La guerra e i suoi fantasmi

Post Apocalyptic Art by Vladimir Manyukhin

(1) Stranamore impenitente

In  Psicoanalisi della guerra Franco Fornari sistematizza una serie di considerazioni che evidenziano come il contributo psicoanalitico offra spunti di comprensione della dialettica affettiva necessaria per far fronte alle reazioni collettive e individuali e alla distruttività anche inconscia in atto nel fenomeno guerra. La psicoanalisi in questo senso ha un contributo da offrire a quanti trovano difficile ignorare il carattere assolutizzante di argomentazioni animate da ragioni incontrovertibili. Esistono infatti difese apparentemente razionali che si intrecciano con profonde angosce psicotiche. Tali sistemi di difesa paranoidi espellono il conflitto interiore e non ammettono dubbi perché devono mettere a tacere le nostre più distruttive pulsioni anche a costo di esternalizzarle concretamente su un nemico in carne ed ossa. Ogni presa di posizione rispetto a un conflitto non è solo razionale ma implica un processo che porti a una forma di discernimento, discernimento  che nasce dalla disponibilità a riconoscere quanto queste istanze inconsce condizionino le nostre “libere” decisioni.  

Prima di ragionare sull’auspicabilità della guerra come soluzione ai torti subiti dalle nazioni, alle colpe dei tiranni e dei loro interessi, bisognerebbe non trascurare fattori irrazionali che potrebbero ostacolare per gli attori (è il caso di dirlo) in gioco un corretto esame di realtà, e in particolare quelle diffuse e trasversali difese da angosce persecutorie che strutturano la guerra come elaborazione paranoica del lutto, che è poi l’intuizione centrale delle scomode tesi di Fornari.

“Quando una realtà distruttiva viene coperta da simboli d’amore esiste la possibilità che ciò costituisca una operazione destinata a coprire profonde angosce depressive o persecutive e che tale occultamento abbia in sé grande probabilità di predisporre colui che lo fa a distorsioni gravi nell’esame di realtà e quindi a non trovarsi nelle condizioni di poter prevedere correttamente le conseguenze possibili dei suoi atti”.

La guerra – che viene più o meno esplicitamente pensata come ineluttabile dispositivo volto a garantire sicurezza – sarebbe allora anche un’istituzione volta ad anestetizzare profonde angosce persecutorie. Una “formazione reattiva” volta a difenderci da un fantasma ancor più Terrificante. Come un iceberg – diceva Fornari – il sistema di sicurezza ha una parte visibile (la difesa dal pericolo di un nemico esterno) e uno invisibile, la difesa da un nemico interno e assoluto volto ad annientarci, un persecutore che a volte prende una forma indefinita nei peggiori incubi e che potrebbe travolgere anche i nostri cari. L’amplificazione paranoide che proietta il Terrificante su un nemico esterno paradossalmente ci difende tacitando – per un tempo – quell’angoscia di morte che la situazione atomica, la crisi ecologica planetaria e la pandemia hanno trasformato angoscia da annientamento assoluto. Qui i confini tra il delirio psichico e la realtà sfumano perché la situazione atomica concretizza fantasmi distruttivi che coincidono almeno in parte la possibilità latente di una sadica e folle onnipotenza.

La fibrillazione aumenta e con essa le difese paranoidi – ci si aggrappa a vecchie certezze e soluzioni, si razionalizza come se tutto fosse assolutamente chiaro ed evidente.

Ma la caratteristica del “nemico” interno è subdola proprio in quanto radicata in una possibile deriva onnipotente, invisibile, che la cultura ci racconta con il volto di Caino che uccide Abele o di Atreo che nutre Tieste cucinandogli i resti dei suoi figli dopo averlo invitato a una supposta conferenza di pace. È la stessa amplificazione persecutoria che rivela la nostra distuttività che se si scatena può portare a uccidere la persona amata (generalmente una donna) nella percezione di un irreparabile torto subito.

Trovare nemici esterni da uccidere, trovare un nemico reale, per quanto ci metta a rischio, ci rassicura per un tempo dalla paura che un delirio di annientamento prenda il sopravvento senza che ci si possa far qualcosa. Soprattutto ci protegge dal timore che ciò abbia a che fare con una distruttività capace di attaccare persino ciò che amiamo. Difendiamo allora la verità del nostro supposto amore a tutti i costi.

Freud chiamava questo processo deflessione all’esterno della pulsione di morte, pulsione che prende forma nella psiche umana in fantasie di onnipotenza sadica distruttiva e che tuttavia le culture tentano di affrontare in modi diversi. Una pulsione che ha probabilmente la sua radice in una specifica consapevolezza di vulnerabilità delle comunità umane tanto più grande quanto più separate dalla percezione di un più ampio metabolismo, dalla biofilia costitutiva dell’esistenza, sostituita da un delirio di eccezionalità.

Non è tuttavia sufficiente descrivere queste dimensioni pulsionali distruttive come parte di una universale esperienza umana. Secoli di modernità coloniale hanno strutturato anche a livello inconscio una separabilità, un desiderio di controllo e dominio che rafforza ogni diniego e allo stesso tempo legittima ogni forza e ogni sopruso in nome dei soprusi subiti. 

da “Il dottor Stranamore” di Stanley Kubrick

Tuttavia non tutti i dispositivi delle culture elaborano allo stesso modo la vulnerabilità che ci accomuna a tutto vivente e che molte tradizioni riconoscono nella radice precisa del dover mangiare (letteralmente) altre vite – sapendo al contempo di essere parimenti a rischio di essere mangiati. In anropologia, Viveiros de Castro, De Scola e altri hanno evidenziato che tale “prospettivismo”  relazionale mentre non nega le pulsioni distruttive resta profondamente eco-sistemico.  Al di là di ogni esotismo romanticizzante, le culture metaboliche che nutrono un sentimento di continuità con il mistero del nostro esistere e passare, che non negano l’aggressività ma non la trasformano in guerra, genocidio, ecocidio sono anche culture in cui si pratica la via dei sogni animati, dell’incanto e della meraviglia, illustrazioni di una Terra Vivente  al di là delle nostre povere immaginazioni. E che riconoscendo la distruttività come intrinseca all’esistenza se ne fanno carico altrimenti.

Da “Come pensano le foreste” di Edouardo Kohn


Lo stesso Fornari lo aveva già intuito quando in Psicoanalisi della situazione atomica (1964) scriveva:

« Uno dei risultati dell’inflazione intellettualistica della società occidentale sembra legato all’oblio da parte dell’uomo cosiddetto civile della capacità che ha invece l’uomo [cosiddetto] primitivo di responsabilizzarsi di fronte al proprio inconscio

Questo oblio oggi viene alimentato ipnoticamente, catturato da una fascinazione collettiva per il riarmo, a un tempo ideologica e post-ideologica, che sembrerebbe avere funzione di difesa maniacale dai lutti profondi che la situazione generale del pianeta impone.  Uno dei sintomi lampanti di questo squilibrio è la demonizzazione del dubbio e della libertà di pensiero. 

La valenza ipnotica della situazione spinge a relativizzare il potenziale distruttivo del conflitto tra visioni geopolitico-economiche dei blocchi egemoni contrapposti. La possibile dimensione atomica del conflitto viene relativizzata anche quando le stesse parti in causa la evocano. Se i regimi totalitari non hanno scrupoli nell’imporre questa logica difensiva le (post)democrazie liberali rivendicano il valore morale (sempre più evanescente) della loro storia attraverso dispositivi retorici che evocano i traumi collettivi del passato. Questo copia e incolla che taglia la testa al toro e ignora i contesti trova in alcuni la forma dell’appello a una scelta inedita e radicale tra libertà e vita.Per alcuni, a sinistra, l’appello al riarmo prende a riferimento la Resistenza. Come se la storia non sia stata abitata da altre forme di conflitto violento che avevano a che fare più che con la liberazione dall’oppressore con le logiche delle sovranità nazionale e imperiale. Mussolini, per esempio, aveva fatto del culto della Grande Guerra, dell’interventismo, del prezzo di sangue pagato dall’Italia, il baluardo della sua retorica nazionalista. E difatti la destra gongola per  l’opportunità ghiotta che questi appelli offrono a un analogio trionfalista spirito guerresco. Appelli che scindono l’unità costitutiva di vita e libertà così come abbiamo scisso l’atomo. Un binarismo insostenibile dato che libertà e la vita abbondante e indeterminata (Zoe) sono strettamente correlate, specialmente oggi che la vita del pianeta tutto viene messa a rischio non solo dalle tentazioni di alzare la posta del coinvolgimento delle potenze atomiche ma anche dalla catastrofe ambientale.  Una situazione fche rischia di svalutare le possibilità di resistenza più profonde dell’umano. Per alcuni la scelta della libertà come massimo valore etico imporrebbe il riarmo anche a costo della distruzione della vita stessa. Vale certamente combattere per ciò che conta e ogni resistenza anche quella dei contadini anarchici che gridavano ben prima del franchismo “viva la muerte” scendendo per i campi contro Napoleone si radicava in un desiderio di buona vita più che nella mera pulsione di morte. Tuttavia, in un conflitto che contrappone l’aspirazione geopolitica di potenze nucleari,  l’appello al riarmo e alla guerra  mi sembra abbia davvero poco a che fare con le lotte dei partigiani.

La situazione atomica e l’intreccio globale dei problemi rendono la vita da salvare innanzi tutto non quella individuale o quella delle nazioni e dei loro interessi geopolitici ma quella del pianeta, condizione di vita, futuro e libertà per tutti. 


Dire che la libertà è un dovere supremo come ha recentemente titolato il direttore di Repubblica mi sembra del resto un doppio messaggio, un ossimoro paralizzante e ipocrita ancor più da quando la pandemia ha consentito ai governi di strutturare le ansie collettive organizzando con politiche sanitarie obbligate la limitazione di movimento e persino per alcuni la libertà di lavorare –  imponendo misure di confinamento e di libertà limitata e differenziale come condizione per poter tornare a “essere liberi”,  cosa che nell’equazione del discorso corrisponde alla supposta normalità dello status quo mentre le cause profonde del dissesto ambientale, ecologico, economico e politico restano occultate. Il senso della libertà viene così ridotto al dovere del consenso. Tutto ciò ha reso impossibile un vero passaggio depressivo, un lutto riuscito che prenda atto del dis-astro che la modernità coloniale ci lascia in eredità. Parlare di un dovere supremo nei confronti del valore  libertà mi sembra allora un artificio retorico che non sconferma la tendenza a una governance post-democratica consensuale che si appoggia anch’essa come nella più evidente razionalità difensiva dei regimi a “formazioni reattive” che gestiscono a modo loro le profonde ansie depressive. Il palliativo rassicurante dell’adesione di massa a un supposto bene comune sembra avere valenze ipnotiche fortissime a destra come a sinistra. 

Il tentativo di utilizzare la guerra per rafforzare il sentire di una identità Europea fortificata e fondata sulla supposta superiorità etica delle sue radici culturali mi sembra faccia parte della medesima deriva anti-storica, nel senso che rifiuta di prendere in carico proprio le eredità non elaborate nella costruzione violenta del progetto della modernità coloniale nel suo rapporto con le risorse e i popoli.

Senza nemmeno parlare delle politiche migratorie a due pesi e due misure, dei milioni di rifugiati siriani confinati nei campi in Turchia , delle migliaia segregati nella foresta tra Bielorussia e Polonia a cui non viene concesso di passare, della profilazione razziale alle frontiere per gli studenti africani che fuggono dall’Ucraina, delle corsie preferenziali che segnalano una visione nazional-identitaria che riduce e inquina ciò che la stessa storia dei conflitti mondiali aveva insegnato sul ruolo cruciale che i rifugiati portano alla comprensione della storia.

Lo ha ribadito benissimo recentemente Didi-Huberman in “Passare a ogni costo”:

Tutti questi movimenti di migrazione hanno un nome generico: la cultura. Non la cultura dei «programmi culturali» o dei «ministeri della cultura», ma la cultura nel senso antropologico del termine, ciò che rende cioè gli umani quegli esseri capaci, non solo di parlare, lavorare e inventare attrezzi, o magari opere d’arte, ma anche di vivere in società, parlarsi, inventarsi, immaginarsi l’un l’altro. Quando una società comincia a confondere il suo vicino con il nemico, o lo straniero con il pericolo, quando inventa istituzioni per mettere in opera questa confusione paranoica, allora possiamo dire, secondo la logica storica – e non da un semplice punto di vista etico – che sta perdendo la propria cultura, la propria capacità di civiltà.”

Chi si schiera per la cultura, intesa in questo senso, pare oggi colpevole di ignavia terrapiattista (ancora Repubblica) o di nascondersi dietro sofismi astratti, ma ragionare, o meglio sentir-pensare, non significa né scegliere la scorciatoia del tifo né mantenere una indifferente equidistanza –– significherebbe piuttosto considerare la necessità di una più ampia prospettiva che faccia i conti con le varie forme di diniego in questo grande dissesto e prendere posizione per il pianeta come condizione primaria per la continuità di un processo che garantisca vita e libertà. Al di là dei proclami e degli imperativi emergentiche impongono di schierarsi un barlume di consapevolezza di questa altra urgenza non è forse estraneo agli uni come agli altri.

Forse chi saprà riconoscere la possibile catastrofica deriva che queste difese inconsce amplificano, senza timore di dis-fatta, si dimostrerà all’altezza del’umiltà necessaria oggi nel momento del pericolo.

Ma sulla lezione di Fornari su psicanalisi e culture di pace sarà bene tornare. (continua)