
Non riesco a dar conto in modo compiuto della ricchezza di questo volume, “L’avanguardia dei nostri popoli – per una filosofia della migrazione”, uscito da pochissimo per Cronopio e curato da Andrea Cavalletti e Gianluca Solla e a cui ho avuto il grande piacere di dare un contributo.
Mi limito solo a qualche spunto essenziale.
Cavalletti e Solla iniziano ricordandoci la citazione di Hannah Arendt nel suo famoso articolo We refugees (1943):
«I profughi costretti di paese in paese rappresentano l’avanguardiadei loro popoli (…) il consesso dei popoli europei è andato in pezzi quando, e perché ha permesso che i suoi membri più deboli fossero esclusi e perseguitati.»
«In pieno Antropocene”, proseguono i curatori, «mentre sui grandi spazi biopolitici premono inarrestabili spinte migratorie, l’esclusione e la classificazione sociale sono il marchio della pandemia e la persecuzione si trasforma in nuove forme di selezione, cioè di esposizione o di abbandono alla morte, la diagnosi arendtiana non solo appare ancora attuale, ma suggerisce nuove strategie interpretative, indicando anche il compito a un’odierna “filosofia delle migrazioni».
La raccolta include un’intervista a Viveiros de Castro, l’antropologo che più ha insisistito sulla svolta ontologica sul rispetto cioè delle ontologie e delle ecologie degli altri.
Con Deborah Danowski la filosofa sua compagna ha inoltre esplorato la genealogia di questa prospettiva da Simondon a Deleuze. Viveiros de Castro e Danowski ci suggeriscono che «l’Antropocene ci imporrà di confrontarci con molti limiti, sia antichi che nuovi. Ma vogliamo anche suggerire che quando dei mondi finiscono o si chiudono, altri si aprono: ed è in questi ultimi che dobbiamo imparare a “vivere con” – to stay with the trouble, come ha proposto Donna Haraway.»
E’ un tema esplorato a fondo in questo volume sin dall’introduzione:
«A causa della colonizzazione del vivente e di ogni sua espressione operata dal capitalismo, infatti, “non si dà alcuna possibilità”nel mondo in cui viviamo. Tutt’al più assistiamo a “misere varianti del passato” o a “piatti rovesciamenti dell’esistente (che alla fine non rappresentano niente di diverso, bensì solo il negativo dell’esistente, identico a esso per l’essenziale)”. Se le possibilità si sono consumate e qualcosa come una vita autentica da un punto di vista politico si profila forse tra le nostre esigenze, ma non si vede il modo in cui realizzarla, le stesse spinte rivoluzionarie sembrano spesso accontentarsi di ripetere l’esistente o, peggio ancora, di riaffermare la loro posizione, incapaci di qualunque movimento che non si esaurisca in un “rovesciamento” immaginario, operato a partire dal paradigma dominante e soloall’apparenza libero dal suo condizionamento (…) In questo senso occorrerà dire che profughi, apolidi, migranti, non costituiscono solo l’avanguardia dei “loro” popoli, come scrive Arendt, ma pongono in causa anche il nostro richiamarci, spesso in maniera piattamente convenzionale e abusiva, alla denominazione di “popolo”. Essi sono l’avanguardia dello stesso essere popoli di coloro che hanno ceduto al dominio capitalistico dello spazio e del tempo, per violenza o perché esso prometteva e garantiva benefici, di cui altri avrebbero pagato il prezzo (…) Trovare una via di fuga significa stringere nuove alleanze, concepire una nuova solidarietà, riconoscere i segni fecondi della realtà nelle vite sommamente minacciate, cogliere ciò che in ogni vita resta al di qua delle qualificazioni a cui viene abitualmente sottoposta. Per far questo è innanzitutto necessaria la conoscenza e l’analisi dei dispositivi di inclusione e di esclusione che plasmano le nostre soggettività, definiscono il nostro habitus, stabiliscono i nostri modelli discorsivi, limitano gli stessi campi di definizione del sapere.»
E’ significativo che Cavalletti e Solla sollecitino a un lavoro transdisciplinare che trascende i confini spesso limitati e limitanti della disciplinarietà accademica:
«l’allentamento delle stesse divisioni disciplinari, che essendo espressioni della struttura economica impediscono anche solo di immaginare un’uscita dal suo dominio, non è unicamente un problema teorico: esso può condurre alla scoperta e magari alla praticabilità di legami inediti e di nuove solidarietà, capaci di trasformare la stessa debolezza dei più deboli nella linea di resistenza di tutti coloro che intendono lottare per salvarsi.»
Concludo allora con una citazione dal mio contributo, “L’esilio sovrano”
«Nel Nuovo Regime Climatico che abitiamo, la Natura ed i non-umani si impongono come soggetti dotati di esistenza politica, da cui l’umano dipende e con cui ri-negoziare alleanze per una nuova coabitazione. Ma le nuove alleanze possono essere tessute solo dopo aver realizzato un’operazione di riconoscimento e di ricomposizione descrittiva del mondo: è necessario capire con chi si sta coabitando, per decidere come co-abitare.
In questo emergente rapporto con la Terra, che è anche una “guerra di mondi” dove il conflitto può nuovamente diventare generativo, l’esilio dei popoli si trasfigura in nuove figurazioni dell’appartenenza, dell’essere-insieme in un esilio condiviso che un po’ alla volta trova cengie, scarti, frammenti di incontri, che viaggiano tra il di là dell’origine e il qui ed ora dell’esilio; prefigurazionidi un luogo mobile e abitabile perché amato e immaginato anche nell’esilio, ancora e ancora, pur dentro alla sconfitta e al pane amaro ma, a volte, anche oltre e al di là di ogni amarezza in ciò che accomunando, nell’esperienza della vita (genitivo soggettivo – è la vita che esperisce) diventa anche intimamente proprio.»
