Ancora su ethos

art by Curiot

Condivido un breve frammento autobiografico che idealmente dà conto del mio interesse per le questioni poste dall’articolo su Ethos e Ethnos pubblicato su Jacobin.

«Ho capito l’importanza dell’ethos ripensando agli otto anni trascorsi in Turchia all’uscita dall’adolescenza, tra gli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta, nel corso della prima età adulta, in quell’età della vita in cui si va inconsciamente alla ricerca della propria linea d’ombra. Le energie idealiste che mi animavano trovavano risonanza nella bellezza dei luoghi, nel respiro di una umanità solidale e desiderante in condizioni di vita che l’occidente non avrebbe trovato accettabile, in forme di ospitalità del tutto nuove. Ma intravedevo la linea d’ombra nella pesantezza dell’istituzione militare, nel gigantismo architettonico del mausoleo ad Atatürk, nelle condizioni di povertà estrema di molti, nell’intreccio di autenticità e inautenticità di attaccamenti affettivi estremi, in una sorta di follia sacrificale rivoluzionaria in chi osava ribellarsi allo status quo, nella violenza dello stato, nella dispersione dell’umano negli ospedali e nelle prigioni, nel buio assoluto di certi lutti, in un fatalismo disperato e cieco. 

All’epoca la dimensione totalizzante prevaleva nelle ideologie politiche più che in quelle religiose. Il partito islamista raccoglieva circa il 3 per cento dei voti. Una sera mentre tornavo a casa fui fermato da due signori che tirando fuori una pistola mi interpellarono sul perché portassi così i baffi. All’epoca, in Turchia, i baffi erano importanti: in giù di sinistra, in su di destra? o viceversa, non ricordo, e anche allora la cosa mi sfuggiva. Quando dissi che ero italiano e dunque estraneo alla loro moda dei baffi mi chiesero cosa però pensassi di Mussolini. Mi finsi un po’ tonto e mi lasciarono andare. 

In generale però nelle relazioni umane prevaleva un sentimento che coniugava la protezione del proprio spazio privato e familiare, delle proprie appartenenze, con l’apertura allo straniero e l’orgoglio ideale di un’inclusione sempre possibile (a prescindere dalle impossibilità burocratiche).  Qualcosa, comunque, a lungo mi aveva fatto sentire “a casa”.

 Per un tempo sono sopravvissuto suonando la chitarra nei caffè e nei ristoranti delle grandi città. I turchi quasi sempre generosissimi, mi dicevano che ricordavamo loro gli ozanlar, i cantastorie itineranti della tradizione sufi. Ho girato l’Anatolia in autobus e autostop. Dormito dove non arrivava l’elettricità e la sera si accadevano ancora le lampade a gas. Allora non lo sapevo ma ogni cosa per me era esperienza dell’ethos: non solo il cibo, l’appello del muezzin, gli odori, le case di legno nella vecchia Istanbul lungo un Bosforo che appariva sognante e ricco di memorie. Ogni cosa pareva mediazione tra la sfera onirica e la realtà: nelle più diverse situazioni venivo accolto con il valore istintivo dell’ospitalità mescolato all’orgoglio di esibire il meglio delle proprie radici: dal venditore di strada con cui facendo la spesa mi fermavo a chiacchierare, al barbiere che mi avvolgeva la faccia di salviette caldissime dopo avermi passato un rasoio affilato sulla gola, o partecipando in un’atmosfera di festa e di benvolere alla fine del Ramadan. Come in una storia delle Mille e una notte un facchino con cui avevo fatto amicizia una sera spese lo stipendio di un mese per invitarmi in un night ad ascoltare una sorta di melopea arabeggiante che mi ricordava, a me che ero cresciuto a Jimi Hendrix e Doors, gli accenti emotivi della musica melodica napoletana.

Ho persino lavorato per un anno in un asilo privato per i bambini delle buone famiglie borghesi di Ankara. Insegnavo un po’ di inglese ai bimbi di cinque anni, li facevo disegnare. Giocavamo. Mi sono divertito molto e ho imparato molto… Çiçek era la donna delle pulizie, portava il foulard e i pantaloni larghi a fiori, gli shalvar. Era molto alta con un volto irregolare, espressivo, sempre un po’ triste. Assomigliava straordinariamente alla protagonista di Ethos. Aveva un bambino di cinque anni che di solito teneva con sé in cucina. La signora N., la padrona dell’asilo, mi aveva permesso di includerlo nel gruppo. Quando sono partito Çiçek mi ha fatto due regali, una cravatta e un portachiavi a forma di “scimitarra dell’Islam”. Ho spesso ripensato a quei regali e al loro valore simbolico che ibridavano l’identità europea (la cravatta) e le radici di un’altra appartenenza (la scimitarra). Anche se si trattava di due emblemi virili, il dono era già un ponte al di là dei binarismi perché questa donna ci teneva a dirmi che apprezzava il fatto che mi occupassi di suo figlio, che la cura non spetta solo alle puericultrici, che l’uomo può fare la propria parte e che questo non lo sminuisce, anzi. 

Le sarò sempre grato del coraggio di quel riconoscimento.

Ethos.»

Öykü Karayel che interpreta Meryem nella serie tv Ethos