La tartaruga e la cavalletta

OVVERO “IL MITO DEL RICERCATORE NELLA GABBIA DORATA”

Bayo Akomolafe

Una storia

Da dove vengo io, da qualche parte nella regione centro-occidentale della Nigeria, in Africa occidentale, dove il popolo Yoruba ha fatto casa per generazioni, c’è una storia istruttiva su Ìjàpá, la tartaruga, che è anche nota come trickster nei racconti folcloristici Yoruba – una storia che getta un po’ di luce su quella che potrebbe essere una diversa ontologia della ricerca. In questa storia, Ìjàpá acquista una zucca calabash essiccata, famosa per il suo collo di bottiglia e buona per conservare il vino di palma. Lega una corda al collo della zucca e se lo appende al collo per partire alla ricerca di tutto ciò che c’è da sapere su tutto. 

Va dall’aquila per imparare il potere del volo, dal falò per scoprire i segreti del calore, dalle nuvole malinconiche per capire come si formano le gocce di pioggia e nel villaggio degli uomini per capire perché i bipedi sono così irrequieti e impazienti. Ogni volta che acquisisce nuove conoscenze, le raccoglie come si farebbe con un boccone di patate dolci pestate, e poi le spreme nella sua zucca che tiene appesa al collo. 

Ben presto la zucca è piena e Ìjàpá è assolutamene certo di essere il più saggio di tutti gli esseri. Forse più saggio persino degli dei. Accumula la sua scorta di conoscenze per giorni e giorni. A un certo punto decide che sarebbe meglio nascondere da qualche parte quel prezioso carico. Così entra nella foresta per cercare l’albero più alto e nessun albero è più alto del possente albero di iroko. Nel cuore della notte, lontano da occhi indiscreti, fa un primo tentativo di scalare l’albero. Ma, come forse sapete, la tartaruga non è molto abile ad arrampicarsi sugli alberi. I suoi arti non sono abbastanza agili e lunghi per abbracciare il corpo voluttuoso dell’albero. Inoltre, con il peso della zucca piena che porta al collo, scalare l’albero fino in cima è un’ardua impresa.

Proprio mentre sta per arrendersi, la tartaruga sente qualcosa che fruscia nell’erba lì accanto. Salta fuori la cavalletta che dice a Ìjàpá, di aver osservato tutta notte le sue peripezie. “Mi hai  fatto schiattare”, ridacchia la cavalletta indispettendo Ìjàpá. “Ma dai”, continua l’insetto, “potresti portare sulla schiena, invece che sulla pancia, quello che tieni in quella zucca. Vedi  un po’ se non ti funziona meglio”. E senza tanti giri di parole, l’insetto salta via. 

La tartaruga riconsidera la sua strategia, riesce a scalare l’albero e si ferma in cima  per ragionare su quello che è appena successo. Si rende conto della sua follia. “No non sono poi la più saggia”, confessa a sé stessa. “Forse non è raccogliendo conoscenze che si diventa saggi”. Solleva la zucca e ne rovescia il contenuto restituendolo al mondo.

La follia della tartaruga: che fare di un mondo che trabocca

La storia della tartaruga, mi veniva raccontata in Nigeria da bambino. L’ho letta nei libri e l’ho sentita alla tele. Da allora ho dimenticato quali insegnamenti avrei dovuto trarre dall’ascolto e dalla lettura. Insegnamenti che probabilmente  avevano a che fare con l’umiltà, l’obbedienza ai genitori e la memoria del privilegio di avere una comunità. 

Alla fine mi sono lasciato alle spalle tutte quelle storie come cose infantili che non avevano nulla a che fare con il mondo degli adulti in cui avrei dovuto vivere: il mondo degli ismi e delle lauree e dei panel e degli intellettuali africani che ci passavano le riflessioni degli uomini bianchi del XVIII secolo che la sapevano più lunga di noi. 

Per la maggior parte della mia vita accademica, mi è stato detto che la conoscenza era una cosa fissa, già incartata in pacchetti deterministici di relazioni causa-effetto. Il mondo era fondamentalmente dotato di senso, sempre aperto all’analisi razionale, eventualmente scopribile nella sua interezza (una teoria del tutto, no?), e decisamente muto e morto se messo a confronto con l’intelligenza e l’agenzia dell’ “umano”.

Un mondo del genere, privo di mistero e incanto, descritto in modo così esaustivo da maschi bianchi benestanti, cominciò a sembrarmi problematico e sospettosamente unilaterale. Ho iniziato a indagare gli effetti della colonizzazione sui modi con cui inquadriamo la conoscenza, la guarigione, il benessere, l’economia, la politica e la speranza. Alcune figure come Wole Soyinka, Chinua Achebe, Walter Rodney e Jorge Ferrer mi hanno spinto a intraprendere un percorso decoloniale – non di riallineamento con un passato “originale” come quello che qualcuno sperava di ritrovare, ma in una dimensione fuggitiva in cui poter percepire responsabilmente il molteplice sotto il baldacchino dell’universale. 

Ho iniziato a parlare e a scrivere di altri mondi, di altri luoghi e della figura razzializzata dell’ “umano”. L’Antropocene stava già diventando un tormentone in un’etica planetaria che cercava di riconciliare gli esseri umani. Per cercare di decostruire la duplicità di questi contributi eurocentrici, mi sono rivolto alle teorie femministe, alla pensiero critico ecosistemico del neo-materialismo, che già si erano impegnati a denaturalizzare gli sforzi della scienza illuminista nel produrre conoscenze del genere “cosa fatta capo a”. Per me, la lotta consisteva nel disturbare la tesi coloniale dell’unicità del mondo e le sue pretese di esclusività. Questi concetti, che non vanno intesi come una verità rivelatrice o deve essere preso come divino o “nuovo”, mi hanno aiutato a capire che la scienza non è solo un’idea.

E poi, ancora una volta, mi sono imbattuto nella tartaruga. Non mi aspettavo che le storie della mia infanzia avrebbero avuto un grande significato per la mia vocazione decoloniale, ma rileggendo i testi sulla tartaruga e le sue avventure, e su Eshu, il dio trickster che si era imbarcato con gli schiavi yoruba miei antenati, sono rimasto colpito dalla loro implicita potenza: parlavano di un mondo fluido in cui la conoscenza era “impossibile” – almeno quel tipo di conoscenza che segnalerebbe qualcosa di risolutivo, definitivo, chiuso. Molto prima che Donna Haraway scrivesse di “conoscenze situate” e incarnate, queste storie esprimevano ciò che gli Yoruba avevano intuito: che conoscere il mondo significa segnarlo ed esserne contemporaneamente segnati. Che non esiste una conoscenza esterna che non coinvolga il conoscente nell’atto materiale di conoscere. Che la ricerca e il ricercatore sono co-prodotti dall’atto di conoscere – una nozione che ridefinisce la centralità del conoscente.

La storia di Ìjàpá mette in evidenza la materialità del conoscere. Sconvolge il fondazionalismo della conoscenza e invita il conoscitore a rivedere le sue pretese. Il racconto sottolinea una tensione che gli studenti del “neomaterialismo”(1)  frequentano e che è abilmente sintetizzato dal proverbio Igbo: “Il mondo è una mascherata danzante; se lo si capisce, non si può  restar fermi”. Il proverbio allude a un’idea di mondo che resiste alla stabilizzazione generata dal supposto sguardo esperto, un mondo che sfugge alle dinamiche di verifica dei laboratori, che vaga, istiga e si fa beffe dei tentativi umani di finalizzazione, e che fa muovere e danzare gli esseri umani per costringerli a negoziare con la sua astuta e imprevedibile promiscuità.

Per gli Igbo della Nigeria, la conoscenza (così come l’etica) è cinetica: conoscere il mondo significa alterare ciò che si conosce ed essere alterati dalla materialità del conoscere. Navigare nel mondo significa rendere possibili certi tipi di conoscenza ed escluderne altri. 

In un senso molto tattile, quindi, conoscere il mondo, conoscere qualsiasi cosa, significa dar forma e mettere in scena il mondo – e allo stesso tempo prender forma ed essere formati. Per esempio, saper riparare i computer significa avere il proprio corpo segnato e modellato da questa disciplina; passare il tempo a lavorare in un cubicolo (2) significa diventare una creatura del cubicolo. Il fare misurazioni ha una dimensione più ampia di ciò che si misura. qualcosa che dà forma al fenomeno del misurare.

Non abitiamo un universo indipendente dall’osservazione, in cui l’essenza della conoscenza consisterebbe nel cogliere o rappresentare in modo adeguato fenomeni “naturali” come ossa, batteri e buchi neri. Invece interveniamo così intimamente quando rispondiamo alla “natura” che la modifichiamo in modo fondamentalmente anche solo interagendo con essa, anche solo descrivendola, e sia noi che la “natura” (come se le due cose potessero essere separate) ci trasformiamo nello stesso momento.

Conoscere significa mettere in atto il mondo; conoscere significa modificare il presunto oggetto della nostra cognizione. Osservare significa alterare ciò che osserviamo. Abbiamo più possibilità di catturare il nostro riflesso in uno specchio che di comprendere il mondo come se fosse un contenitore fatto di oggetti intelligibilmente discreti e separati con proprietà fisse che attendono le nostre misure precise. 

Tendiamo a immaginare il pensiero come qualcosa di completamente spettrale, immateriale, trascendente e ultraterreno – e la vocazione a conoscere come una registrazione del tutto esterna dei codici invariabili e determinabili del mondo materiale. Una simile immaginazione posiziona noi “umani”, come se vivessimo al di fuori del mondo e allo stesso tempo rende centrali e amplifica le nostre attività sul pianeta. 

Ciò che la storia della tartaruga e il proverbio Igbo ci insegnano, rilette oggi attraverso nuove intuizioni materialiste, è che il pensiero, o il pensare, nasce da un movimento materiale di corpi (non necessariamente umani e persino non animati) che danzano insieme. Una rivitalizzazione performativa del pensiero corporeo come matrice rizomatica tentacolare che intreccia i corpi in una rete in continuo divenire. Il modo in cui conosciamo ha a che fare con i movimenti che facciamo. Non riflettiamo sul mondo, lo mettiamo in atto. Allora fare ricerca non significa catalogare il mondo accumulando dati consumabili, ma toccarlo e trattenere il respiro ed essere toccati in una restituzione orgasmica, e poi secernere “esempi” sufficientemente stabili (invece di categorie o prototipi paradigmaticamente fissi). Prestare attenzione al mondo diventa un poter fare in tensione artistica con il mondo; assistere alla caduta in rovina dei nostri ambienti significa testimoniare insieme la nostra fine collettiva.  

Questa visione della conoscenza è particolarmente congrua oggi nell’era  ormai nota a molti dell’Antropocene – un termine controverso coniato nel 2000 da Paul Crutzen e Eugene Stoermer che assegna un nuovo nome geologico all’epoca post-olocenica in cui presumibilmente viviamo. Questo nome sottolinea gli effetti negativi dell’attività antropica e le tracce tossiche dell’industrializzazione che la documentazione geo-stratigrafica rivela. Il termine è controverso perché accomuna  [nel riferimento all’ Anthropos] tutte le comunità umane, come se tutte fossero state ugualmente complici in questa modalità di “conoscere” il mondo in modi ormai riconosciuti come deleteri. Ciò che è importante notare è che il termine ha avuto una certa utilità nel suscitare una conversazione (per quanto sbilenca e parziale) che rivela un’insurrezione di corpi un tempo invisibili: è come se il mondo non umano e le ecologie che hanno a lungo sovvenzionato le nostre pretese di centralità e superiorità si stessero ribellando, ritirando il loro consenso e irrompendo attraverso le mura accuratamente consacrate delle civiltà che abbiamo costruito dalla fine dell’era glaciale. Il mondo fa spallucce e, nella sua critica torrenziale agli insediamenti moderni, mette in discussione i modi di conoscere che hanno reso “noi” abitanti umani così problematici.  

Volendo navigare il contrasto tra una nozione relazionale/ecologica/non duale di conoscenza e una dualistica, aggiungerò qualcosa.

Uno dei modelli moderni di conoscenza – quello che si può chiamare il mito del ricercatore privilegiato ma in una gabbia dorata – separa il conoscitore dal mondo, immagina entrambi a partire da categorie binarie separate. Il conoscente sarebbe un soggetto dotato di capacità pre-relazionali in grado di rappresentare il mondo così com’è. Il conosciuto se ne starebbe in un’esteriorità passiva in attesa che vengano impiegati gli strumenti e le misure appropriate per rivelare le sue dimensioni nascoste. 

In questa cosmologia eurocentrica di rappresentazioni e descrizioni, il mondo resta in attesa di essere svelato. L’umano resta sovrano. Essere istruiti significherebbe conquistare gli strumenti adeguati per temperare la ferocia della natura e per attingere alle sue risorse. L’accento sull’ estrattivismo coloniale non è un caso: il rappresentazionalismo è una performance del sapere impegnata a privilegiare il soggetto umano come conoscitore privilegiato e oscura il ruolo dell’ambiente nel produrre non solo la conoscenza, ma anche colui che è “supposto sapere”. È una dialettica di soggetto contro oggetto, di conoscente contro conosciuto. Questa dinamica che presuppone che il vero sapere sia un riflesso speculare dell’immagine del conoscente, è al centro del moderno progetto illuminista e struttura l’università coloniale. L’indagine si basa sul controllo, sulla previsione, sulla descrizione e sulla strumentalizzazione. Naturalmente, questa epistemologia ha favorito a lungo gli uomini bianchi e ha oggettivato i corpi neri e le donne. 

Come già accennato, la modernità anela alla stabilità e all’uniformità. Vuole indicizzare il mondo, categorizzarlo, stabilizzarlo e renderlo funzionale ai nostri obiettivi (per “nostri” si intenda “moderni e bianchi”). L’avvento dei big data e la continua Google-izzazione del mondo sono solo esempi di come il mondo moderno costruisca il suo sapere. Tuttavia, come la tartaruga nella storia Yoruba, nell’Antropocene la modernità si trova di fronte a uno scandalo e non se ne capacita: gli eventi degli ultimi decenni hanno turbato quella versione lineare della conoscenza. Siamo testimoni di un mondo che si rovescia, di un mondo che devia dalle categorie assegnate, di un mondo che supera le nostre modalità di rappresentarlo. 

Questo imbarazzante eccesso di mondo mette in discussione la nostra centralità colonizzatrice, costringendoci (3) a prendere atto di come abbiamo ridotto il mondo a nostra immagine e somiglianza.  

Prima dell’introduzione del termine Antropocene, i movimenti femministi del cosiddetto “Nord e Sud globale” hanno lottato per dare potere alle donne in un sistema dominato dagli uomini e, in tempi più recenti, hanno sottolineato come anche la relazione con l’ambiente sia stata dominata dal patriarcato bianco. Gli ecofemminismi, i nuovi materialismi e i postumanesimi critici sono nati da questo impegno energico, dalle domande sulla vitalità delle ecologie, sull’influenza della terra sul pensiero e sull’interdipendenza degli esseri umani. Queste nuove discipline segnalano una “svolta” un “riorno” verso la natura – non la natura come risorsa, ma la natura come agency, come continuità vitale che resiste a ogni articolazione definitiva.

Ri/volgersi alla natura

Molte saggezze indigene non occidentali hanno preceduto questi sviluppi accademici. Da sempre parlano di una terra viva, di un mondo animato che non si limita ad assecondare i nostri ansiosi desideri di intelligibilità. Gli Yoruba, per esempio, parlano di “Awon Iya Wa” ovvero delle “Nostre Madri” come di una misteriosa forza terrestre, fonte segreta di potere che si manifesta e incarna maestosamente, nei corpi delle madri anziane. Queste vengono chiamate “Aje”, che i contenitori concettuali coloniali hanno tradotto con “Strega”. I concetti yoruba di “aje” e “aśe” sono simili alla forza misteriosa di “Manitou” ben nota ai popoli algonchini. La ricercatrice indigena Vanessa Watts parla di un “pensiero del luogo”, un concetto che de-sacralizza gli umani e situa la persona in una dimensione relazionale che procede dalla terra. Anche la ricercatrice occidentale N. Katherine Hayles scrive di reti cognitive non coscie, dimostrando che la “mente” e le sue presunte proprietà non si celano nel cranio.  In altre parole siamo estensioni performative degli ambienti che abitiamo. 

In breve, questi campi indicano la possibilita di una diversa ontologia della ricerca e mettono in discussione le abitudini eurocentriche delle modalità di  rappresentazione e osservazione. Ancora una volta, conoscere il mondo non significa porsi in una posizione di fredda esteriorità; conoscere significa riconfigurare ciò che si conosce ed essere a propria volta riconfigurati. C’è un’intima reciprocità che lega “soggetto” e “oggetto” in uno stretto intreccio relazionale 

Il richiamo dell’ecoversità

La promessa delle ecoversità, a mio avviso, risiede nella destabilizzazione dell’umano come categoria separata e del mondo come qualcosa di stabile da conoscere o da ricercare, nel senso passivo del termine. Le ecoversità di oggi possono contribuire collettivamente a disturbare le forme di indagine “umaniste” che abbiamo adottato e che hanno contribuito a generare indifferenza nei confronti delle agenzie più-che-umane che ci plasmano. Possono contribuire a segnalare la fine del progetto illuminista, del soggetto indorato e del ricercatore privilegiato. 

L’ecoversità è l’ambiente del ricercatore postumanista. Con “ricercatore postumanista” non intendo il filosofo addestrato all’arte di pensare la porosità della figura umana o il postumano. Se dico “ricercatore” non intendo privilegiare lo sguardo umano. Con ricercatore postumano mi riferisco all’intreccio di soggetti-oggetti ancora da nominare; intendo dire che il mondo è così ricco, così abbondante, che supporre di essere gli unici incantati da questa meraviglia significa perpetuare una sorta di cecità oggi particolarmente problematica; intendo richiamare l’attenzione su coalizioni più ampie e selvagge di cui abbiamo sempre fatto parte; Intendo dire che gli alberi, i cetacei e le comunità batteriche che vivono come ecosistemi immigrati nelle viscere umane stanno conducendo una propria ricerca; e vorrei fare un cenno agli antenati che indugiano in luoghi spettralmente ontologici [hauntological sites],  infestando i nostri mobili e alludere ai corpi esotici/mostruosi che disturbano la fissità di ciò che significa essere umani; intendo cantare un mondo che è più-che-mondo, più-che-sapere, più-che-essere, sempre in divenire. 

L’ecoversità non può che resistere a mappature definitive, ad articolazioni finali, perché ci invita a un’alterità inquietante, e ad abbracciare altri spazi di potere al di fuori delle torri d’avorio e del loro umanesimo liberale (o forse in dimore troiane clandestine). L’ecoversità è un “non dire” apofatico, un rifiuto di essere assolutamente certi di cosa sia una foglia, il rifiuto di strumentalizzare il mondo con certezze tali da togliergli ogni  meraviglia. L’ecoversità è una postura di umiltà, in un universo incommensurabile che ridimensiona il privilegiato conoscitore umano – è un ritrovarsi nelle crepe dell’asfalto riconoscendo che il non sapere non è meno prezioso delle abilità e dei gesti che reifichiamo come sapere, anche se solo per un istante. L’ecoversità è ciò che potremmo fare se ci immaginassimo all’improvviso su un pianeta alieno, immersi nell’eccentricità di un mondo che non risponde alle nostre solite spinte, alle nostre provocazioni, ai nostri atteggiamenti etici e alle nostre razionalizzazioni puritane, e se ci rendessimo conto di essere in una situazione che in buona parte ci sfugge.

Toccare il mondo ed essere toccati a nostra volta

Lo scrittore e professore di Black Studies, Fred Moten, parla dello studio come del superamento dei contenitori in cui lo abbiamo rinchiuso. Proprio come la musica non inizia quando il direttore d’orchestra entra nella sala e impugna la bacchetta, ma prende forma nell’attesa e nella preparazione che precede l’evento poi permea il godimento nell’esecuzione e indugia anche dopo, nelle conversazioni all’esterno dell’auditorium, studiare è un’impresa più complessa e selvaggia di quanto si ritenga. Questo vale anche per la ricerca. 

Che aspetto avrebbe la ricerca se immaginassimo che si svolge al di là dei documenti, dei laboratori e delle pratiche di peer review? E se anche le radici stessero conducessero una ricerca sul campo? Magari in questo momento le particelle virtuali stanno svolgendo una loro ricerca sul mondo nel suo essere-divenire. E se la ricerca significasse metterlo al mondo il mondo? Immaginare questo significherebbe decentrare la funzione umana (soprattutto la figura maschile bianca e benestante) dagli algoritmi della ricerca. Momenti apparentemente insignificanti, casuali e per lo più invisibili, verrebbero considerate forme di ricerca. 

Le nonne che raccontano ai bambini storie della buonanotte sarebbero una forma di ricerca. Condividere sentimenti di gelosia in una cerchia di amici e sconosciuti sarebbe una forma di ricerca sull’ontologia della gelosia – non per scoprire cosa “sia” la gelosia in una qualche riduzionistica modalità, ma per sentire come si sta manifestando, per percepire l’inappropriatezza delle nostre categorie e per essere aperti a quali altre questioni potrebbero emergere. Sì, anche il sentire potrebbe essere considerato costitutivo di come il mondo vien messo al mondo, all’interno di un arazzo di affetti che va oltre le impressioni atomistiche dei nostri sé individuati e che coinvolge nella sua eccessività corpi ancestrali, segreti, rituali, poteri e profezie. 

In breve, l’ecoversità fa uscire di prigione la ricerca, quasi nello stesso modo in cui la tartaruga libera e riversa il contenuto della sua zucca nel mondo. 

Andrebbe al di là degli obiettivi di questo breve saggio delineare tutti i possibili approcci, le metodologie e istanze di “studio fuggitivo” evitando di reificare il progetto dell’ ecoversità come sito vitale per la produzione di nuovi corpi. Questo esercizio richiederebbe un lavoro di mappatura che contatti la moltitudine di approcci, cosmologie e impegni in atto in questi tempi. Questa mappatura sarebbe un processo continuo, da non confondere mai con il lavoro di indicizzazione che la colonizzazione propizia. Una condivisione di ricette, non di prototipi. Una raccolta vivente di esempi, non di documenti statici. Una bussola di domande, non un’arringa biblica di risposte definitive. 

Sebbene un elenco di pratiche non sia possibile in questa sede, possiamo almeno offrire alcuni esempi e poi cercare di contestualizzarli all’interno del nostro travagliato ambiente – dimostrando perché abbiamo bisogno di avvicinarci al mondo in modi così diversi da quelli che il mondo classico delle università ci invita a fare. 

In effetti, l’ecoversità è una risposta all’urgenza di rallentare. L’Antropocene, nella sua stranezza aliena, introduce un senso pervasivo di mancanza di dimora e di qualcosa che manca negli insediamenti moderni: il mondo che una volta escludevamo ci sta precipitando addosso, confondendo le equazioni e gli algoritmi a cui siamo abituati. Il cambiamento climatico, un eufemismo per indicare l’Antropocene, ci stressa, tirandoci per la giacca. Una risposta ricorrente degli Stati nazionali, delle istituzioni e persino dei movimenti per la giustizia climatica è stata quella di cercare di bloccare il fenomeno, di chiedersi quali soluzioni tecnologiche possiamo mettere in campo per aspirare il carbonio dall’atmosfera. Per forzare una legislazione che imponga limiti alle emissioni.  Sebbene questa linea di indagine sia importante, occlude altre forme di ascolto, di creazione di senso e di conoscenza. Annulla il tipo di domande che una sensibilità postumanista (cioè una metafisica che rifiuta la centralità degli esseri umani e pensa agli ambienti come vivi e attivi nella creazione del mondo) potrebbe consentirci di porre. 

Le metodologie di ricerca post-umaniste (4) e post-qualitative sono modi di condurre l’indagine e di porre domande che privilegiano il non umano e tengono conto del modo in cui l’inclusione del non umano nell’assemblaggio della ricerca riconfigura la ricerca stessa. La fretta di trovare soluzioni lascia il posto a una modalità in cui stare con i problemi, a un rallentamento che riconosce che il “mondo” è più scaltro di quanto i nostri sforzi di strumentalizzazione possano o vogliano affermare. 

Le metodologie postumaniste sono approcci diffrattivi, mettono in gioco le interferenze, invece di riprodurre le posizioni precedenti. Un metodo che ho sviluppato e messo in pratica in circoli ccreativi di intelligenza collettiva, il Trail of Enlivenment, invita i partecipanti a porsi domande che ritengono importanti, e poi di incontrare e interagire con gli “oggetti” del loro ambiente in un modo “nuovo”, avvicinandoli non come oggetti da studiare ma come parenti e potenziali alleati (o anche elementi perturbanti) della propria ricerca. I partecipanti sono poi invitati a tornare alle domande iniziali e a modificarle, a prescindere dalla percezione che ciò che è emerso abbia o meno senso o ne abbia di più rispetto alle domande iniziali. Il processo è immaginato come espansione ontologica, per turbare il ricercatore nella certezza delle sue considerazioni. 

Nelle pratiche di scrittura creativa, l’insegnamento abituale enfatizza il ruolo dell’autoriflessività nella vita dello scrittore. Scavando nella propria interiorità, lo scrittore può estrarre gemme di intuizioni sul funzionamento soggettivo che possono servire per l’apprendimento trasformativo. Tuttavia, come alcuni ricercatori sottolineano, questo “scavare” presuppone che il sé e il suo archivio di esperienze possiedano un’interiorità assoluta che rende invisibili i contributi del mondo circostante al nostro divenire. Kay Are, ricercatrice dell’Università di Melbourne, fa eco alla biologa Donna Haraway affermando che gli oggetti che ci circondano sono “storie congelate” e che, quando “tocchiamo” il mondo, esercitiamo un’attenzione diffrattiva che rompe l’insularità del ricercatore privilegiato chiuso nella sua introspezione (5). I “tranelli dell’autoriflessività” sono di perpetuare il rischio di restare con ciò che ci è familiare, di rafforzare il razionale e di stabilizzare le dinamiche problematiche del potere. Abbiamo bisogno di approcci conoscitivi che ci avvicinino a una disciplina dell’altro mostruoso, di quel mondo che ci mette in riga. 

Ci sono altre forme di ricerca, esistono rituali e “tecnologie del compostaggio” che possono trovare spazio nell’ecoversità. Proviamo a “immaginare santuari”, non come luoghi sicuri (il santuario non è un rifugio), ma come luoghi in cui si può cadere a pezzi, in cui si può co-sensualizzare con il più-che-umano. Ho dedicato una parte significativa delle mie energie a pensare a forme di organizzazione o assemblaggio che potremmo sperimentare in un periodo di collasso climatico. La mia idea di santuario, ripresa dalle pratiche medievali che aprivano la via dell’esilio a chi era in fuga, privilegia la figura del mostro/gargoyle come agente di cambiamento. Iniziamo ad avvicinare il mostruoso nei luoghi in cui convidiamo un impegno che nasce dal nostro comune combussolamento, in cui iniziamo a nutrire una maggiore consapevolezza della nostra preoccupante tentacolarità (che corrode le solite categorie identitarie) e in cui speriamo di essere accolti da un mondo più grande di noi, questo è l’invito del santuario. 

Ho scritto altrove che: “L’invito del santuario non è quello di riconquistare padronanza sugli elementi, di affermare il nostro dominio, di proporre il controllo,  di sconfiggere i sistemi oppressivi con la critica e la resistenza, non è di diventare cittadini più giusti e più buoni, non è quello di diventare illuminati e non è quello di sperare troppo fervidamente in una qualche soluzione alla crisi climatica.  C’è un non sapere che si agita nel cuore di questa impresa, che riecheggia nella lettera di Paolo ai Romani: ‘Non sappiamo per che cosa dobbiamo pregare, ma lo Spirito stesso intercede per noi con gemiti senza parole.’ Questo gemito intercessorio, inter-carnazionale del santuario è un luogo di fragile indagine, di celebrazione festosa, di studio rigoroso e di attenzione a ciò che vuole essere conosciuto”. 

Che sia all’interno dell’organizzazione di un “santuario”, o nell’abbraccio ammaliante dei racconti di una nonna o nella morsa psichedelica delle piante medicinali, lo “studio” (nel senso di Fred Moten) può dimostrare che noi “umani” non siamo gli unici in grado di produrre conoscenza. In definitiva, il movimento dell’ecoversità può trovare una vocazione nell’alchimia dei metodi, nella mappatura delle strategie, nella conduzione di tour di ascolto e nella condivisione di ricchi spazi di non-sapere collettivo – come mi sembra stia già accadendo. Mettere in rete queste onto-epistemologie nomadi e queste soggettività nomadi potrebbe contribuire a generare mondi potenzialmente più saggi, economie, politiche e tecnologie più sagge. Potrebbe contribuire a sviluppare approcci, sensibilità, domande, ricette che difficilmente disponibili nelle epistemologie di ispirazione occidentale. Potrebbe aiutarci ad affinare i nostri sensi su come stiamo mutando attraverso la ricerca. Non basta essere d’accordo sul fatto che il mondo è vivo: dobbiamo mettere in pratica questa affermazione. Se non lo facciamo, rischiamo di dispiegare i soliti imperativi epistemici dello sguardo illuminista e di riprodurre le dinamiche da spettatori che ci lasciano intatti. 

Una conseguenza che è una via di mezzo

Mi sono spesso chiesto cosa ne sia stato della tartaruga dopo che aveva riversato il suo tesoro sull mondo, ora che si era improvvisamente impoverita senza nulla di proprio se non una zucca vuota. Forse è scesa avvilita dall’albero; forse si è messa a camminare lentamente per i campi, spenta e come morta. Ma le conseguenze e i finali non sono mai state strategie narrative adeguate quando ragioniamo di una figura trickster come la tartaruga. L’imbroglione ha bisogno di continuare a vivere, di continuare a sventare tutti gli sforzi di stabilizzazione e i convenienti porti di approdo, di disturbare l’architettura che privilegia il narratore rispetto all’ascoltatore della storia. Chiedersi cosa succede dopo significa tornare al centro del racconto. 

Con l’ecoversità, la fine è indeterminabile, l’inizio è inconsolabile. Tutto ciò che abbiamo è questo denso mentre, nel bel mezzo. Questi momenti postumani. Questi inviti allo stupore e alla meraviglia. Questi modi di conoscere che non esitano a lasciarci tremanti in estasi, dolore e confusione. Questo rientrare in un mondo che non ci siamo mai veramente lasciati alle spalle. Questo scendere a terra.

Incontriamoci lì. Nel mezzo.    

Note:

(1) Il nuovo materialismo è il campo interdisciplinare che intreccia studi critici e meraviglia e riunisce gli approcci teorici per ripensare il mondo materiale come agenziale, vitale, vivo e intelligente – rifiutando l’enfasi storica sulla figura umana come unico contenitore o emittente di questi attributi. 

(2) Uno straordinario team ha costruito una bambola a grandezza naturale di nome “Emma” per rappresentare come potrebbero diventare i nostri corpi se non modificheremo il modo in cui sono composti gli spazi e gli ambienti di lavoro. Emma ha le gambe gonfie, le vene varicose, la gobba, gli occhi arrossati per aver fissato troppo a lungo lo schermo del computer, è sovrappeso e soffre di un eczema causato dallo stress. https://www.sciencealert.com/this-representation-of-the-next-generation-s-office-worker-is-terrifying. Conoscere lo spazio dell’ufficio significa essere conosciuti dallo spazio dell’ufficio.

(3) Di quale “noi” stiamo parlando? Non intendo certo ripetere o perpetuare le generalizzazioni del termine Antropocene, né nascondere le eredità delle colonizzazioni estrattive, imperialistiche e colonizzatrici che costituiscono in buona in parte la storia dell’Antropocene. Ma nell’uso del termine Antropocene si può dedurre qualcosa di più della complicità e della colpevolezza. Si può intuire l’intreccio. Il termine può essere letto come se suggerisse quanto sia problematica l’idea di una nostra indipendenza, quanto sia già problematica la purezza etica e quanto siano intra-connessi sia il colonizzatore che il colonizzato. 

(4) Il postumanesimo ha molti filoni e resiste a una definizione univoca. Ma il ricco campo condiviso è il ripudio del dualismo. Il rifiuto di ri-privilegiare e centralizzare gli esseri umani come fonte di agency o guida al cambiamento. La letteratura è ricca di esempi di termini come more-than-human, not-quite-human, com-post-human e di ciò che gli Yoruba chiamano “aye”. Ho scelto di usare questi termini nel mio lavoro per segnalare un mondo di differenze senza far naufragare la comprensione dell’intreccio [entanglement] in quella semplificazione colloquiale che ritiene che “tutto è connesso” e indifferenziato. Inoltre, con umiltà, scrivo in quanto creatura ibrida che ricombina le mie radici indigene Yoruba e la ricerca euro-americana. Queste posizioni teoriche sono offerte fragili e modeste che non parlano (e non possono parlare) delle particolarità di tutti i contesti.

(5) Si veda il lavoro di Are in “Touching stories: Objects, writing, diffraction and the ethical hazard of self-reflexivity” (TEXT Special Issue 51: Climates of Change, ottobre 2018). http://www.textjournal.com.au/speciss/issue51/content.htm 

Una nota dei redattori di Ecoversities:  “Questo saggio è una trasversalità di corpi. Spero che sia diffrattivo e che non dica alle persone cosa devono fare. Spero che aiuti a sciogliere i vincoli che legano le persone che lo leggono ai quadri etici, materiali ed epistemologici della modernità”, 

[estratto da una conversazione con i curatori durante il processo editoriale.]

Il saggio originale in inglese è stato pubblicato da Ecoversities vedi il link

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