Le politiche peri-ferali dell’altrimenti

Bayo Akomolafe

disegno di Victor Brauner

Da un post di Bayo sulle politiche “periferiche” (o peri-ferali) dell’altrimenti per ripensare il modo con cui consideriamo neurodiversità,  identità e in fondo l’idea di razza come una dimensione stabile e non come una postura legata a dimensioni socio-materiali (che include il modo con cui la società considera e si relaziona con le “cose”).

CENTO NOMI PER L’AUTISMO

“In una recente conversazione con la favolosa autrice Katherine May nel suo podcast, How We Live Now, abbiamo ipotizzato che ci potrebbero essere centinaia di nomi diversi da “autismo”, tutti preferibili  al problematico termine adottato da Eugene Bleuler. 

Naturalmente, quando nel 1908 lo psichiatra svizzero Eugene Bleuler, noto per aver coniato un numero significativo di termini alle nostre moderne narrazioni sulle malattie mentali, diede il nome di “autismo” a una curiosa condizione prevalentemente caratterizzata da un ritiro in se stessi, non poteva prevedere che quel nome sarebbe avrebbe attecchito a tal punto. 

Bleuler scrisse in “Dementia Praecox” di una condizione schizofrenica definita da un “distacco dalla realtà” e da una “predominanza della vita interiore”. Il nome “autismo”, da “autos”, cioè sé, concretizzava lo sguardo di Bleuler su questa condizione: la “persona” autistica sarebbe stata incapace di connettersi con il mondo e avrebbe dimostrato un’incapacità a diventare un vero e proprio sé. Il soggetto autistico veniva considerato un automa insensibile e senz’anima, caratterizzato da una forma di auto-riferimento scollegato dalla realtà. 

Oggi, le immagini popolari dell’autismo promuovono la figura di un legnoso automa, insensibile e intrappolato nella sua fredda bolla. May, che si considera autistica, ricorda di aver sentito il mondo intensamente da bambina, chiedendosi perché tutti gli altri le sembrassero morti. 

Mio figlio, Kyah, non si sente affatto “distaccato” dalla realtà; anzi, in confronto a lui, sembrerebbe che lo siano tutti gli altri. Kyah conosce intensità affettive esotiche e troppo sfumate perché la mia postura neurotipica possa rilevarle. Kyah sente… e sente intensamente. Per Eugene Bleuler, l’ ”anima” andava cercata dentro il corpo. Per Kyah e Katherine, l’ “anima” è ovunque, è una forza desiderante  preindividuale che rimodella, convoca, si muove e si intreccia  attraverso confini porosi, creando sulla sua scia la realtà. Forse è per questo che Kyah manifesta una visualità queer, preferisce guardare lateralmente dall’angolo degli occhi,  in modalità peri-ferica, piuttosto che nella  comoda frontalità della “vista bianca”.

Così, quando Katherine e io abbiamo iniziato a pensare a termini alternativi e depatologizzanti per rinominare l’autismo, abbiamo giocato con nomi come “micelismo” e “rizomismo”, tentativi un po’ impoacciati di collegare alle menti umane la vita delle piante, le iniziative dei funghi e le attività ecologiche. Dopo l’intervista, molti altri  termini hanno bussato alla mia porta per candidarsi: c’era il politicamente potente “dis/umano”; “granchiesco” – che sarebbe piaciuto a Enyd Blyton e che celebra il modo in cui mio figlio cammina spesso “di traverso” in pubblico; i giocosi “coddiwomplism” [sbalzarellismo] e “tippie-toes” [detto di chi balla sulla punta dei piedi] , così come il termine caro a Deligny, “aracneo”. 

Poi c’era il lovecraftiano “Cthulhu”, l’archetipico “Ercolismo” (dal nome di Ercole, che in alcuni ambienti incarna simbolicamente l’autismo, dato che Ercole nasce come improbabile amalgama di divino e mondano) e l’Ecatonchirismo, oltre a molti altri nomi che mi venivano proposti da quel corteo di parole che si accalcava alla porta.

Ma il mio preferito è stato il silenzio che è venuto dopo, alla  fine di quella febbrile processione. Non un silenzio vuoto: un silenzio che applaudiva dolcemente, ma che pure mi ricordava che nessuno di quei nomi funzionava del tutto. Ogni nome è un rischio, un’immagine che taglia fuori qualcos’altro. Nello spazio di quel silenzio, posso riconoscere che anche la patologia ha i suoi usi e che, nel tentativo strategico di rinominare e ripensare il termine di Bleuler, rischiamo di romanticizzare l'”autismo”, di decontestualizzarlo o di inserirlo in una narrazione eroica soffocante e a sua volta  violentemente normativa. 

Forse cento nomi non sono sufficienti. Forse un nome solo basta e avanza. Ma dobbiamo continuare a navigare in queste tensioni senza sperare in approdi definitivi Resto vulnerabilmente convinto che “qui” stia accadendo qualcos’altro, e che questo Dio sconosciuto che immortaliamo con il nome di “autismo” segnali un punto critico, un’oscillazione ad alta densità nella città che si condensa in quel luogo sottile dove qualcosa di eccezionale preme sulla membrana che lo separa dal familiare. Credo che qui ci sia una politica, una pedagogia, una prassi che non può essere ricondotta a termini come riabilitazione, patologia e spicciola concretezza – così come le sostanze psichedeliche che introducono individui pixelati nei loro più vasti corpi, nella loro anima diasporica, non desiderano essere strumentalizzate  sul piano strettamente medico o ricondotte  alla grammatica del trauma. 

In ogni caso, sto scrivendo la storia di un giardiniere che si arrabbia nel tentativo di dare un nome a una pianta che non rientra nel suo sistema classificatorio. L’ho intitolato “Il manicomio dei sani di mente”.

Bayo Akomolafe

[da un post su fb]

***

L’identità Nera non è una strategia di emancipazione. Semmai è stata una utile strategia di compromesso. Ci riuniamo attorno a tracce melaniniche ed esperienze eterogenee per tessere una narrazione unificata e prescrittiva che imponga le nostre rivendicazioni allo Stato, e poi speriamo in riforme abbastanza generose da includerci in quelle libertà che lo Stato stesso sponsorizza. Il problema è che – ancora una volta – le libertà che cerchiamo sembrano ironiche ricapitolazioni della nostra sottomissione. Avremmo bisogno di un’altra nozione di nerezza, una nozione non identitaria che includa campi più ampi, che colga i modi ecologicamente vibranti in cui i corpi sono mediati e modulati e orientati e attivati al di là dell’identità. 

Questa linea di fuga è un diventare neri. Non un diventare “Neri” [la maiuscola come rivendicazione identitaria], ma un diventare “neri”. Un diventare-mostri. La licenza di potersi smarrire, di deviare dalla rotta. Di diventare impercettibili. Qualcosa che va oltre la necessità di costruire nuove istituzioni, di ottenere vittorie legislative, di ricevere risarcimenti o ottenere maggiore rappresentanza e visibilità. Il diventare nero di cui parlo è una sperimentazione di nuove affinità sensoriali, di nuove soggettività, di nuove intelligenze. È una soglia verso nuove posture a cui alcuni corpi, identificati come neri o meno, possono avvicinarsi a partire da specifiche condizioni sociomateriali. 

La nerezza di cui parlo è una neuro-indeterminazione (che precede sia la neurodiversità che la neurotipicità). E questo diventare neri cristallizza anche una diversa relazione con la neurodiversità, invita a una politica di sperimentazione, di accompagnamento, di animalità periferica (o meglio, peri-ferale) – non di adattamento forzato. Questa nerezza non ha altro. Non è un modo di essere, un’identità, una fase, un punto stabile da raggiungere. È piuttosto la continuità delle cose che ci libera drammaticamente dal peso del piglio colonizzatore bianco e dal suo bisogno di nominare tutto. È una virtualità immanente che scardina la prigione individuale.

[Estratti dal saggio ‘Black Lives Matter, But to Whom?’ (“Le vite nere contano, ma per chi?”)].

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