
Bello il convegno del 26 febbraio al Giardino dei Ciliegi dove Clotilde Barbarulli ci ha invitato a ricordare Liana Borghi. A cui era carissima la pratica della “diffrazione” , come campo indeterminato di creazione continua del possibile. Di fronte alle catastrofi del pensare e dell’agire che includono il colonialismo discorsivo ed epistemologico gli interventi hanno evocato le eredità generative di Liana e delle suo sentir-pensare, dalle prospettive “post-queer” su cui rifletteva Marco Pustianaz alla constatazione che nelle sue relazioni poetico-politiche Liana coglieva l’emergere di un “entusiasmo che precede” come ci ha ricordato Gaia Giuliani, cosa che porta diffrazione alle “utopie” mettendo in gioco un tempo profondo e dislocato (“deep time”), un futuro passato che si intreccia con le cose a-venire, riattivando capacità esiliate o menti parallele. Una visionarietà sospettosa di ogni ideologizzazione e di cui oggi c’è più che mai bisogno. Nel ricordare Liana e la passione con cui ha accompagnato anche noi in Clinica della Crisi pubblichiamo di seguito l’intervento che Maria Nadotti ha presentato al convegno.
Disseminare
Maria Nadotti
26 febbraio 2022
Potrebbe essere un’epoca straordinariamente interessante questa nostra.
Tutto è in mutazione: il lavoro, la didattica, il rapporto stato/cittadin*, lo statuto dei corpi, il nesso salute/mercato, la strumentazione tecnologica, le forme della comunicazione, i linguaggi, le forme associative e la rappresentanza politica, il concetto stesso di vita e le categorie di valore cui essa tradizionalmente si accompagna (libertà, dignità, bene comune), la relazione tra ‘vivente’ e ‘non-vivente’, la percezione dell’altro da sé, persona/albero/animale/virus/lembo di terra che sia.
Tutto ciò, naturalmente, è in mutazione da tempo. L’elemento di novità è l’accelerazione con cui il cambiamento si sta, grossomodo dagli anni Novanta del secolo scorso, manifestando. Si rischia – alla lettera dall’oggi al domani – di rimanere indietro, di perdere un pezzo, di disorientarsi, di non capirci più niente e, dunque, di delirare, allucinare, scambiare panche per tavoli. Oppure – ed è quello che più umanamente siamo tentati di fare – di rinchiuderci nel nostro particolare, di difenderlo con le unghie e con i denti, di mimetizzarci come fanno i lombrichi quando si acciambellano sotto il terreno, aspettando che passi.
Il fatto davvero inedito di questa nostra epoca è che, forse, quel che oggi è in corso non passerà, perlomeno non in tempi commisurati al nostro modesto tempo di vita. E questo, inevitabilmente, ci costringe a pensare ripensandoci, a guardare/ascoltare con maggiore attenzione l’habitat in cui siamo immersi e a riflettere in modo attivo sull’habitus cui in modo più o meno distratto, inerziale, difensivo o inconsapevole facciamo riferimento. Che margini di scelta abbiamo, per esempio? Quali sono le decisioni che possiamo prendere e quali ci sono interdette? Qual è il nostro bene e quale il nostro male? Di chi possiamo fidarci? A chi dobbiamo affidarci? È ancora possibile, verosimilmente, lottare? E, se sì, per cosa, insieme a chi e contro chi? Che scarto c’è, oggi, tra vita e sopravvivenza? È possibile pensare l’una scissa dall’altra o, in altri termini, separare la sopravvivenza del corpo dalla morte dell’anima, dello spirito, della coscienza cui è stata impedita la vita? Cos’è che tiene in vita una vita e la rende degna di essere vissuta?
In ogni caso, là dove la confusione regna sovrana, dove l’ipotesi vale fino alla sua prossima e prevista smentita, che si obbedisca o si disobbedisca, che si rispetti la legge o ad essa si trasgredisca, fa un’unica differenza: l’obbedienza alimenta il caos, la disobbedienza lo interroga.
Le foglie, quando d’autunno cadono, agiscono liberamente o è il loro destino di foglie a produrre, a tempo debito, il loro distacco dal ramo? Oppure è il vento che spira da Nord a spezzare il filo che le lega all’albero e a condurle a una nuova vita? Può una foglia disobbedire?
La lingua tedesca ha due termini per indicare il corpo. Körper e Leib: il primo è il corpo che occupa uno spazio ed è un oggetto tra gli altri, il secondo è il corpo proprio, umano e mio, come correlato dell’anima, della coscienza, di un soggetto che sente e percepisce. Oscillare tra la libera scelta e la suggestione altrui non è forse esattamente l’esito di questa dualità intrinseca al corpo, corpo/materia, corpo/cosa di contro al corpo/coscienza, corpo/intelletto. Possono, le due cose, essere scisse senza produrre il disastro?
Ed eccomi a Liana, un’amica molto cara e una delle intelligenze più lucide e inascoltate di questa nostra Italia che si sta inabissando nel non-pensiero e in una sorta di opacità emotiva e affettiva. Liana, di sé, diceva che sentiva/pensando, che la sua testa e il suo cuore lavoravano all’unisono. Chi l’ha conosciuta e ha studiato, esplorato, costruito, organizzato, chiacchierato, mangiato, viaggiato, riso insieme a lei sa che per lei non c’era soluzione di continuità tra il pensiero e il corpo con i suoi piaceri, le sue furie, i suoi dolori, le sue paure, le sue vulnerabilità.
È da lì che nasce quell’impasto formidabile di idee e di sentimenti che rendono il femminismo di Liana così peculiare nel panorama dei femminismi italiani, così mosso, così recisamente nemico degli approdi ideologici, così in divenire, così aperto e pronto ad accogliere, così critico e autocritico.
Fino all’ultimo, davvero fino alla settimana prima di staccarsi fisicamente da noi, Liana ha voluto indagare con alcune/i di noi quella che le sembrava una delle proposte politiche e teoriche più interessanti nel panorama mondiale, quella che ci è arrivata da Bayo Akomolafe, interprete amoroso delle analisi femministe neomaterialiste e de-generi di Karen Barad.
Mentre i femminismi italiani continuano, se pur variamente, a parlare di identità di genere, della loro moltiplicazione come fenomeno emancipatorio, atto trasgressivo di indisciplina rispetto a un canone duro, o potenziale e nefasta cancellazione del ‘femminile’, Liana proponeva la via accidentata della disidentificazione, dello sganciamento progressivo dal bisogno di definirsi, di stare dentro o fuori da un riconoscibile e roccioso ‘io sono questo’.
La sua instancabile ricerca non del nuovo, ma dell’a venire e dei segni che già lo annunciano, scompigliando e problematizzando le quiete acque dell’attivismo femminista contemporaneo, prendeva forma in un vero e proprio metodo di lavoro:
Liana faceva e si faceva domande, e poi si metteva in ascolto, alla lettera ascoltava le risposte e tentava di darsene, creando un vortice collettivo di voci e raccogliendo l’ansia, lo smarrimento, la paura che ad esse si accompagnavano e mitigandoli proprio attraverso quell’amorevole lavoro di tessitura che ha caratterizzato la sua pratica femminista. Accogliere, tenere e mettere insieme.
Si situa qui la sua formidabile opera di ‘importazione’, ‘traduzione’ e ‘disseminazione’ di pensieri, scritti, pratiche provenienti da geografie, culture, lingue lontane da noi. Non per convincere o sedurre, ma per discutere e differenziare. Esplicitare la diversità per tenere davvero insieme, esplorando la potenziale ricchezza insita nel difforme e cercando quegli elementi che creano amicizia politica e comunanza anche là dove le idee sembrano divergere.
Un femminismo affettivo quello di Liana, capace – soprattutto in questi ultimi anni – di assumere la dissodisfazione, l’harawayano ‘staying in truble’, la nostra comune e inevitabile mortalità come miccia al pensiero e all’azione, come antidoto tanto alla rassegnata meditazione quanto al generoso ma cieco attivismo.
Segnalo in particolare la fermezza con cui Liana ha messo a tema la necessità di interrogarsi sulle parole, le silenziosità, le disfunzionalità, il senso di disagio che segnano noi e i nostri corpi. Come chiamare, per esempio, il corpo, oggi, qui, tra pandemia, guerre, metaverso e deliri di onnipotenza? Come rientra il ‘femminile’ o il ‘maschile’ in questa desolata terra di nessuno, che fa del corpo (di chi? di quant*?) l’assoluto a perdere e l’assoluto a conservare? Come cercare modi alternativi di capire le cose e come condividere tra di noi forme che ci sembrano funzionare? Come allineare il corpo con il mondo attuale? Come dare voce alla nostra rabbia senza esserne soffocate? Come riconoscere l’inadeguatezza dell’attivismo tradizionale senza precipitare nella passività, nella depressione, nella rassegnazione o nel cinismo? Come fare attivamente comunità in un mondo che sta costruendo la distanza e la separazione come nuova sfera pubblica?
Concludo con un pensiero ‘fantascientifico’ di Liana: se il mondo viene ‘fatto’ nominandolo, urge inventare parole/concetto inedite, spiazzanti, eversive, che non si limitino a rispondere alle parole dell’altro nella lingua dell’altro. Proviamo ad abbandonare il già noto e quel sottile, rassicurante velo di nostalgia che lo accompagna. Proviamo a muoverci al buio, mettendo al lavoro altri sensi e altri sentimenti. Per esempio, oggi, non la solita retorica femminista da cane di Pavlov contro la guerra in Ucraina (con i suoi slogan aberranti, tipo “Fuori la guerra dall’Europa”), ma la dura interrogazione su dove sia la pace oggi nel mondo e su come possa esprimersi, nei fatti e nelle parole, il pacifismo dei femminismi contemporanei.