperare in approdi definitivi Resto vulnerabilmente convinto che “qui” stia accadendo qualcos’altro, e che questo Dio sconosciuto che immortaliamo con il nome di “autismo” segnali un punto critico, un’oscillazione ad alta densità nella città che si condensa in quel luogo sottile dove qualcosa di eccezionale preme sulla membrana che lo separa dal familiare. Credo che qui ci sia una politica, una pedagogia, una prassi che non può essere ricondotta a termini come riabilitazione, patologia e spicciola concretezza – così come le sostanze psichedeliche che introducono individui pixelati nei loro più vasti corpi, nella loro anima diasporica, non desiderano essere strumentalizzate  sul piano strettamente medico o ricondotte  alla grammatica del trauma. 

In ogni caso, sto scrivendo la storia di un giardiniere che si arrabbia nel tentativo di dare un nome a una pianta che non rientra nel suo sistema classificatorio. L’ho intitolato “Il manicomio dei sani di mente”.

Bayo Akomolafe

[da un post su fb]

***

L’identità Nera non è una strategia di emancipazione. Semmai è stata una utile strategia di compromesso. Ci riuniamo attorno a tracce melaniniche ed esperienze eterogenee per tessere una narrazione unificata e prescrittiva che imponga le nostre rivendicazioni allo Stato, e poi speriamo in riforme abbastanza generose da includerci in quelle libertà che lo Stato stesso sponsorizza. Il problema è che – ancora una volta – le libertà che cerchiamo sembrano ironiche ricapitolazioni della nostra sottomissione. Avremmo bisogno di un’altra nozione di nerezza, una nozione non identitaria che includa campi più ampi, che colga i modi ecologicamente vibranti in cui i corpi sono mediati e modulati e orientati e attivati al di là dell’identità. 

Questa linea di fuga è un diventare neri. Non un diventare “Neri” [la maiuscola come rivendicazione identitaria], ma un diventare “neri”. Un diventare-mostri. La licenza di potersi smarrire, di deviare dalla rotta. Di diventare impercettibili. Qualcosa che va oltre la necessità di costruire nuove istituzioni, di ottenere vittorie legislative, di ricevere risarcimenti o ottenere maggiore rappresentanza e visibilità. Il diventare nero di cui parlo è una sperimentazione di nuove affinità sensoriali, di nuove soggettività, di nuove intelligenze. È una soglia verso nuove posture a cui alcuni corpi, identificati come neri o meno, possono avvicinarsi a partire da specifiche condizioni sociomateriali. 

La nerezza di cui parlo è una neuro-indeterminazione (che precede sia la neurodiversità che la neurotipicità). E questo diventare neri cristallizza anche una diversa relazione con la neurodiversità, invita a una politica di sperimentazione, di accompagnamento, di animalità periferica (o meglio, peri-ferale) – non di adattamento forzato. Questa nerezza non ha altro. Non è un modo di essere, un’identità, una fase, un punto stabile da raggiungere. È piuttosto la continuità delle cose che ci libera drammaticamente dal peso del piglio colonizzatore bianco e dal suo bisogno di nominare tutto. È una virtualità immanente che scardina la prigione individuale.

[Estratti dal saggio ‘Black Lives Matter, But to Whom?’ (“Le vite nere contano, ma per chi?”)].

Èsù al crocevia

Il contributo Yoruba a una esperienza decoloniale e postumana del Sé

Bayo Akomolafe

Wifredo Lam — Sombre Malembo, Dieu du carrefour -1943

In molte cosmologie africane, una dinamica di chiamata-e-risposta dialogica fa parte del modo in cui guardiamo il mondo. Nella musica yoruba, per esempio, è molto probabile che il cantante intoni i suoi versi all’interno di un’ecologia di molte altre voci che sostengono il suo canto, rispondono alle sue domande o enfatizzano una traccia o un testo che il cantante sta tentando di sviluppare. È qualcosa di molto diverso dal rapporto di dipendenza che una band ha con il suo cantante. L’agire musicale poggia su questa continua mediazione, particolarmente evidente nella musica juju e nell’highlife. A volte l’accompagnamento musicale sottostante passa in primo piano, in un rovesciamento della prospettiva che esprime un fluido rifiuto dei ruoli statici. Questo è il ritmo che impregna il nostro mondo.

Non è presente solo nella musica, ma anche nel modo in cui balliamo e nel modo in cui comunichiamo.  (…) Mi sono spesso accorto di essere più portato e più capace di eloquenza poetica quando parlo davanti a un pubblico che può mugolare la sua approvazione, o vocalizzare la sua presenza in un qualche modo.

Quando gli Yoruba rispondono con asé  [ashé]… aderiscono a questa modalità di chiamata-e-risposta ma includendo le cose stesse. Asé. solitamente parafrasato come il cristiano “Amen” o il “Così sia” dell’etimologia ebraica, è qualcosa di più di un assertivo voto di assenso. Nella tradizione Ifá è una filosofia che informa ogni cosa, che propizia il cambiamento, che motiva la terra a respirare e i cieli a vomitare pioggia. 

Alcuni studiosi definiscono l’asé come “un dar forma; una legge; un comando; un’autorità; un’ingiunzione; un’imposizione; un potere; un precetto; una disciplina; un’istruzione; un canone; un vincolo; un documento; una virtù; un effetto; una conseguenza; un’imprecazione”. Imhotep scrive che asé è una parola straordinariamente complessa, una parola polisemica che “non significa nulla di particolare, eppure investe tutte le cose, esiste ovunque come garanzia di ogni attività creativa”,  e suggerisce che il suo tema di fondo sia il “potere”.

In altre parole, asé è il suono dell’euforica “dimensione partecipativa” di tutte le cose. La tonalità dell’incontro. La premessa del cambiamento e la firma della speranza. È la cosmologia della via di mezzo, quella che suggerisce che il potere non sta né in questo né in quello, non si nasconde nelle forme della lingua e nemmeno in un lontano altrove. Il divino è disseminato in ogni cosa. Asé potrebbe benissimo allinearsi con la forza performativa della polvere.

Vale la pena di ricordare che asé è considerato la forza vitale custodita da Èsù, la divinità-trickster del pantheon Yoruba, che nell’abracadabra delle forzate e superficiali interpretazioni coloniali venne rapidamente equiparato a Satana, forma diabolica funzionale alla sete cristiana di dualità. Ma Èsù è qualcosa di più del diavolo e non deve essere sostituito da quel fantasma che infesta le nozioni cristiane di male incarnato, come dice bene Funso Aiyejina:

La definizione di Èsù rimasta nell’immaginario popolare euro-cristiana lo accusa di essere il diavolo/Satana. Questa definizione è stata elaborata dal vescovo Samuel Ajaiyi Crowther (1806-1891) che, nella sua pionieristica traduzione della Bibbia in yoruba, aveva scelto Èsù  come equivalente yoruba del Satana cristiano. In A Dictionary of the Yoruba Language, pubblicato nel 1913 dalla Church Missionary Society Bookshop di Lagos, in Nigeria, Èsù è stato tradotto con la parola diavolo, una definizione che verrà ripetuta, anche se accanto ad altre definizioni yoruba più tradizionali, nel Dictionary of Modern Yoruba della London University del 1958.

Aiyejina prosegue elencando l’incredibile lista di successi di Èsù, il suo curriculum cosmico.

Nella filosofia yoruba, Èsù emerge come trickster divino, artista del travestimento,mistificatore, un ribelle che sfida l’ortodossia, un mutaforma e una divinità esecutrice. Èsù, il custode dell’asé divina con cui Olodumare ha creato l’universo; una forza neutrale che gestisce l’equilibrio tra poteri soprannaturali benevoli e malevoli;  ilcustode dei responsi oracolari di Orunmila. Se Èsù non aprisse i portali del passato e del futuro, Orunmila, la divinità responsabile della divinazione, resterebbe cieca. In quanto forza neutrale, si colloca a cavallo di tutti i regni e agisce come fattore essenziale in ogni tentativo di risolvere i conflitti tra forze contrastanti e tuttavia contigue. Anche se a volte viene rappresentato come capriccioso, Èsù non si fa trascinare da alcuna emozione. Sostiene solo chi compie i sacrifici prescritti e dunque agisce in conformità con le leggi morali dell’universo stabilite da Olodumare. In quanto divinità dell’orita – una parola che viene spesso tradotta con crocevia, ma che in realtà è un termine più complesso che si riferisce anche al cortile di una casa, o al portale dei vari orifizi corporei – Èsù ha il compito di consegnare i sacrifici alle divinità a cui sondestinati. Gli Yoruba ritengono che, senza il suo intervento, nessun sacrificio, per quanto sontuoso, potrà essere efficace. Filosoficamente parlando, Èsù è la divinità della scelta e del libero arbitrio. Così, se Ogun è la divinità della guerra e della creatività. E Orunmila quella della saggezza. Èsù è la divinità della chiaroveggenza, dell’immaginazione e della critica – letteraria e non. Èsù, nel ruolo di trickster che scombina i fili del ripiglino da cui tutto emerge, è la personificazionedi asé. Èsù il Messaggero Divino tra Dio e l’uomo. Èsù siede al Crocevia. Èsù l’Orisha che offre scelte e possibilità, Èsù. il guardiano, il guardiano della soglia. Èsù salvaguarda il principio del libero arbitrio. Èsù il custode di asé.

Sono particolarmente felice di sapere che Èsù siede al crocevia, e dove altro potrebbe sedersi, in realtà? Se asé si articola come risposta, nell’enigmatico mezzo della realtà, nel frattempo che connette, allora il suo custode non potrà che essere un fenomeno del crocevia. E il fatto che Èsù si trovi proprio lì, al crocevia, mi sembra evocare un giocoso compagno concettuale: la nozione di diffrazione – quel fenomeno ottico che “perturba la nozione stessa di dicho-tomia – di ciò che resterebbe scisso– grazie a quel presunto atto singolare di differenziazione assoluta, che vorrebbe fratturare questo da quello, ora da allora”, come suggerisce Karen Barad. Questo concetto di diffrazione corrisponde a una nozione decoloniale di sé e di identità che Barad riprende citando Trinh Minh-ha:

l’identità così come viene intesa da una certa ideologia del dominio è stata a lungo una nozione fondata sull’idea di un nucleo essenziale e autentico nascosto alla coscienza, che richiede            l’eliminazione di tutto ciò che viene considerato estraneo o non fedele al sé cioè non-io, altro. In tale concezione l’altro, quasi inevitabilmente opposto all’io, sottomesso al dominio dell’io, è sempre condannato a restare la sua ombra, proprio mentre tenta di diventare suo pari. L’identità, così intesa, suppone che si possa tracciare una linea di demarcazione netta tra io e non-io, tra lui e lei; tra profondità e superficie, o tra identità verticali e orizzontali; tra noi qui e quegli altri laggiù.


Questo brano è tratto da Queste terre selvagge di là dallo steccato  di Bayo Akomolafe, a maggio in libreria per i tipi di Exòrma

Bianchezza / Nerezza

Clinica della crisi/ecologia della cura nasce nel desiderio di ripensare i lemmi dei nostri luoghi comuni ,delle parole d’ordine stantie e delle parole che ancora ci mancano. Bayo Akomolafe in questi due brani tratti dai suoi webinar e blog (https://www.bayoakomolafe.net) riprende i temi dell’identità e della razzializzazione nel contesto di un più vasto intreccio con il pianeta e con il divenire degli umani. Sono temi che ricordano molti spunti di Achille Mbembe, e prima di lui di Frantz Fanon ma l’intreccio delle radici Yoruba di Bayo in dialogo con la ricchezza del pensiero contemporaneo permettono di esplorarli nuovamente come altrimenti emergenti dalle urgenze del presente. Le foto delle maschere sono tratte dal lavoro di Phyllis Galembo “Maske” scattate in Africa Occidentale e nella diaspora a Haiti e Cuba.

Bianchezza

«La modernità coincide con la “bianchezza”.

Ma cos’è la bianchezza? Non è una qualità o proprietà personale, così come le nostre politiche tentano di di definirla, la bianchezza è un sistema,  un sistema razzializzato che produce corpi e li colloca gerarchicamente. Mi piace dire che i corpi bianchi sono diventati bianchi per via della “bianchezza”. Non  è che i corpi nascano bianchi o neri o marroni, ma che quelle identità sono costruite a partire da una metrica politica che attribuisce delle “proprietà”.

Se che le cose ìdel mondo non appaiono senza relazioni, il mio corpo e i vostri corpi emergono a partire da questa metrica politica e veniamo introdotti in un mondo che ci dice di Tizo e Caio …..  non tanto che “sono” bianchi ma piuttosto che la “bianchezza” arruola i loro corpi, usa i loro corpi così come usa il mio e lo colloca all’interno dello schema di ciò che conta: “tu sei nero, tu sei bianco, tu sei caucasico” e così via….

Dunque, la bianchezza è un sistema geo-socio-culturale razzializzato che produce corpi e li colloca all’interno di una gerarchia di privilegi o possibilità di accesso alle produzioni di stabilità della modernità. Quello che stiamo dicendo è che la “bianchezza” eccede l’individualità umana. La bianchezza non dipende da una proprietà ereditata da un singolo corpo, o da singoli corpi, ma è un sistema, un’organizzazione.

Per iniziare a cogliere le tracce [culturali] della bianchezza potrebbe essere d’aiuto la storia archetipica di Baldur, il mito nordico di Baldur, per capire come agisce e cosa genera la bianchezza, e cosa ciò abbia a che fare con una certa idea di modernità.

La storia di Baldur deriva dal mito di un dio nobile e bellissimo, figlio di Freya e di Odino. Un giorno una profezia arriva alle orecchie di Freya e di tutti quanti, di fatto annunciando la morte di Baldur. Tutti hanno paura, specialmente la madre, Freya, così fa quello che in quelle circostanze penso farebbe ogni madre dotata di quella sorta di potere divino, viaggia in lungo e in largo per tutti i Sette Regni, va da ogni cosa umana e non umana supplicando ognuna e ognuno di non fare del male a suo figlio, di non ferire Baldur. Va dai tavoli e dalle aquile e dalla luce del sole e da montagne e leoni e da ogni singola cosa che ha un nome, e anche da quelle che un nome non ce l’hanno ancora. Ma ne dimentica una, dimentica di visitare il vischio. Così quando  Loki entra in gioco in questo intricato copione narrativo egli cerca di capire come fare a uccidere Baldur. E quando scopre che il vischio è stato trascurato da questo dispositivo, lo prende e ci costruisce un’arma, la punta contro il calcagno di Baldur, e lo uccide. E poi la storia da lì continua con la discesa agli inferi di Baldur e tutto il resto.

Ma a me interessa perché può aiutarci a  a capire come agisce la bianchezza – la bianchezza non è semplicemente un’identità…la bianchezza è un  progetto di formattazione della terra, un progetto di gerarchizzazione. Un progetto che colloca i corpi, compresi quei corpi che vengono “identificati” come bianchi in un dispositivo coloniale che non sta più funzionando per nessuno, neri, o bianchi o marrone. Così la bianchezza non equivale semplicemente ai corpi bianchi, la bianchezza è una determinata configurazione del potere sulla terra che ci ha messo seriamente nei guai, e dobbiamo parlarne.La storia di Baldur ha a che fare con il desiderio di trascendenza. Baldur cerca di sfuggire alla finitudine, alla morte, e la madre cercatdi proteggere il corpo del figlio dalla materialità delle cose, dalla perdita, della sub-scendenza, dal declino e della discesa nella terra.

È una ricerca di purezza, è quello che aveva notato Hillman – un grande psicologo – quando aveva definito la bianchezza un “culto della purezza.” È l’aspirazione alla supremazia, è una delle possibili figure che assume l’universalismo, un supposto desiderio di “libertà”, un’idea di indipendenza e salvezza, che immagina di poter risolvere tutti i problemi se solo ogni cosa venisse gestita e nominata. E tutto questo ha a che fare con l’idea che  l’umano sia un’unità discreta e distinta, esclusiva e escludente. Se posso tagliar fuori tutto il resto, tutto quello che c’è nel mondo, allora posso crearmi una sovranità privata ed interiore. È per questo che la modernità fa tanta fatica a pensare alle cose come a qualcosa di vivo, non può pensare che il mondo sia vivo. È necessario che il mondo sia morto, ha bisogno che il mondo sia una “risorsa naturale”. Per poter proteggere Baldur deve fare in modo che ciò sia così a tutti costi. È questa la pulsazione archetipica della modernità e della bianchezza.

Questa è l’idea di una modernità bianca. E’ in questo modo che la bianchezza è connessa alla storia euro-americana, e alla colonizzazione. E’ tutto ciò si intreccia con la rivoluzione industriale, con il diniego di altre “agentività” terrene… è qui che la narrativa dell’espansione incontra la metanarrativa del progresso. La modernità nasce da un desiderio di diniego. Ed è connessa a un campo traumatico. 

L’Antropocene rappresenta  la sua struttura temporale geologica, un’era in cui l’umanità ha acquisito una tale superiorità da esser diventata la specie dominante sul pianeta, a tal punto che converte il mondo a sua immagine e somiglianza. Quando i geologi dicono che dall’Olocene siamo passati all’Antropocene chiamano questa era con il nostro nome, [l’anthropos = l’umano] per ricordarci dei danni che iabbiamo imposto al mondo. Un’era caratterizzata dal caos climatico, dalla disuguaglianza razziale, dalla morte e dalla sofferenza. La modernità bianca è caratterizzata dalle superfici cicatrizzate del capitalismo estrattivista. 

Queste non sono solo nobili proposizioni teoriche, queste sono le terre da cui vengo, le terre che ricevono il lato oscuro, e le ombre della rettitudine morale dell’occidente. Racconto spesso ai miei amici quando viaggio negli Stati Uniti o in Europa, e vedo quanti, con molta diligenza, si affannano a differenziare la spazzatura, e penso a ciò che non viene raccontato a queste care persone che solo il 7 per cento di ciò che si suppone venga riciclato, viene davvero riciclato. Il resto, il 93 per cento viene spedito nei miei paesi: in Ghana, in Nigeria, e diventa il nostro parco giochi. Ho giocato sulle discariche di rifiuti dell’occidente. Le narrazioni che mancano a quei cittadini che fanno del loro meglio per fare la cosa giusta è che ci sono mondi nascosti, mondi sottili, mondi insorgenti, che sono da moltissimo tempo i destinatari di queste pratiche moralistiche. E anche questo è capitalismo estrattivista,  è il modo in cui i cittadini vegono illusi rispetto ai veri costi del lusso in cui vivono, rispetto ai costi di ciò che considerano “ordinario”. La modernità è costellata dai corpi degli schiavi africani trasportati oltre Atlantico ed è anche associata al caos climatico. Non solo dal riscaldamento globale del carbonio ma da un clima globale didisperazione. Se giuardate alle statistiche aumenta sempe più la perdita di fiducia nell’autorità costituita, la perdita di fiducia nello stato-nazione, la perdita di fiducia nella democrazia, perdiamo fiducia nelle cose che sono state il fondamento della civiltà moderna. Questa è anche un opportunità credo, ma allo stesso tempo causa di allarme, perché tutto sta andando a pezzi.

Quello che voglio sottolineare  è che la modernità è un vero e proprio “progetto immobiliare”,  per dirla con le parole di W.E. DuBois, il sociologo del XIX secolo. È qualcosa di più di uno stato di “cattura”, che si prende corpi neri e marrone, ma ha a che fare con la conversione del mondo in un’immagine pietrificata,  si diffonde a macchia d’olio, al di là della piantagione, si apre e sanguina in  concetti come la giustizia, l’individuo, il cittadino… Perché anche quando gli schiavi in fuga hanno trovato libertà, hanno rapidamente scoperto che la libertà non poteva essere concepita al di fuori di un’architettura bianca e al di fuori delle strutture concettuali che la nutrivano. Persino la libertà era prigione.

Perché chi fuggiva e rivendicava la libertà, doveva rivendicare la cittadinanza che è un’altra delle forme della modernità bianca. Non parlerò delle riserve indiane, o di innumerevoli azioni compiute per creare un mondo apparentemente stabile, razionalizzato.  Certamente le strategie coloniali  ebbero effetti devastanti a partire dalle appropriazioni territoriali e dai che le legittimavano ma per ora mi fermo qui: all’individuo, al soggetto “cittadino”,   l’individuo, il feticcio della modernità. Ciò che la modernità ama al di sopra di ogni altra cosa è l’idea dell’individuo “sano”, rimosso dal e isolato dalle terre selvagge di là dagli steccati.»

Nerezza

Nerezza non è un sogno pan africanistica associato a visioni di futura supremazia, ritorno dall’esilio e coerenza nazionalista e non parla nemmeno di una nerezza afrocentrica, statica ed essenzialista. Non si limita al concetto identitario antagonista associato alle dinamiche dell’identità nelle comunità Afro-diasporiche, e non è una promessa disincarnata e universale di emancipazione. In sintesi, questa nerezza non è una creatura dello Stato o della giustizia. Questa nerezza, pure secreta dalla storia e dalle storie e dai lutti di corpi neri, è l’olio votivo che illumina la fine di un “mondo”, cercando crepe nel vasto territorio umano (l’Anthropos), e promuovendo pratiche decoloniali fuggitive. Tale Nerezza sconcerta: è un invito a intrecciare i fili della complicità senza cadere nella comoda trappola della colpa; un invito a mappare il desiderio e a fare i conti con il fallimento. Un invito a combattere – non con i poteri stabiliti che disprezziamo, ma con le paradossali collusioni con cui sosteniamo tali poteri. 

Badate. Proprio come l’autismo non ha solo a che fare con eventi neurologici nella testa di un figlio, ma con i modi con cui produciamo e nominiamo i corpi e i mondi che li supportano escludendo altre corporeità, la Nerezza non riguarda solo persone nere (così come la bianchezza non riguarda solo i bianchi), anche se emerge dall’attenta considerazione dei contesti, delle esperienze e dei viaggi di entrambi. La nerezza è una cripistemologia [epistemologia che nasce da saperi considerati disabili/crippled NdT] che considera l’uomo, l’Anthropos, e ciò che fa, ciò che produce, ciò che esclude; la nerezza è la ricerca di nuove disabilità, di nuove fedeltà corporee. Riguarda un mondo macchinico che definisce alcuni colpi speciali – e altri corpi come appendici superflue, vicine all’animalità, e che non giungeranno mai alla gloria e alla nobiltà di quei corpi che si identificano come corpi bianchi: una nobiltà grevemente sostenuta dal diniego censorio della vitalità del mondo materiale. La nerezza non equivale agli slogan riprenderci il nostro, vendicarci, essere uguali, essere risarciti. Non equivale a quella opposizione normativa che rientra in fondo nell’architettura del progresso bianco. Riguarda invece il modo in cui corpi rimangono invischiati nei mondi che creano, nei mondi che li creano – riguarda le aperture, le crepe, che spesso emergono, quasi miracolosamente, riguarda i portali attraverso i quali possiamo intuire con un’intensità percettiva quasi animale che una diversa via è possibile.

 La nerezza non è solo una opposizione avversa e prescrittiva che interferisce con il progresso biancoè l’abbondanza nei confronti della quale siamo già indebitati – anche se non sappiamo bene come riconoscerlo. Parlo elle piume di polvere ricche di fosforo e delle diatomee morte negli antichi laghi dei deserti africani che volano al di là dell’Atlantico per nutrire i polmoni amazzonici del pianeta (e fanno eco ad altri viaggi che attravesarono l’Atlantico quattrocento anni fa); parlo della porosità degna-di-gratitudine che turba ogni vocazione alla permanenza.

 La nerezza – questa lettura elettrica e temporanea di ciò che  emerge attraverso la storicità della presa in schiavitù e della colonizzazione – è la possibilità estatica che anche la bianchezza si stia mutando in altro.

Tenerezza radicale (Audio/Video)

Ricordate Consensualizzare con Tenerezza radicale? pubblicato nel blog qualche mese fa?

“Tenerezza radicale” è un testo di Dani d’Emilia scritto insieme a Vanessa Andreotti, il testo fa parte del progetto del collettivo Gesturing Towards Decolonial Futures (GTDF) volto a attivare pratiche politiche di cura riconfigurando le connessioni tra ragione, affetti e relazionalità. Ne ho curato la traduzione, la lettura e la scelta improvvisata delle immagini (povere) a partire da quello che avevo sul cellulare. aggiungendo la sequenza centrale di danza tratta dallo spettacolo “fuori campo” con regia di Guido Mannucci e coreografato da Riccardo Novaria. Ballerina Lucia Mauri. Il clip con zaghroutah è interpretato da Wiisal Houbabi.

ecco il link al video…

https://youtube.com/watch/DDvUKF7OcO0

e cliccando di seguito potete leggere di nuovo il testo

https://clinicadellacrisi.home.blog/2022/01/29/co-sensualizzate-con-radicale-tenerezza/