contro la grande disfatta del mondo

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«il primo passo verso la costruzione di un mondo alternativo dev’essere il rifiuto dell’immagine del mondo impiantata nelle nostre menti e di tutte le false promesse usate ovunque per giustificare e idealizzare il bisogno criminale e insaziabile di vendere.»

Nel 2001 veniva pubblicato sulla rivista Lo Straniero un articolo di John Berger che mi sembra ancora straordinariamente efficace nel descrivere lo stato delle cose. E’ stato ripubblicato da Bollati Boringhieri nella raccolta Modi di Vedere (2004). Il brano era stato scritto all’epoca di ‘un nuovo mondo è possibile’ , prima del G7 di Genova, prima dell’11 settembre, prima di Trump, di Elon Musk e dei viaggi su Marte, prima della pandemia e della guerra… Ma dai sette frammenti di cui parla Berger capiamo che questi eventi hanno alle spalle una storia o un’ombra lunga – l’ideologizzazione del religioso, la battaglia per recuperare agency  ma compensando la perdita di referenti simbolici che permettono di leggere e interpretare il mondo. Insieme alla critica serrata alla logica intrinseca dell’economia finanziaria e del liberismo selvaggio e alle conseguenti miopi geopolitiche che frammentano ulteriormente e violentemente il mondo.  Contro il senso di impotenza e minorità che affligge buona parte del mondo, non ci si può stancare di demitizzare, come fa Berger, la favoletta dell’economia sovrana.  Ora lo ripropongo.

«A volte nella storia della pittura si possono trovare strane profezie che l’autore non ha inteso come tali. Quasi come se il visibile potesse vivere i suoi propri incubi. Per esempio, nel trionfo della morte di Brueghel, dipinto negli anni immediatamente successivi ai 1560 e oggi al Museo del Prado vi è una terribile profezia dei campi di sterminio nazisti. La maggior parte delle profezie, quando sono specifiche, sono forzosamente cattive, poiché nel corso della storia vi sono sempre nuovi terrori. Persino quando qualcuno di essi si easurisce non compaiono nuove felicità – la felicità è quella di sempre. Sono le forme di lotta per raggiungerla che cambiano. Mezzo secolo prima di Brueghel, Hieronymus Bosch dipinse il suo Trittico del millennio, anch’esso al Prado. Il pannello di sinistra del trittico mostra Adamo ed Eva in Paradiso, il grande pannello centrale raffigura il Giardino dell’Eden, e il pannello di destra descrive l’Inferno. E questo inferno è diventato una strana profezia del clima mentale imposto al mondo (…) dal nuovo ordine economico.

Lasciate che provi a spiegare come. Il simbolismo impiegato nel dipinto non c’entra. Probabilmente i simboli di cui Bosch si serve provengono dal linguaggio segreto, proverbiale, eretico di certe sette millenaristiche del xv secolo, le quali ereticamente credevano che, se si fosse potuto sconfiggere il male, si sarebbe riusciti a costruire il paradiso in terra. Gli studi che parlano delle allegorie presenti nella sua opera sono innumerevoli. Tuttavia, se la visione che Bosch ha dell’inferno è profetica, la profezia non sta tanto nei dettagli … che pure sono ossessivi e grotteschi – quanto nell’insieme. O, per dirla in altro modo, in ciò che costituisce lo spazio dell’inferno.

L’orizzonte è del tutto assente. Non vi è continuità nelle azioni, non vi sono pause nei percorsi, non vi è un disegno, un passato, un futuro. Vi è solo il clamore di un presente disparato e frammentario. Le sorprese e le sensazioni sono ovunque, ma manca qualsiasi via d’uscita. Niente porta a niente: tutto si interrompe. Siamo di fronte a una specie di delirio spaziale.

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Confrontate questo spazio con quello dell ‘inserto pubblicitario standard, o del notiziario tipo della CNN o di qualslasl commento alle notizie del giorno proposto dai mass media. La stessa incoerenza , la stessa giungla di emozioni sconnesse tra loro, lo stesso parossismo. La profezia di Bosch annuncia l’immagine del mondo che ci viene comunicata oggi dai media (…) Entrambi sono come un puzzle i cui molti pezzi non stanno insieme. Ed è esattamente questa la parola usata dal subcomandante Marcos in una lettera dell’anno scorso a proposito del nuovo ordine mondiale. Scriveva dal Chiapas, dal Sud-Est del Messlco. Marcos vede il pianeta di oggi come il campo di battaglia della quarta guerra mondiale. (La terza è stata la cosiddetta Guerra Fredda). Lo scopo dei belligeranti era la conquista dell’intero mondo attraverso il mercato. Gli arsenali sono finanziari; e turtavia non passa momento senza che milioni di persone vengano mutilate o uccise. II fine di chi conduce la guerra è governare il mondo da centri di potere nuovi e astratti – megalopoli del mercato, che non saranno soggetti ad altro controllo che quello della logica dell’investimento. Nel frattempo nove decimi delle donne e degli uomini del pianeta vivono con i segmenti scomposti di un puzzle che non sta insieme.

La segmentazione del pannello di Bosch è talmente simile che quasi mi aspetto di trovarvi i sette frammenti nominati da Marcos.

Il primo frammento porta il simbolo del dollaro ed è verde Consiste nella nuova concentrazione della ricchezza mondiale in mani sempre più numerose e nell’estensionme senza precedenti di disperate povertà.

Il secondo è triangolare ed è fatto di di una bugia. Il nuovo ordine afferma di razionalizzare e modernizzare la produzione e la fatica degli esseri umani . In realtà si tratta di un ritorno alla barbarie degli inizi della rivoluzione industriale, con l’importante differenza che oggi tale barbarie sfugge a qualsiasi opposizione o principio etico. Il nuovo ordine è fanatico e totalitario. (All’interno del suo stesso sistema non vi sono appelli. Il suo totalitarismo non riguarda i politici – che, in base a un suo preciso calcolo, sono stati soppiantati – rna il controllo monelario globale). I bambini, per esempio. Nel mondo ci sono cento milioni di bambini che vivono nelle strade e duecento milioni che fanno parte della forza lavoro globale.

II terzo frammento è rotondo come un circolo vizioso. Consiste nell’emigrazione forzata. I più intraprendenti tra coloro che non possiedono nulla tentano di migrare per sopravvivere. Eppure il nuovo ordine opera notte e giorno sulla base del principio che chiunque non produce, non consuma e non ha denaro da mettere in banca, è ridondante. Dunque i migranti, i senza terra, i senza tetto sono trattati come rifiuti del sistema: vanno eliminati.

Il quarto frammento è rettangolare come uno specchio. Consiste nella scambio ininterrotto tra banche commerciali e racket mondiali, perche anche il crimine va globalizzato.

Il quinto frammento è grossomodo un pentagono. Consiste nella repressione fisica. Sotto il nuovo ordine gli Stati nazionali hanno perso la loro indipendenza economica, la loro iniziativa politica e la loro sovranità (La nuova retorica di molti politici è il tentativo di mascherare la propria impotenza politica) (…) Il nuovo compito degli Stati è gestire ciò che viene loro assegnato, proteggere gli interessi delle mega-imprese di mercato e, soprattutto, controllare e sorvegliare il ridondante.

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Il sesto frammento ha forma di scarabocchio ed è fatto di rotture. Da un lato il nuovo ordine abolisce frontiere e distanze attraverso la telecomunicazione istantanea di scambi e transazioni, zone di libero commercio obbligate (NAFTA), e l’imposizione ovunque dell’unica e indiscutibile legge del mercato; e dall’altro provoca la frammentazione e la proliferazione delle frontiere minando gli Stati – per esempio, l’ex Unione Sovietica, la Iugoslavia ecc. «Un mondo di specchi rotti – ha scritto Marcos – che riflettono la vana unità del puzzle neoliberista».

Il settimo frammento ha forma di sacca, ed è fatto delle tante sacche di resistenza al nuovo ordine che si stanno sviluppando in tutto il globo. Gli zapatisti nel Sud·Est del Messico sono una di queste sacche. Altri, in circostanze differenti, non hanno scelto necessariamente la resistenza armata. Le tante sacche non hanno un programma politico comune in quanto tale. Come potrebbero, dal momento che esistono all’interno di un puzzle spezzato? Eppure la loro eterogeneità può essere una prornessa. Ciò che le accomuna è che difendono il ridondante, ciò che sta per essere eliminato, e la loro convinzione che la quarta guerra mondiale è un crimine contro l’ umanità.

I sette frammenti non riusciranno mai a ricomporsi in modo da avere un senso. Questa mancanza di senso, questa assurdità è caratteristica del nuovo ordine. Come Bosch previde nella sua visione dell’inferno, non c’e orizzonte. II mondo sta bruciando. Ogni figura cerca di sopravvivere concentrandosi sul proprio bisogno immediato, sulla propria personale sopravvivenza. La claustrofobia, che qui raggiunge il suo grado estremo, non è provocata dall’affollamento eccessivo, ma dal vuoto di continuità tra un’azione e l’altra, che pure le è così vicina da toccarla. L’inferno è questo.

La cultura in cui viviamo è forse la più claustrofobica che sia mai esistita; (…) come nell’inferno dl Bosch, non si vede neppure di sfuggita un altrove a un altrimenti. Cio che è dato è una prigione. E, di fronte a un tale riduzionismo, l’intelligenza umana si riduce all’avidità. Marcos concludeva 1a sua lettera dicendo: «E’ necessario costruire un mondo nuovo, un mondo capace di contenere molti mondi, capace di contenere tutti i mondi ».

Il dipinto di Bosch ci ricorda – se le profezie possono essere definite un promemoria – che il primo passo verso la costruzione di un mondo alternativo dev’essere il rifiuto dell’immagine del mondo impiantata nelle nostre menti e di tutte Ie false promesse usate ovunque per giustificare e idealizzare il bisogno criminale e insaziabile di vendere. Abbiamo un bisogno vitale di uno spazio diverso. Innanzi tutto dobbiamo scoprire un orizzonte. E per farlo dobbiamo ritrovare la speranza – malgrado tutto ciò che il nuovo ordine pretende e perpetra. La speranza, però, è un atto di fede e va sostenuta con atti concreti. Per esempio, l’atto di avvicinare, di misurare le distanze e di camminare verso. Ciò porterà a collaborazioni che negano la discontinuità. l’atto di resistenza significa non soltanto rifiutare di accettare l’assurdità dell’immagine del mondo che ci è offerta, ma denunciarla. E quando l’inferno viene denunciato dall’interno, smette di essere inferno.

Nelle sacche di resistenza oggi esistenti, gli altri due pannelli del trittico di Bosch, dove compaiono Adamo ed Eva e il Giardino dell’Eden, possono essere studiati a lume di candela nell’oscurità… abbiamo bisogno di loro.

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Mi piace citare ancora una volta il poeta argentino Juan Gelman:

La morte stessa è giunta con la sua documentazione

ancora una volta riprenderemo la lotta /

ancora una volta ricominceremo (…)

contro la grande disfatta del mondo

piccoli compañeros che mai finiscono

o che bruciano come fuoco nella memoria

ancora

/ e ancora

/ e ancora»

Icaro terrestre (un frammento)

 In molte formulazioni trascendenti esiste il pericolo di idealizzare la fuga, nutrendo l’ideale di una redenzione futura, di una purezza a venire nelle molte dimore della casa paterna. I venti del paradiso e le loro promesse di una appartenenza disincarnata nell’ “eterno riposo” trascinano la Storia in una accelerazione apocalittica senza battute di arresto. 

Trovo che l’animismo benjaminiano di Bayo Akomolafe – quell’invito cioè a rallentare che il mondo e l’agentività non solo umana impongono – aiuti a discernere i pericoli di voli ascensionali, non come distanza generativa ma come speranza trascendente di una conferma del nostro eccezionalismo. Queste affascinanti promesse di “riparazione, speranza e giustizia a venire” possono nutrire un comprensibile bisogno di evasione  ma anche una inflazione spirituale normativa che evita di stare nell’intreccio con di Terra E Mondo.    Un passaggio di These Wilds Beyond Our Fences mi aveva particolarmente colpito:

L’ Icaro nell’antichità che tenta di fuggire dal suo imprigionamento materiale a Creta (…) È un enigma psichico che trasuda, trabocca e invade la dimensione sociopolitica E ci parla di una storia di dislocazione e separazione [specialmente se consideriamo la modernità comeil diniego antropocentrico di un più umile posto nel mondo e come ricerca trascendenteSentirsi nel giusto è un ennesimo volo di Icaro che tenta di sfuggire l’intrattabile eccesso sensuale ed etico del mondo materiale.

La dis-locazione che la modernità genera in continuazione è paradossale: nell’immaginare e conquistare un posto centrale nel rapporto con tutte le cose, nella ricerca di una casa e di un luogo sicuro, nell’aspirazione alla governance delle cose tutte, il controllo e il dominio ci allontanano da tutto ciò che è vivente e da noi stessi. L’altra faccia della medaglia lo potremmo chiamare “il complesso di Icaro,”  una sorta di onnipotenza adolescenziale che non sa gestire eredità complesse.

Il giovane Icaro si trova prigioniero a Creta insieme al padre Dedalo che era stato punito dal tiranno Minosse per aver propiziato la fuga di Teseo dal labirinto che lo stesso Dedalo aveva progettato. Qui l’eroe ateniese aveva ucciso un ibrido semiumano, il Minotauro figlio di un accoppiamento illecito della Regina con un toro. Al Minotauro  ogni anno venivano sacrificate le giovani fanciulle che gli ateniesi erano costretti a inviare a Creta. Quanti temi, già si intrecciano in questo mito e ancora ci sollecitano: la purezza, il desiderio e la sua demonizzazione, la creazione del mostruoso, la bestialità patriarcale, la rimozione e trasformazione della divinità preellenica per eccellenza la Signora degli animali  e anche la presunzione di poter sciogliere una volta per tutte queste eredità, “facendo fuori” il problema, tagliando la testa al Toro. I figli nella mitologia e nella tragedia greca non se la cavano tanto bene. Il povero Icaro eredita tutto questo. Ancora una volta è l’ingegnoso padre nella torre in cui sono confinati a scoprire un nido di api e con cera e piume costruisce le ali della fuga. Ma a Icaro a questo punto non basta volar via dalla prigione, l’ascesa dev’essere totale, la soluzione essere finale, l’aspirazione alla liberazione, l’ebbrezza celeste diventa seduzione luciferina e salendo verso il Sole, la cera si scioglie e Icaro precipita nel mare e muore. Quanto questi miti di una eventuale futura definitiva salvezza in un immaginario altrove complicano il nostro rapporto col divenire?

Il genio di Chagall rappresenta la cosa come una catastrofe collettiva, una dissociazione psico-sociale. (notevole del dipinto il contrasto tra le reazioni collettive del popolo in blu e del popolo in rosso). Anche l’insostenibile leggerezza dell’essere ha bisogno di “terra” per uscire dal ritmo maniaco-depressivo della modernità.

Dopo una serie di eventi personali che mi invitavano a prendere posizione, a sciogliere nodi, ad accettare il cambiamento ho fatto recentemente questo breve sogno. Non ho mai fatto sogni con riferimenti alla mitologia greca,  ma avevo  da poco letto di come il mito di Icaro possa essere associato alla nostra modernità ascensionale e vetero-adolescenziale in cerca di soluzioni definitive. 

Ma ecco il sogno:

E’ notte fonda. Vedo Icaro è un  guerriero dietro una barricata. Ha i piedi ben piantati a terra ed è vivo. Non capisco contro chi combatta e non sono del tutto certo che conduca la lotta nel modo giusto, ma vederlo così è qualcosa di sorprendente.

Mi chiedo se ciò non possa essere un indizio di ciò chi diventa santuario e rifugio per il fuggitivo in crepe terrene che sconfermano il trionfo della tracciabilità assoluta, che sfuggono ai paradigmi carcerari senza scegliere l’evasione spirituale o politica dal nostro abitare sempre nel mezzo del cammino. 

La guerra e i suoi fantasmi

Post Apocalyptic Art by Vladimir Manyukhin

(1) Stranamore impenitente

In  Psicoanalisi della guerra Franco Fornari sistematizza una serie di considerazioni che evidenziano come il contributo psicoanalitico offra spunti di comprensione della dialettica affettiva necessaria per far fronte alle reazioni collettive e individuali e alla distruttività anche inconscia in atto nel fenomeno guerra. La psicoanalisi in questo senso ha un contributo da offrire a quanti trovano difficile ignorare il carattere assolutizzante di argomentazioni animate da ragioni incontrovertibili. Esistono infatti difese apparentemente razionali che si intrecciano con profonde angosce psicotiche. Tali sistemi di difesa paranoidi espellono il conflitto interiore e non ammettono dubbi perché devono mettere a tacere le nostre più distruttive pulsioni anche a costo di esternalizzarle concretamente su un nemico in carne ed ossa. Ogni presa di posizione rispetto a un conflitto non è solo razionale ma implica un processo che porti a una forma di discernimento, discernimento  che nasce dalla disponibilità a riconoscere quanto queste istanze inconsce condizionino le nostre “libere” decisioni.  

Prima di ragionare sull’auspicabilità della guerra come soluzione ai torti subiti dalle nazioni, alle colpe dei tiranni e dei loro interessi, bisognerebbe non trascurare fattori irrazionali che potrebbero ostacolare per gli attori (è il caso di dirlo) in gioco un corretto esame di realtà, e in particolare quelle diffuse e trasversali difese da angosce persecutorie che strutturano la guerra come elaborazione paranoica del lutto, che è poi l’intuizione centrale delle scomode tesi di Fornari.

“Quando una realtà distruttiva viene coperta da simboli d’amore esiste la possibilità che ciò costituisca una operazione destinata a coprire profonde angosce depressive o persecutive e che tale occultamento abbia in sé grande probabilità di predisporre colui che lo fa a distorsioni gravi nell’esame di realtà e quindi a non trovarsi nelle condizioni di poter prevedere correttamente le conseguenze possibili dei suoi atti”.

La guerra – che viene più o meno esplicitamente pensata come ineluttabile dispositivo volto a garantire sicurezza – sarebbe allora anche un’istituzione volta ad anestetizzare profonde angosce persecutorie. Una “formazione reattiva” volta a difenderci da un fantasma ancor più Terrificante. Come un iceberg – diceva Fornari – il sistema di sicurezza ha una parte visibile (la difesa dal pericolo di un nemico esterno) e uno invisibile, la difesa da un nemico interno e assoluto volto ad annientarci, un persecutore che a volte prende una forma indefinita nei peggiori incubi e che potrebbe travolgere anche i nostri cari. L’amplificazione paranoide che proietta il Terrificante su un nemico esterno paradossalmente ci difende tacitando – per un tempo – quell’angoscia di morte che la situazione atomica, la crisi ecologica planetaria e la pandemia hanno trasformato angoscia da annientamento assoluto. Qui i confini tra il delirio psichico e la realtà sfumano perché la situazione atomica concretizza fantasmi distruttivi che coincidono almeno in parte la possibilità latente di una sadica e folle onnipotenza.

La fibrillazione aumenta e con essa le difese paranoidi – ci si aggrappa a vecchie certezze e soluzioni, si razionalizza come se tutto fosse assolutamente chiaro ed evidente.

Ma la caratteristica del “nemico” interno è subdola proprio in quanto radicata in una possibile deriva onnipotente, invisibile, che la cultura ci racconta con il volto di Caino che uccide Abele o di Atreo che nutre Tieste cucinandogli i resti dei suoi figli dopo averlo invitato a una supposta conferenza di pace. È la stessa amplificazione persecutoria che rivela la nostra distuttività che se si scatena può portare a uccidere la persona amata (generalmente una donna) nella percezione di un irreparabile torto subito.

Trovare nemici esterni da uccidere, trovare un nemico reale, per quanto ci metta a rischio, ci rassicura per un tempo dalla paura che un delirio di annientamento prenda il sopravvento senza che ci si possa far qualcosa. Soprattutto ci protegge dal timore che ciò abbia a che fare con una distruttività capace di attaccare persino ciò che amiamo. Difendiamo allora la verità del nostro supposto amore a tutti i costi.

Freud chiamava questo processo deflessione all’esterno della pulsione di morte, pulsione che prende forma nella psiche umana in fantasie di onnipotenza sadica distruttiva e che tuttavia le culture tentano di affrontare in modi diversi. Una pulsione che ha probabilmente la sua radice in una specifica consapevolezza di vulnerabilità delle comunità umane tanto più grande quanto più separate dalla percezione di un più ampio metabolismo, dalla biofilia costitutiva dell’esistenza, sostituita da un delirio di eccezionalità.

Non è tuttavia sufficiente descrivere queste dimensioni pulsionali distruttive come parte di una universale esperienza umana. Secoli di modernità coloniale hanno strutturato anche a livello inconscio una separabilità, un desiderio di controllo e dominio che rafforza ogni diniego e allo stesso tempo legittima ogni forza e ogni sopruso in nome dei soprusi subiti. 

da “Il dottor Stranamore” di Stanley Kubrick

Tuttavia non tutti i dispositivi delle culture elaborano allo stesso modo la vulnerabilità che ci accomuna a tutto vivente e che molte tradizioni riconoscono nella radice precisa del dover mangiare (letteralmente) altre vite – sapendo al contempo di essere parimenti a rischio di essere mangiati. In anropologia, Viveiros de Castro, De Scola e altri hanno evidenziato che tale “prospettivismo”  relazionale mentre non nega le pulsioni distruttive resta profondamente eco-sistemico.  Al di là di ogni esotismo romanticizzante, le culture metaboliche che nutrono un sentimento di continuità con il mistero del nostro esistere e passare, che non negano l’aggressività ma non la trasformano in guerra, genocidio, ecocidio sono anche culture in cui si pratica la via dei sogni animati, dell’incanto e della meraviglia, illustrazioni di una Terra Vivente  al di là delle nostre povere immaginazioni. E che riconoscendo la distruttività come intrinseca all’esistenza se ne fanno carico altrimenti.

Da “Come pensano le foreste” di Edouardo Kohn


Lo stesso Fornari lo aveva già intuito quando in Psicoanalisi della situazione atomica (1964) scriveva:

« Uno dei risultati dell’inflazione intellettualistica della società occidentale sembra legato all’oblio da parte dell’uomo cosiddetto civile della capacità che ha invece l’uomo [cosiddetto] primitivo di responsabilizzarsi di fronte al proprio inconscio

Questo oblio oggi viene alimentato ipnoticamente, catturato da una fascinazione collettiva per il riarmo, a un tempo ideologica e post-ideologica, che sembrerebbe avere funzione di difesa maniacale dai lutti profondi che la situazione generale del pianeta impone.  Uno dei sintomi lampanti di questo squilibrio è la demonizzazione del dubbio e della libertà di pensiero. 

La valenza ipnotica della situazione spinge a relativizzare il potenziale distruttivo del conflitto tra visioni geopolitico-economiche dei blocchi egemoni contrapposti. La possibile dimensione atomica del conflitto viene relativizzata anche quando le stesse parti in causa la evocano. Se i regimi totalitari non hanno scrupoli nell’imporre questa logica difensiva le (post)democrazie liberali rivendicano il valore morale (sempre più evanescente) della loro storia attraverso dispositivi retorici che evocano i traumi collettivi del passato. Questo copia e incolla che taglia la testa al toro e ignora i contesti trova in alcuni la forma dell’appello a una scelta inedita e radicale tra libertà e vita.Per alcuni, a sinistra, l’appello al riarmo prende a riferimento la Resistenza. Come se la storia non sia stata abitata da altre forme di conflitto violento che avevano a che fare più che con la liberazione dall’oppressore con le logiche delle sovranità nazionale e imperiale. Mussolini, per esempio, aveva fatto del culto della Grande Guerra, dell’interventismo, del prezzo di sangue pagato dall’Italia, il baluardo della sua retorica nazionalista. E difatti la destra gongola per  l’opportunità ghiotta che questi appelli offrono a un analogio trionfalista spirito guerresco. Appelli che scindono l’unità costitutiva di vita e libertà così come abbiamo scisso l’atomo. Un binarismo insostenibile dato che libertà e la vita abbondante e indeterminata (Zoe) sono strettamente correlate, specialmente oggi che la vita del pianeta tutto viene messa a rischio non solo dalle tentazioni di alzare la posta del coinvolgimento delle potenze atomiche ma anche dalla catastrofe ambientale.  Una situazione fche rischia di svalutare le possibilità di resistenza più profonde dell’umano. Per alcuni la scelta della libertà come massimo valore etico imporrebbe il riarmo anche a costo della distruzione della vita stessa. Vale certamente combattere per ciò che conta e ogni resistenza anche quella dei contadini anarchici che gridavano ben prima del franchismo “viva la muerte” scendendo per i campi contro Napoleone si radicava in un desiderio di buona vita più che nella mera pulsione di morte. Tuttavia, in un conflitto che contrappone l’aspirazione geopolitica di potenze nucleari,  l’appello al riarmo e alla guerra  mi sembra abbia davvero poco a che fare con le lotte dei partigiani.

La situazione atomica e l’intreccio globale dei problemi rendono la vita da salvare innanzi tutto non quella individuale o quella delle nazioni e dei loro interessi geopolitici ma quella del pianeta, condizione di vita, futuro e libertà per tutti. 


Dire che la libertà è un dovere supremo come ha recentemente titolato il direttore di Repubblica mi sembra del resto un doppio messaggio, un ossimoro paralizzante e ipocrita ancor più da quando la pandemia ha consentito ai governi di strutturare le ansie collettive organizzando con politiche sanitarie obbligate la limitazione di movimento e persino per alcuni la libertà di lavorare –  imponendo misure di confinamento e di libertà limitata e differenziale come condizione per poter tornare a “essere liberi”,  cosa che nell’equazione del discorso corrisponde alla supposta normalità dello status quo mentre le cause profonde del dissesto ambientale, ecologico, economico e politico restano occultate. Il senso della libertà viene così ridotto al dovere del consenso. Tutto ciò ha reso impossibile un vero passaggio depressivo, un lutto riuscito che prenda atto del dis-astro che la modernità coloniale ci lascia in eredità. Parlare di un dovere supremo nei confronti del valore  libertà mi sembra allora un artificio retorico che non sconferma la tendenza a una governance post-democratica consensuale che si appoggia anch’essa come nella più evidente razionalità difensiva dei regimi a “formazioni reattive” che gestiscono a modo loro le profonde ansie depressive. Il palliativo rassicurante dell’adesione di massa a un supposto bene comune sembra avere valenze ipnotiche fortissime a destra come a sinistra. 

Il tentativo di utilizzare la guerra per rafforzare il sentire di una identità Europea fortificata e fondata sulla supposta superiorità etica delle sue radici culturali mi sembra faccia parte della medesima deriva anti-storica, nel senso che rifiuta di prendere in carico proprio le eredità non elaborate nella costruzione violenta del progetto della modernità coloniale nel suo rapporto con le risorse e i popoli.

Senza nemmeno parlare delle politiche migratorie a due pesi e due misure, dei milioni di rifugiati siriani confinati nei campi in Turchia , delle migliaia segregati nella foresta tra Bielorussia e Polonia a cui non viene concesso di passare, della profilazione razziale alle frontiere per gli studenti africani che fuggono dall’Ucraina, delle corsie preferenziali che segnalano una visione nazional-identitaria che riduce e inquina ciò che la stessa storia dei conflitti mondiali aveva insegnato sul ruolo cruciale che i rifugiati portano alla comprensione della storia.

Lo ha ribadito benissimo recentemente Didi-Huberman in “Passare a ogni costo”:

Tutti questi movimenti di migrazione hanno un nome generico: la cultura. Non la cultura dei «programmi culturali» o dei «ministeri della cultura», ma la cultura nel senso antropologico del termine, ciò che rende cioè gli umani quegli esseri capaci, non solo di parlare, lavorare e inventare attrezzi, o magari opere d’arte, ma anche di vivere in società, parlarsi, inventarsi, immaginarsi l’un l’altro. Quando una società comincia a confondere il suo vicino con il nemico, o lo straniero con il pericolo, quando inventa istituzioni per mettere in opera questa confusione paranoica, allora possiamo dire, secondo la logica storica – e non da un semplice punto di vista etico – che sta perdendo la propria cultura, la propria capacità di civiltà.”

Chi si schiera per la cultura, intesa in questo senso, pare oggi colpevole di ignavia terrapiattista (ancora Repubblica) o di nascondersi dietro sofismi astratti, ma ragionare, o meglio sentir-pensare, non significa né scegliere la scorciatoia del tifo né mantenere una indifferente equidistanza –– significherebbe piuttosto considerare la necessità di una più ampia prospettiva che faccia i conti con le varie forme di diniego in questo grande dissesto e prendere posizione per il pianeta come condizione primaria per la continuità di un processo che garantisca vita e libertà. Al di là dei proclami e degli imperativi emergentiche impongono di schierarsi un barlume di consapevolezza di questa altra urgenza non è forse estraneo agli uni come agli altri.

Forse chi saprà riconoscere la possibile catastrofica deriva che queste difese inconsce amplificano, senza timore di dis-fatta, si dimostrerà all’altezza del’umiltà necessaria oggi nel momento del pericolo.

Ma sulla lezione di Fornari su psicanalisi e culture di pace sarà bene tornare. (continua)

Incontriamoci al crocevia

Ho tradotto le parti principali del discorso di apertura o keynote speech di Bayo Akomolafe alla cerimonia di laurea della Pacifica Graduate Institute che mi sembra offrire molti spunti per un post-attivismo “in fuga” dall’architettura delle “competenze” nella modernità ma in cui il fallimento apre a nuove promesse. Buona lettura!

Statua della mulatta Solitude figura storica della resistenza alla schiavitù in Guadalupe, impiccata a 30 anni nel 1802

« Questi non sono tempi normali. vi parlò dall’India, Il paese di mia moglie, dove vivo con la mia famiglia. Qui è notte in più sensi. Intorno noi ci sono morte dolore e sofferenza. Anch’io sto ancora faticando con il COVID, insieme al resto della mia famiglia. Sono a casa con i nostri bambini  in un rigido lockdown imposto dall’amministrazione di Chennai, mentre una nuova variante del COVID-19 che preoccupa il mondo intero spopola le strade. Altrove nel mondo, un iceberg delle dimensioni dello Stato americano dei Rhode Island (più di 3000 km quadrati NdT) si stacca dalla banchisa Antartica, mentre un teso coprifuoco si protrae dopo una prolungata  fase di assimmetrica guerra tra Israele e la Palestina; in Marocco, centinaia di famiglie hanno cercato di entrare nelle exclavi di Centa e Melilla; il congresso degli Stati Uniti discute di Fenomeni Aerei Non Identificati, potenzialmente affrontando un discorso su cosa significhi essere umani in un’era interplanetaria; e l’Antropocene – questi momenti di perdita e instabilità – continua follemente la sua corsa. Recentemente ho sentito qualcuno dire che il 2019 è stato l’ultimo anno normale. Ho capito cosa voleva dire, ma non sono d’accordo: ciò che “normale” è sempre supportato da qualcosa di invisibile e occultato, la normalità diventa tale grazie a un dislocamento. Viviamo nei tempi di Giorge Floyd certo, ma non dimentichiamo che abbiamo vissuto per molto tempo in un mondo dove la nave schiavista era possibile. E anche se mi congratulo con i cittadini degli Stati Uniti per la diminuzione dei contagi, per l’allentamento dei protocolli di emergenza per la salute pubblica, per il numero crescente di vaccinazioni, non posso avere fiducia nel fatto che la salute sia una proprietà individuata, domiciliata in singoli corpi isolati.

Tutto oggi è disagevole e fonte di impaccio. C’è qualcosa che ha a che fare con l’imbarazzo che attraversa queste giornate di zoom: bambini che appaiono improvvisamente nelle riunioni virtuali interrompendo la solita routine, l’impossibilità di sapere con certezza se qualcuno che parla, sotto l’inquadratura sia o meno vestito. Questi sono giorni di fallimento, di perdita, di confusione (…)

Cosa significa laurearsi alla fine del mondo durante una pandemia? A cosa servono queste cerimonie? Che cosa può mai significare un rituale che celebra il raggiungimento di una competenza in un tempo in cui la competenza è intralciata dal collasso nel mondo? Quando non è più chiaro che cosa significhi essere umani?

***

Voglio raccontarvi una storia, ora ad un’altra fine di mondi. Potrebbe aiutarci a capire meglio queste domande – ma ancor di più, e lo spero, potrebbe dairci lo spazio per scoprire luoghi che non conosciamo ancora. Questa è una storia di resistenza, libertà, perdita di speranza, e sull’arte queer del fallimento. È su ciò che accade quando le cose non funzionano come ci si aspettava, Quando la visibilità è bassa, quando ti vien detto di abbassare lo sguardo e di star giù. È una storia che parla di nerezza.

Forse avete già capito in che direzione stiamo andando: non sono qui per dirvi che andrà tutto bene, che avete solo bisogno di speranza e determinazione, che il mondo è coerente è leggibile. Non sono qui per pregare per il vostro successo (…) . Sono qui per parlarvi di incrinature, di faglie, di fratture, di schegge, di  ferite e di tutte le cugine delle crepe.

Vi dico che il mondo sta “contrattaccando”, vi parlo di cose scollate dagli algoritmi, di un’insurrezione di creaturine invisibili, della perdita di stabilità, della disabilità. Per quelli a cui piace il cinema I film A Quiet Place e Bird Box, usciti entrambi nel 2018, raccontano storie di ciò che accade quando qualcosa di strano ed estraneo irrompe attraverso la pagina di ciò che è familiare disarticolando I corpi nello shock di una penetrazione trasversale, ribaltando il senso di cosa significhi avere competenze e di cosa significhi essere disabili. Queste esplorazioni cinematografiche si chiamano cripistemologie,un termine che definisce lo studio di come vengano prodotti corpi abili con la simultanea produzione di altri corpi resi disabili. In A Quiet Place la locuzione e la voce diventano improvvisamente un handicap. Se parli muori. E in Bird Box, ancor più criticament, è la vista – che domina la sensorialità – a diventare un handicap. Vedere significa spezzarsi. Mi chiedo allora: potrebbe essere che nel mondo odierno delle pandemie e del caos climatico il successo potrebbe essere un handicap? E se essere interi, se ottenere un certificato di buona salute, probabilmente scritto con l’inchiostro dorato di una recente vaccinazione, significasse ironicamente nutrire quella bestia affamata che si nutre del nostro individualismo?  Se tale centralità umana ha contribuito a pratiche di  sconferma e abuso, forse non abbiamo bisogno di esseri umani in “buona salute”, isolati e indifferenti, come zavorra ecologica.(Chi mi ha invitato potrebbe aver fatto un errore – ma potremmo anche scoprire una sorprendente abbondanza se non rifiutiamo il disturbo di queste inquietanti considerazioni.)

Restiamo però con questa domanda materica e stratificata:  che fare alla fine del mondo? Come essere respons-abili, in grado di offrire risposte a questi tempi di  radicali mutamenti ai confini della nostra carne?

Bene, innanzitutto, il mondo è finito molte volte. Non sto parlando di estinzioni o di arrivi spettacolari dal cielo. Sto parlando  di tutti i  modi con cui qualcosa di inaspettato irrompe radicalmente e sconvolge totalmente ciò che ci è familiare, come dopo un’accusa di stregoneria a  Salem,  di modo che è impossibile andare avanti. Criticamente il mondo è finito molte volte per far posto alla bianchezza – l’imperativo che impone la messa in forma del mondo arruolando corpi di ogni sorta per garantire approdi certi e sicuri. E ancor più criticamente, non c’è un mondo solo, un mondo già fatto e dominante. Il mondo non è mai stato coerente o in ordine per molti di noi. E le forme della fine sono numerosissime – e sovente accadono ai margini della lingua.

Vorrei raccontarvi come il mio mondo certamente è finito. Vi posso perfino dire la data. Il 30 giugno alle quattro del pomeriggio ora indiana. A volerla guardar la cosa in termini archetipici stavo volando nel cielo come Icaro, tornando a casa da un rapido viaggio nei Paesi Bassi dove ero stato invitato per una conferenza. Il volo di ritorno era stato punteggiato dalla buona notizia un po’ ansiogena che mia moglie era in ospedale – molti giorni prima del termine – ed era sul punto di partorire il nostro secondo figlio, anche se io avevo appoggiato le labbra sul ventre di lei prima di partire chiedendo a lui di aspettare il mio ritorno.

Il suo arrivo segnalò uno strappo nel tessuto delle cose così radicale che lo stiamo tuttora  elaborando. Innanzitutto, avevamo sempre voluto un’altra bambina, Due figlie, Il piano era questo. Una sorellina per Alethea. Ma il mondo contrattacca a modo suo – ed è nato Kyah, il nostro splendido figlio. Mia madre gli ha dato il nome Abayomi, il nome del mio defunto padre. Lo abbiamo amato e lo amiamo incondizionatamente. Faremmo per lui qualsiasi cosa. Ma poi un giorno, quando aveva quasi due anni, abbiamo iniziato a notare alcune cose strane… la prima cosa è stata il silenzio perché quando lo chiamavamo per nome non rispondeva – e non aveva la scioltezza vocale della sorella alla stessa età. Ci siamo detti che non importava, che ogni bambino cresce con ritmi diversi. Mia madre ci rassicurava che i bambini spesso parlano più tardi delle bambine. Ma quando ha iniziato a rifiutare il cibo e a fare capricci tali che tutto il terminal dell’aeroporto si congelava per capire cosa stesse accadendo, abbiamo capito che I nostri peggiori timori si stavano avverando. Quasi inevitabilmente arrivò una diagnos:i “disordine dello spettro autistico”. 

Il punto è che non avevamo previsto l’arrivo  di Kyah. È arrivato da un punto cieco, al di fuori del progetto, come il volubile ditino  di un cucciolo umano sul cammino di una fila di laboriose formiche.

Aldilà di ogni possibile comprensione, sono entrato in una fase di lutto. Onestamente, su un certo piano, mi danno ancora daffare domande del tipo: “ma perché proprio a me?”. Il mio dolore voleva ripararlo, aggiustarlo. Guarirlo. Mio figlio Abayomi era una crepa nel contenitore nelle mie più potenti aspirazioni. Come potevo giocare con lui, crescere insieme a lui, se lui c’era solo in parte?

Mi sono messo nella posizione dell’eroe. Mi sarei precipitato nella tempesta e l’avrei riportato al sicuro. Ciò che non riuscivo a vedere era quanto fossi già implicato (al di là delle mie migliori intenzioni o dei miei peggiori impulsi) nella costruzione di una sua inadeguatezza, con gli algoritmi che mi spingevano a ridurre ciò che non andava a ciò che stava accadendo nel suo corpo di bambino di tre anni. Volevo confinarlo nella promessa di una salute completa e totale, vaccinarlo per renderlo immune alle ferite del mondo – un po’ come quando nel mito  Freya tentò di congelare l’universo di modo che suo figlio, Baldur, non morisse. E come Baldur, che venne colpito  dalla freccia di vischio di Loki, anche mio figlio Abayomi, non avrebbe avuto la pienezza del nome, la pienezza di una definizione, di una cattura. Preferiva scostarsi, eccedendo la stretta, resistendo ai tentativi di esser reso adeguato, completo. Come un fuggitivo.

C’è una storia che risale ai giorni del commercio transatlantico di schiavi – la storia di una donna che una notte fu rapita. Con il suo bambino. Sulla nave diretta in Brasile, il bimbo non conteneva l’angoscia. Si agitava, piangeva e si inarcava tutto. Nel vascello sulle onde non c’era sollievo ma poi sua madre ebbe un’idea: la leggenda dice che si strappò un pezzo di stoffa dal vestito. E con quella intrecciò una bambola di pezza e la offri al bambino perché giocasse. Un gioco nel ventre della nave schiavista. Come una canzone a Auschwitz. E per un istante, Il bimbo fu consolato. La madre, che era di origine Yoruba, grata chiamò la bambola Abayomi – lo stesso nome dato a mio padre e a mio figlio. Il nome significa “il nemico mi avrebbe sopraffatto, ma Dio non lo ha permesso”. Significa anche “pensavano di avermi seppellito ma non hanno capito che sono un seme”. Significa anche, “se ti inginocchi sul mio collo, anche tu ti spezzerai”. Significa anche “esiste una strano potere nelle profondità e nei luoghi abbandonati”. Significa che l’impresa coloniale si disfa grazie al fatto che nulla può essere completamente catturato – tutto trabocca, tutto si muove. Tutto è estatico, eccedente, inebriato nell’emergere.

Gli anziani nel mio mondo sarebbero d’accordo nel dire che la bambola di pezza non era un mero assemblaggio di stoffa e lacrime. Si trattava di Esu in persona, l’Òriśà, la divinità sovrumana che si era intrufolata nei registri dei padroni scombinando i loro calcoli e le loro pretese di far tornare i conti, diventando il punto cieco, il corpo estraneo salito sull’imbarcazione razionale della supremazia quantitativa. Esu è il trickster Yoruba, dio dei crocevia – Ricco in agentività, colui che disciplina le nostre pretese di completezza con dosi omeopatiche di mostruosità rompe i binarismi con cui osserviamo il mondo e apre una terza via. Questo è il dono di Esu. Il dono dei crocevia. Quella bambola di pezza trasformò un veliero di tortura in un grembo di legno, gravido di un popolo che ha arricchito il mondo diasporico di magica vitalità. Quella bambola di pezza è diventata il simbolo della resistenza queer nelle favelas di parti del Brasile. Abayomi ci ricorda che il potere non è potenza, e che la sfida di dare risposte in tempi coloniali non significa necessariamente vincere, essere visti, essere riconosciuti dallo Stato – quanto imparare ad ascoltare, imparare a perdere la propria via.

Abayomi è l’eco di mio padre; Abayomi è mio figlio che non può essere contenuto. Abayomi è l’estrema eccessività del reale che significa che persino la cella della prigione e ogni sorta di dispositivi di dominio non saranno sempre funzionali alla programmazione prevista. Abayomi è l’anomala ufficiosità del reale. Abayomi è la nerezza – il cuore del mio invito a pixel che vi mando sotto cieli misteriosi.

Badate. Proprio come l’autismo non ha solo a che fare con eventi neurologici nella testa di un figlio, ma con i modi con cui produciamo e nominiamo i corpi e i mondi che li supportano escludendo altre corporeità, la Nerezza non riguarda solo persone nere (così come la bianchezza non riguarda solo i Bianchi), anche se emerge dall’attenta considerazione dei contesti, delle esperienze e dei viaggi di entrambi. La nerezza è una cripistemologia che considera l’uomo, l’Anthropos, e ciò che fa, ciò che produce, ciò che esclude; la nerezza è la ricerca di nuove disabilità, di nuove fedeltà corporee. Riguarda un mondo macchinico che definisce alcuni colpi speciali – e altri corpi come appendici superflue, vicine all’animalità, e che non giungeranno mai alla gloria e alla nobiltà di quei corpi che si identificano come corpi bianchi: una nobiltà grevemente sostenuta dal diniego censorio della vitalità del mondo materiale. La nerezza non equivale agli slogan riprenderci il nostro, vendicarci, essere uguali, essere pagati. Non equivale a quella opposizione normativa che rientra in fondo nell’architettura del progresso bianco. Riguarda invece il modo in cui corpi rimangono invischiati nei mondi che creano, nei mondi che li creano – riguarda le aperture, le crepe, che spesso emergono, quasi miracolosamente, riguarda i portali attraverso i quali possiamo intuire con un’intensità percettiva quasi animale che una diversa via è possibile.

La nerezza  è la bizzarra qualità di un’abbondanza che sgorga dai posti più impensati. Un verde gambo appena germogliìato nel deserto, un fungo che cresce da una cisterna radioattiva a Chernobyl, una bambola di pezza su una nave schiavista, vita queer, vita fuori registro nel bel mezzo di un’Antropocene a tonalità pandemica. La nerezza è morte – non l’estinzione finale dell’immaginazione occidentale, ma quel morire che culla la vita, che immagina di poter inciampare su un tesoro, che dove cadiamo e perdiamo speranza esistono ragnatele dove divinità ebbre scivolano dal divino sino agli oceani per creare nuovi mondi con le loro zucche a fiasco (calabash) fatte di sabbia.

È per questo che Frank B. Wilderson III, nel suo libro Afropsessimism, dichiara che la nerezza invoca niente di meno che la fine del mondo. C’è forse una speranza di pace nel Medioriente? Il dispositivo esausto dello stato-nazione potrà mai render conto della violenza fatta al cosiddetto sud globale? Un assegno da 1 miliardo di euro versato dalla Germania alla Namibia per il genocidio dei popoli Herero e Nama dal 1904 al 1907 giungerà sino alle ossa di chi è stato ucciso? Il dispositivo duale dell’alleanza terapeutica nella psicologia clinica basterà a propiziare un risveglio dei sensi allertato e sensibile nei confronti di quel mondo che è la condizione in cui viviamo oggi? C’è spazio per corpi che si identificano come bianchi per le gioie di un selvaggio mondo animista ben oltre la cattura faustiana dello stato-nazione? Non c’è speranza all’interno dell’attuale configurazione dei corpi, non c’è pace da spremere dalla polpa della cattura coloniale. Nessuna giustizia potrebbe bastare se già programmaticamente connessa alle circostanze stesse che producono ingiustizia.

Ci vuole una svolta.

La nerezza ribalta la matrice, ne è la faglia… non singola risposta, ma progetto cartografico per smarrire il cammino… invito a perdersi, dignità del fallimento, imperativo del compostaggio.

Più semplicemente, la nerezza è il permesso di fallire – ma non solo, è anche la promessa del rinnovamento nel fallimento fuggitivo. E non potrei immaginare cosa più importante da condividere con voi che questo invito al fallimento. Lo chiamo” inabilitazione generativa” – i miei figli non scolarizzati di 7 e 3 anni lo chiamano come vogliono.

È che non possiamo rischiare di avere successo; Non possiamo rischiare di fare tutto quello che intendevamo fare. Intendiamoci, è bellissimo realizzare le nostre aspirazioni, vedere accadere delle cose, sognare bei sogni, impiegare bene il nostro tempo… ma il successo di cui parlo non è tanto il testo quanto il contesto, le modalità che imbrigliano, i modelli di comportamento che proibiscono e sono insensibili agli imperativi della perdita, del buon morire, del perdere terreno, del diventare-altro, dell’essere turbati, accolti e sconfitti dalle cose che ci eccedono. D’ora in poi, non possiamo rischiare una navigazione serena. Non possiamo rischiare l’arrivo, non possiamo rischiare di essere salvati se la nostra aspirazione è la trasformazione. Essere salvati significa restaurare una riconoscibilità, reinscrivere la formula del medesimo: questa è la stessa grammatica di chiusura indifferente coinvolta nel riscaldamento degli oceani, nella pandemia e persino nella ripetibilità ciclica degli attivismi contemporanei che aspirano alla giustizia e della politica liberale, quando utilizza gli stessi strumenti irrigiditi per creare una totalità etica che non genera altro se non il senso della propria superiorità. Vedete dobbiamo lasciare qualche spazio per  le divinità e le bambole di pezza.

È questo che significa incontrarsi ai crocevia. Significa vivere come se vivessimo  con e grazie agli altri – perché di fatto è quello che facciamo . Significa acaccorgersi che ogni linea retta è abitata da traiettorie eliminali che la intrecciano, e che la continuità è generata dai luoghi dove  corpi toccano altri corpi. Significa ascoltare la voce di Harriet Tubman (vedi https://it.wikipedia.org/wiki/Harriet_Tubman), uscire dall’autostrada e guadare le acque, trattare con ospitalità le cose che ci accadono. La fine del mondo non è la fine della strada  – una tale cornice è troppo euclidea per essere adeguata ai nostri tempi. Invece, la fine del mondo è lo spirito del chiasma (figura retorica dove le prospettive si intrecciano e rovesciano mentre in  biologia è il punto di contatto, singolo o multiplo, tra cromatidî di cromosomi omologhi durante l’appaiamento NdT), il luogo dove corpi incontrano ciò che li ha fatti. È Il fallimento quanto la munificenza di questi preoccupanti incontri.

Concludo con le moralistiche raccomandazioni che in queste occasioni gli oratori rivolgono agli studenti: non preoccupatevi potete tignorarle del tutto se volete:

  • Questa è l’epoca del fuggitivo, la decade della discesa.
  • Se la vostra competenza è di diventare respons-abili per questi tempi pesanti, mi auguro che sia una competenza balbettante, il genere di maestria che rallenta e ascolta – che vi rende sufficientemente animali da restare sensualmente presenti e percettivi rispetto alle possibilità di cui la superficie non sa nulla.
  • Le cose non andranno sempre come vorrete, e questa non è una cattiva cosa. E’ per questo che noi africani offriamo libagioni. Non solo per ricordare le gioie di una stabilità di origine ancestrale, ma per onorare il dono di una crisi, e – nel momento in cui la bevanda tocca terra e solleva polvere, come a turbare il terreno stesso su cui poggiamo – per profetizzate ai piedi dell’ a-venire impensato e non ancora immaginato. Preghiamo di accelerare la fine per poter vivere. Una preghiera contradditoria.
  • Oggi gli scienziati ci parlano di batteri zombie, biosfere queer e delle loro  civilizzazioni sotterranee, sotto un terreno che un tempo immaginavamo immobile e utile solo per custodire cose morte. Siamo entrati nell’era dell’iposoggeto, del soggetto di sotto; l’età dell sub-scendenza più che della trascendenza. Un invito elettrizzante riempie l’aria: è ora di scendere, di esplorare i nostri fallimenti e la miriade delle loro intersezioni come luoghi porosi, per poter avvicinare ciò che è più che umano.
  • Se siete stati buoni alleati bianchi mi complimento con voi. E anche se ho bisogno di voi non posso restare qui. E questo probabilmente è vero anche per voi. Non posso rischiare di essere incluso in questi luoghi di potere. Occupare la tolda della nave schiavista mi lascia pur sempre qui, ci lascia qui sulla stessa imbarcazione. E non voglio un posto al tavolo, voglio volare via come gli uomini e le donne Igbo che volarono via da Dunbar Creek. Forse nel mio volo potreste accorgervi che nel più ampio fluire delle cose potrebbe non essere così importante essere stati o meno buoni cittadini… forse nel mio volo potreste scoprire che anche voi state diventando qualcosa d’altro. Anche voi siete in movimento e non siete mai arrivati.
  • Non siate così dipendenti dalla ricerca di ciò che è straordinario. Invece invece oggi dobbiamo cercare ciò che è veramente ordinario perché ciò che è straordinario desidera diventare ordinario. Per prendere atto di ciò che è sacro, per essere sensibili alla giocosa indeterminazione delle cose è necessario essere stati sufficientemente perforati. È solo grazie alle ferite che ci sono state offerte da questi grandi mutamenti che diventiamo stranieri.
  • Il nostro lavoro è intergenerazionale. I nostri fallimenti devono essere messi in gioco. Non saremo mai del tutto svegli, finalmente consapevoli o finalmente retti. Dobbiamo accettare che le nostre vite non hanno la durata e la competenza sufficiente per contenere tutte le domande che potremmo esplorare, Perché le vite e le morti non hanno a che fare solo con la durata. Ed è per questo che la morte ha bisogno di una nuova cosmologia.
  • E infine, trovate gli altri. Non so chi siano, che cosa siano. Ma le aperture della nostra carne vibrano con le frequenze del loro desiderio di incontrarvi nella corrente. Trovate gli altri. Ecco una mappa: ascoltate i vostri fallimenti non coprite le crepe, anzi approfonditele. Qualsiasi cosa facciate non cercate di rendere il mondo un posto migliore; Invece considerate che il mondo potrebbe star cercando di fare di voi un posto migliore.  Ascoltate.
  • Devo concludere con la domanda con cui ho iniziato: E se una certa idea di giustizia interferisse con la possibilità della trasformazione? E se il mondo fosse cambiato così radicalmente che dobbiamo imparare a incontrarlo diversamente? E se mio figlio non fosse nella tempesta ma la tempesta? E se la mia genitorialità non consistesse nell’insegnargli a seguire la retta via? Se avesse invece a che fare icon le possibilità congestionate, mostruosamente abbondanti disponibili nelle cose che così sovente impariamo a patologizzarre? E se la mia cosiddetta sanità fosse sempre stata la mia prigione? E se questa ferita messianica mi spingesse verso qualcosa di diverso? Qualcosa di incalcolabilmente più strano di qualsiasi cosa potremmo immaginare?
  • Oggi mentre le grandi strade sanguinano e crocevia fuggitivi nascono dai luoghi di frattura vi auguro di fallire generosamente di conoscere mondi che altri non conosceranno,  di accedere a una tale ricchezza vitale che avremo bisogno di inventare nuove parole per descrivere la grazia e la gravitas della vostra danza nella piazza del villaggio. Che la vostra via sia dura e che gli intralci siano il vostro santuario.
  • Incontriamoci al crocevia.»

Bayo Akomolafe

Qui il link al testo completo e al video della conferenza

https://bayoakomolafe.net/project/lets-meet-at-the-crossroads/

Le scarpe di Esu – da una mostra di Tosha Grantam per la Elegba Folklore Society

Lavorio del lutto e Ethos della Terra

Una paziente che si sta iscrivendo a un master in death studies mi racconta un sogno (e mi accorda il permesso di raccontarlo)-

“sto andando a iscrivermi al primo anno di università…il luogo è immenso come se connettesse due atenei diversi… mi accolgono delle bidelle vestite di blu molto gentili… nessun accademico in vista – una delle bidelle mi accompagna – c’è un lunghissimo corridoio e una sorta di situazione notturna circense-punk un po’ dark nelle varie aule che si aprono – poi  è di nuovo giorno e la bidella vuole che mi metta una tuta per l’esercitazione introduttiva nel prato –  solo in questo momento mi rendo conto che in realtà nel sogno mi sto iscrivendo al mio corso in death studies. L’esercitazione consiste nel tagliare l’erba e mi chiedo se sia l’erba di un camposanto….

Poi il sogno passa all’esercitazione successiva che va fatta con i delfini (associazione – quando muore un piccolo delfino le madri li spingono verso la superficie – non si è ancora capito se per tentare di rianimarli o come forma già rituale di lutto). Nel sogno i delfini prendono dei bambini piccoli (di 14 mesi) e prima li impastano di argilla lasciando fuori solo bocca e occhi – perché seccando grazie all’argilla che ingrigisce i bambini assumono l’aspetto di piccoli delfini –  Dopo averli buttati in acqua i delfini li spingono verso l’alto forse in una simulazione del lutto).”

Non aggiungo molto e lascio a ognuno le sue risonanze. Mi limito a sottolineare l’intreccio nel viaggio di formazione che include le subalternità amiche (le bidelle), lo show queer notturno, il taglio del prato e soprattutto la scena finale. Il tutto nel contesto di un tema che tocca il lutto ma anche la continuità e l’intreccio di vitamorte in una dimensione che mi sembra emerga da un inconscio quasi “prospettivista”

Di questa ultima scena sottolineo solo quanto significativa sia la prospettiva dei delfini, l’idea di un loro punto di vista e di una loro performatività, così come l’inconscio della sognatrice lo propone – il loro accomunare rivestendo di argilla i cuccioli d’uomo per sottolineare l’analogia con i cuccioli di delfino nel rituale del lutto. Entrambi terreni, con un’argilla che accomuna. In ebraico il primo uomo Adam, l’umano, creato dalla terra “a immagine e somioglianza del divino”(!) deriva dalla parola femminile “Adamah” che significa argilla rossa o argilla di sangue…

A me sembra molto significativo che in un corso onirico sulla morte e quindi sul lutto l’accento si sposti sull’insieme del vivente, sulla sua comune origine terricola, chtulucenica – come se l’ethos oggi emergente, la sensibilità affettiva condivisa che porta all’azione, co-generasse l’ethos della terra, dentro e a prescindere dalle differenze nelle prospettive e nelle lotte per il riconoscimento e l’identità…

Ho sentito recentemente parti di un webinar con Rosi Braidotti – che ora è stato tolto dall’etere (e anche questa mi sembra una scelta interessante – che sottolinea, in un’epoca di riciclo continuo di immagini pixellate, l’importanza e la possibilità della presenza anche di quella virtuale). Braidotti citava Viveiros de Castro e De Scola sottolineando che pur non essendo nelle sue corde anche la prospettiva post-secolare  emergente – specialmente nelle culture della resistenza indigena e nell’intreccio vitale dell’entanglement animista – è un aspetto che va ascoltato nella costruzione di una prospettiva di alleanza radicale includent, decoloniale e senza pretesa di “sintesi”.  

Parlando di etica affermativa aggiungeva che una delle parole in voga che iniziano ad andar strette è “vulnerabilità”, una parola che può facilmente diventare materia retorica per quelle tante “fragilità” che alimentano i discorsi populisti,  razzisti e sessisti.  Si tratta invece di fermarsi di ascoltare e imparare dal dolore e dal lutto, di coglierne la portata e il potenziale trasformativo e relazionale.

questo proposito segnalo un link a un articolo molto interessante https://atmos.earth/rest-resistance-colonization-black-liberation/?mc_cid=305a498737&mc_eid=b40fae9603&fbclid=IwAR3C_V2zja6ruWWYriMypTdDjmdFH_9JGQl3dBgVGagwe4KrFsndkDyBma8

L’articolo in questione segnala come le dinamiche performative del capitalismo tolgano insieme al riposo uno spazio onirico e immaginativo cruciale per i processi di decolonizzazione

Aggiungo che una psicologia decente ha imparato a diffidare dall’estrattivismo, anche da quello psicologico. Ciò che agisce lo fa nell’intreccio delle relazioni e delle prospettive. La psiche non è “dentro” e non è “dentro” che va curata ma “tra”…

Se la capacità di attraversare consapevolmente i lutti  è la premessa per acquisire questa qualità relazionale, forse solo da un lutto post-umanista può nascere un ethos della terra… e per post umanista non si intende la negazione dell’umano ma la ridefinizione di un concetto del tutto insufficiente nella sua declinazione storica.

Oggi ho visto Nomadland e a me è sembrato il riconoscimento emergente – persino nel mainstream cinematografico – che la comprensione di ciò che accade nel mondo non possa che nascere dalle crepe, dalle fratture, dalla vita ai margini, dentro e malgrado le rovine del capitalismo. Sarà che ho sempre pensato (e sperimentato) che “per un’anima affamata anche un’erba amara è dolce”, e che l’immaginazione affettiva trova di che nutrirsi,  anche se il capitalismo poi tenta di “sussumere”, di trasformare tutto in merce, ethos della Terra, nomadlanyd, prospettivismoallo stesso tempo la sua logica intrinseca non fa che moltiplicare le crepe. Dentro e fuori.  E non c’è algoritmo che tenga….